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tra arte e scienza: tecnica

Argomento: Alimentazione

di Simone Carunchio
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Pubblicato il 02/05/2017 17:18:02

Ogni Autore, ogni Poieta, ogni Giuridico, attraverso il suo Diritto, e cioè attraverso la sua capacità interpretativa del passato del presente e del futuro, che sia esso Scrittore, Pittore, Musico, Scultore, Giurista, Fotografo, Economista, si dà una sua Legge e questa Legge, in modo patente o latente, la trasmette anche agli altri. Alcuni ne danno una forza superiore alle altre. La Forza e il processo di questa Legge, in generale, sono sempre le stesse: identica è infatti la meccanca della Logica e della Ragione.
Sarà Salvador Dalì la coercitiva Legge (quella che adesso verrà chiamata la ‘Legge dell’Elefante’), sulla quale, da Giuridici, ci si eserciterà, e si eserciterà il proprio Diritto, la propria Interpretazione, il proprio Diritto di Parola, e, soprattutto, alla Parola.
E non si potrebbe fare altrimenti per poter in poche righe cercar di delimitare la sua figura: solo ad armi pari, e cioè con le stesse armi, è possibile riuscire in una tale impresa. Ci si riferirà dunque, necessariamente, alle opere del Dalì stesso; e, anzi, il riferimento a questo grande classico del novecento, attraverso questa terminologia giuridica, è già in atto: Dalì stesso era ben consapevole della forza del registro giuridico, che, da Scrittore, più volte utilizzò. Ad esempio è interessante a quest’ultimo proposito riportare la fine del famoso libro I cornuti della vecchia arte moderna: “Letto, approvato e sottoscritto: Salvador Dalì”: sembra proprio che egli abbia approvato e promulgato un testo legislativo.
Ma non è certo su questo aspetto che si ha intenzione di soffermarsi, perché, sempre nel rispetto del Dalì e della sua opera, essendo egli un grande immaginifico, è meglio rifarsi, appunto, a delle immagini, per tentare d’inquadrarlo, ed in particolare ad un’immagine ‘sua’: quella del ‘suo’ elefante (ed anche perché, se proprio ci si dovesse soffermare sulla terminologia daliniana, sarebbe sicuramente più divertente prendere in considerazione, ad esempio, quella gastronomica: registro che egli utilizza per le sue dissertazioni critiche e filosofiche ).
E ciò, prendere in considerazione la figura daliniana dell’Elefante, per due motivazioni: la prima è che questa figura, la figura dell’Elefante di Dalì, riconduce a Roma, città magnifica, che sembra, apparentemente, ma è proprio quest’apparenza che si vuole adesso sfatare, una delle città, per così dire, minori del pittore; e la seconda è che, se si dovesse mettere insieme un bestiario di Dalì, l’Elefante è una delle bestie meno rappresentate: e forse, esattamente per questo, è la più rappresentativa di salvador Dalì stesso.
Ed è rappresentativa proprio perché permette, ad attenta analisi, di parlare di lui in modo corretto e breve, dando la possibilità d’apprendere del suo passato e del suo futuro in modo chiaro e conciso, e, quindi, del suo eterno, e presuntuosamente infinito, presente: sono, infatti, gli elementi minori che spesso è possibile utilizzare come viatico per gli elementi maggiori: essi ne sono come un frattale degli altri, parlando geometricamente , o, parlando grammaticalmente, è come se i primi fossero metonimia dei secondi (o questi sineddoche dei primi).
L’Elefante, simbolicamente, è l’animale della saggezza e dell’intelligenza, della memoria, della purezza, della forza: tutte significazioni positive e recondite che è probabile, se non sicuro, che Salvador Dalì, vista la sua smodata passione per la simbologia, conoscesse: non è certo un caso che egli desiderasse disseminare il suo giardino a Port Lligat (ove si trova la sua stabile dimora, ora traformata in un museo, poco lontano da Barcellona) di crani d’elefante . Inoltre l’elefante è un attributo del dio Ermes o Mercurio, deità famosissime di cui sono ormai arcinote le caratteristiche e le proprietà, in particolare quella di avere le ali ai piedi.
L’elefante a cui si vuol fare riferimento, e che è l’esempio che Salvador Dalì fa suo, compare solo in quattro quadri dei millecinquecento che egli dipinse : uno del 1944 (Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana, un attimo prima del risveglio) , uno del 1945 (Idillio melancolico atomico e uranico) , uno del 1946 (La tentazione di sant’Antonio) , e l’ultimo del 1948 (Gli elefanti) ; ed è, forse, questo elefante, il rifacimento dell’elefante che si trova a Piazza della Minerva, a Roma, scolpito dal Bernini, ed eretto nel 1667; ma potrebbe essere, anche, quello presente nel Parco di Villa Orsini, a Bomarzo, eretto nel 1552, voluto dal Principe Vicino Orsini, che non è detto che Dalì non conoscesse, anche se non è attestata nessuna sua visita al suddetto giardino.
Come non identificare Salvador Dalì a questo elefante, all’elefante che egli dipinge sempre con i medesimi attributi? Si tratta di un elefante dalle gambe lunghissime, simili a quelle di un insetto (un ragno?), che si affaccia dalle nuvole e che porta in groppa un obelisco, principalmente, come quello romano del Bernini, ma non solo (qui il tocco di stile del Dalì): anche architetture da cui si affacciano seni turgidi di donna (apparentemente il riferimento è a R. Magritte), torri turrite (come l’elefante di Bomarzo)...
Ecco Salvador Dalì, uno degli artisti che, in linea con la più serrata cultura artistica latina, più si è fatto ispirare dalla Scienza (prima quella Psicanalitica e poi quella Fisica), che sembra comparire: come non leggervi, in questa specifica figura e Legge dell’Elefante daliniana, la precaria instabilità (rappresentata dalle gambe sottili e lunghe) di un cervello enorme (il corpo dell’elefante) che si slancia verso i cieli, portando sulla groppa simboli di tentazioni, quali l’obelisco, simbolo fallico per eccellenza, le architetture dalle quali escono sensuali corpi di donna, le torri…
Così egli commentò questa sua creazione: “L’elefante rappresenta la distorsione dello spazio … le zampe lunghe ed esili contrastano l’idea dell’assenza di peso con la struttura”. In questo modo dopo aver relativizzato il tempo con gli orologi molli, ecco che il Dalì distorce anche lo spazio…
Questa rappresentazione che egli propone di se stesso, e che è la stessa Legge a cui lui soggetto sottosta, compare proprio in uno dei periodi, forse l’unico (escludendo quello della vecchiaia, soprattutto dopo la morte della sua due volte moglie amatissima Gala, musa specialissima), di crisi creativa di Salvador Dalì, e segna un passaggio di cambio di orientamento di interessi per ciò che può ispirarlo nella sua attività artistica: dalla Scienza Psicanalitica egli comincerà ad interessarsi alla Fisica Atomica: l’elefante rappresenterà proprio questo faticoso e pesante passaggio.
Interessante rimarcare questa caratteristica dell’operare del Dalì, e cioè quella che egli sempre cercò ispirazione nella Scienza; una Scienza, si badi bene, che niente ha a che fare, in certo senso, ma non in altri sensi, con la sua Tecnica prediletta: non è certo dalla Psicanalisi o dalla Fisica Nucleare che è possibile apprendere la Tecnica Pittorica! (si può forse considerare questa caratteristica della comunicazione fra Arte e Scienza come uno dei tratti distintivi della Cultura latina rispetto alla Cultura di altre civiltà, ed in primo luogo a quella anglosassone) (ciò che dunque accomuna la Scienza e l’Arte, oltre la Filosofia, è forse, dunque, proprio la Tecnica; ma in fondo la Filosofia non è una Tecnica di Pensiero?).
Tornando alla questione in oggetto, la crisi di cui sopra è inoltre confermata, si crede, dalla grande copia di ritratti che il Dalì dipinse in quel periodo e dall’impegno in cui si profuse come scrittore, soprattutto conchiudendo il suo famoso libro La mia vita segreta. Anzi, è proprio in chiusura che egli annuncia il suo futuro periodo di rflessione critica in vista del cambiamento: “Quando, agli albori della cultura, gli uomini avrebbero posto le basi eterne dell’esteica occidentale scelsero, tra l’informe molteplicità delle foglie esistenti, la forma unica, lucente, della foglia di acanto, materializzarono così il simbolo occidentale eternamente opposto a quello dell’Estremo Oriente, ossia alla foglia di loto. E la foglia d’acanto, resa divina, non sarebbe mai morta … perché vive, preparando la sua nuova gloria, nel cervello di Salvador Dalì. Sì! Io vi annuncio la sua vita, vi annuncio la futura nascita di uno stile…”
Un passaggio di cambio di interessi che coincide anche con il suo nuovo afflato mistico, che comincerà ad affacciarsi in quegli anni (che egli accorperà alla Fisica Nucleare, fondando ciò che chiama il Misticismo Nucleare), e che coincide anche con la nuova patria d’elezione: dalla Francia egli comincerà ad andare sempre più spesso negli Stati Uniti d’America – in particolare a New York . Ed in una certa maniera, in realtà, è questo il periodo (quello degli anni quaranta) in cui l’eccentricità e la creatività di Salvador Dalì cominceranno sempre più a scemare. Non è un caso, mettendo in conto una buona dose di premonizione , di cui egli non era certo sprovvisto, come si vedrà, che l’Elefante rappresentato in quei quattro quadri è sempre più magro ed emaciato, forse sempre più anziano e vecchio (nel periodo preso in considerazione, Salvador Dalì, nato nel 1904, ha circa 40 anni e si trova precisamente nel mezzo della sua vita): sembra anche che la loro andatura sia sempre più lenta e stanca.
Non è adesso né il momento né il luogo di soffermarsi (già in tantissimi l’hanno fatto), nello specifico, su ogni quadro; ma è utile sottolineare, per avvalorare le ipotesi esposte in questo scritto, che nel primo quadro adesso preso direttamente in considerazione, del 1944, Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana, un attimo prima del risveglio, comincia ad affacciarsi la rappresentazione di quel Misticismo Nucleare, a cui si è fatto riferimento più sopra, attraverso l’inserimento, nel dipinto, di oggetti sospesi e che, allo sguardo, danno l’idea d’essere in rotazione (la melagrana intorno a cui rotea l’ape in primis). Nel secondo, del 1945, Idillio melancolico atomico e uranico, le famose figure molli daliniane (come ad esempio gli orologi ) cominciano ad essere abbandonate - sembra attraverso una riflessione sulle brutture del mondo, come la guerra, della quale Dalì pare ritrovarne le cause nell’attegiamento ateo surrealista - a favore di una fedele rappresentazione della realtà (sicuramente anche la tecnica pittorica del Dalì era migliorata sempre più rispetto agli esordi ). Gli elefanti sono qui due e se ne intuisce la presenza di un terzo, nascosto, grazie all’apparire, apparentemente ingiustificato, di un obelisco da dietro una roccia. Nel terzo quadro, quello del 1946, La tentazione di Sant’Antonio, gli elefanti rappresentati sono cinque; e nell’ultimo, del 1948, Gli elefanti, di una semplicità estrema, rispetto ad altre opere di Dalì, gli elefanti sono due e si fronteggiano. Quest’ultimo, guarda caso, ma forse non è proprio un caso, fu dipinto a Roma. Ed interessante notare come l’obelisco di ogni elefante non sia più poggiato sulla groppa, ma sia in sospensione, secondo le regole pittoriche del Misticismo Nucleare, che qui, timidamente, comincia definitivamente ad affermarsi, dopo aver fatto la sua apparizione nel 1944, come visto, in qualità di costante dell’operare del Dalì, ed è interessante notare come essi obelischi siano tutti sbeccati e in rovina, come ad indicaere che l’autore si fa vecchio. Vecchiaia,comunque, agognatissima dal Pittore. Così in La mia vita segreta: “Invecchierò finalmente? Ho sempre cominciato col morire, per evitare la morte”.
È da quest’ultima data, il 1948, d’altronde, come più volte rimarcato, che si affermerà il Misticismo Nucleare: del 1949, infatti, è il dipinto Leda atomica, di cui già solo il titolo è estremamente significativo delle intenzioni del suo autore.
Per quanto riguarda l’abbandono della Psicanalisi e della Psicologia, gettando dunque adesso un’occhiata sul passato di Salvador Dalì di poco precedente al periodo preso in considerazione, l’opera di riferimento è Autoritratto molle con pancetta fritta, che in questo modo Dalì stesso commentò: “Autoritratto antipsicologico; invece di dipingere l’anima, cioè l’interiorità, dipingere unicamente l’esterno, l’involucro, il guanto di me stesso”. È questo un quadro del 1941. Due anni dopo, nel 1943, Dalì dipinge Bambino geopolitico osserva la nascita dell’uomo nuovo: probabilmente quest’uomo nuovo è Salvador Dalì stesso, e cioè l’Elefante di cui sopra. È dell’anno successivo, dunque il 1944, come osservato, il primo quadro con rappresentato un elefante carico di architetture. Ed è sempre dal 1948, anno dell’ultima opera qui specificamente presa in considerazione, Gli elefanti, che Dalì comincerà ad invecchiare: forse per questo i pachidermi sono rappresentati più rugosi e sostengono un obelisco in rovina.

Si giunge così, finalmente, al tema specifico del titolo di questo scritto: Dalì l’Elefante e Roma. Sempre i critici e gli studiosi di questo grande pittore si sono soffermati sull’importanza della Francia o degli S. U. A. (Stati Uniti d’America) nella vita del grande Pittore spagnolo catalano; ma pochissimi hanno individuato l’importanza della città di Roma, come presenza costante, sempre latente, quasi mai patente, nella vita e nell’immaginario di Salvador Dalì. Importanza che si vuole qui sottolineare, attraverso questo preciso ed esplicito riferimento alla statua del Bernini (anche se forse potrebbe essere quella di Bomarzo …). Eccone alcuni dati.
Nel settembre del 1935 si ha notizia del primo viaggio di Dalì a Roma. Il suo mecenate Edward James lo invita a Ravello insieme a Gala e insieme a Garcia Lorca, il quale non seguirà, disgraziatamente per lui, la compagnia (sarà fucilato l’anno successivo nel corso della Guerra Civile spagnola che porterà al potere Franco). Una fotografia testimonia il loro passaggio, evidentemente turistico, a Roma: è una foto che ritrae i tre all’interno del Colosseo.
È poi nel 1938, sempre sotto invito di James, che i due vi soggiorneranno per due mesi di seguito, passandovi l’inverno, a casa di Lord G. Berners: una splendida dimora affacciante sui Fori.
Queste visite furono importantissime per Salvador Dalì; soprattutto perché si inquadrano già nella crisi degli anni quaranta. Così ne La mia vita segreta, Parte terza, Capitolo quarto: “Decisi di partire per l’Italia; mentre il mio paese attendeva il responso della distruzione e della strage, volevo interrogare una ben diversa sfinge, il Rinascimento. Sapevo che, dopo la Spagna, l’Europa intera sarebbe precipitata nelle rivoluzioni fasciste e comuniste, e che dalla miseria delle dottrine collettiviste doveva fatalmente formarsi un nuovo Medioevo, che reintegrasse i valori individuali, spirituali e religiosi … Mi aggiravo per Roma”.
È poi nel novembre del 1948 che Dalì torna a Roma per assistere alla prima di Rosalina o Come vi piace di W. Shakespeare al Teatro Eliseo, spettacolo diretto da L. Visconti, di cui la scenografia e i costumi furono da lui disegnati. Per l’occasione la casa editrice d’arte Carlo Bestetti pubblica un testo del Dalì, Bonjour, e la Galleria dell’Obelisco (guarda caso proprio “dell’Obelisco”, come quello in groppa agli elefanti) organizza la “Prima mostra in Italia di Salvador Dalì” (Come visto, è proprio in questo periodo che il Pittore dipinge i quadri di cui sopra, che trovano come soggetto l’Elefante, soprattutto l’ultimo considerato, Gli elefanti, esattamente dello stesso anno).
Ritorna a Roma anche nel novembre del 1949. In questo caso le ragioni della visita cambiano; non sono più storico-artistiche, ma religiose: Salvador Dalì è ricevuto in udienza da papa Pio XII, al quale mostrerà una versione del quadro dal titolo La madonna di Port Lligat. Questo incontro viene rievocato anche nel libro Diario di un genio al 10 settembre 1956; evento che però non è collocato temporalmente nel 1949 ma nel 1954; e vi viene anche confessato, in quelle pagine, lo scopo di questa visita: “fra i trecentocinquanta scopi della mia visita, il numero uno era una pratica per ottenere l’autorizzazione di sposare Gala in chiesa: una cosa difficile perché il suo primo marito, Paul Ѐluard, era, per la felicità di tutti, ancora in vita”. Interessante rimarcare che è esattamente nel corso di questo viaggio che il Nostro dipingerà uno dei suoi rarissimi acquerelli (rarissimi perché il Dalì si concentrerà più che altro sulla tecnica ad olii), dal titolo Roma, ritraente la veduta di Ponte Sant’Angelo, di Castel Sant’Angelo con, sullo sfondo, la cupola di San Pietro. Non è proprio un capovolavoro, occorre affermarlo, ma sicuramente si può intraedervi l’importanza che questa città ebbe per il Pittore. Che questa veduta dovesse essergli piuttosto cara, è confermato dal fatto che in uno schizzo inserito ne La mia vita segreta, in una delle ultime pagine, la prospettiva disegnata è esattamente la stessa.
Vi soggiorna poi nel maggio del 1954 in occasione della prima retrospettiva in suo onore, organizzata nel Casino dell’Aurora del Palazzo Pallavicini Rospignosi. Questa mostra fu organizzata in primo luogo per presentare i disegni e le illustrazioni che il Governo italiano aveva nel 1950 commissionato a Dalì per la Divina commedia. A questo proposito non si può non sottolineare come Dalì medesimo riveli che quell’opera non l’aveva mai letta . Così i giornali riportarono l’evento (è Dalì che riporta l’articolo in Diario d’un genio, all’inizio del 1958): “Nei giardini illuminati con torce della principessa Pallavicini, Dalì rinasce, sorgendo all’improvviso da un uovo cubico ricoperto di iscrizioni magiche di Raimondo Lullo, e pronuncia un discorso esplosivo in latino”.
Nel 1959 Dalì ritorna dal papa. Questa volta si tratta di Giovanni XXIII. È forse in quest’occasione che si profila il progetto di confidare al Pittore un quadro rappresentante il mistero della Trinità da esporre nel corso del successivo e prossimo Concilio ecumenico .
Chiaramente non furono solo questi i rapporti che Dalì intrattenne con l’Italia: egli frequentò anche Milano, Venezia, Cortina D’Ampezzo, la Sicilia; ma non è questa la sede per approfondire, né in realtà si aggiungerebbe di più a ciò che si sta perseguendo, anche perché nessuno di questi altri luoghi lasciò delle tracce evidenti nelle sue opere pittoriche.
È forse più interessante notare che, in ambiente artistico, parlò di lui, già nel 1928, F. T. Marinetti, il quale lo elesse ad uno dei suoi adepti; e dal quale, però, il Dalì subito si allontanò in quanto il suo Manifesto giallo – Manifesto Anti-artistico catalano fu bollato di futurismo e quindi “fuori moda”: un’onta, per un autore, come lui, che non cercava altro che lo scalpore e la notizia. Per quanto riguarda, al contrario, ciò che scrisse il Dalì su altri artisti, nello specifico italiani, oltre al suo smodato interesse per il Rinascimento, appena dopo la svolta mistica che si è più su tratteggiata, e quindi per, in particolare, Raffaello e Leonardo da Vinci, egli si occupò di Burri e di Boccioni, preferendo di gran lunga il secondo al primo. Così si può leggere in Viva l’arte moderna a condizione di dipingere a partire da Raffaello: “e in particolare Boccioni, il grande genio futurista”. In I cornuti della vecchia arte moderna, così su Burri: “Benché eternamente ed allegramente cornuto, Burri, nondimeno, si appende sopra la testa queste lordure” (sta qui parlando della schizzinosità di molti nell’avere a che fare e nel parlare di escrementi. Non perde quindi occasione, il Dalì, di manifestare ancora una volta la stima per gli antichi Romani citando il Conte de Caylus: “A Roma non si facevano problemi a parlare di merda. Orazio, il delicato Orazio, e tutti i poeti del secolo di Augusto ne parlano in cento punti delle loro opere”).
E forse è interessante ancor più rimarcare che durante il più intenso periodo romano, in cui, come si cerca di dimostare, Dalì cominciò ad avere la sua svolta mistica (arrivando poi ad affermare nel 1968, in La mia rivoluzione culturale: “Io, Salvador Dalì, Cattolico Apostolico e Romano”), egli si preparò anche, come accadde a J. Derrida qualche decennio dopo , per la precisione due, a conquistare gli S. U. A. (forse in Italia non girava abbastanza denaro): si tratta insomma di un periodo di transizione, di passaggio; in fondo del passaggio dell’Elefante: un momento di crisi e di cambiamento del pachidermico Salvador Dalì, il quale, in questa sua latente ossessione per Roma, forse riesce a mostrarsi sinceramente e facilmente (le sue opere sono spesso di difficile lettura e interpretazione) attraverso l’artificio dell’Elefante; e riesce, anche qui con una certa dose di premonizione, a realizzare una delle più stupefacenti previsioni a se stesso autodettate.
Nel suo diario, il 12, 13, 14, 15, 16 aprile 1920 (all’età di sedici-diciassette anni) annota in questa maniera: “Finirò il liceo il più velocemente possibile … Poi, partirò per Madrid, alla Real Academia de Bellas Artes. Ho l’intenzione di lavorare come un matto … Dopo, vincerò una borsa di studio per passare quattro anni a Roma; e, rientrando da Roma, sarò un genio e il mondo tutto mi ammirerà”.
I tempi non sono certo stati rispettati, ma la premonizione … sicuramente sì: è infatti dopo aver frequentato Roma che il suo genio fu ammirato nel “mondo tutto”.

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