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Un libro lungo millenni

Argomento: Esoterismo

di Andrea Pighin
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Pubblicato il 23/04/2018 11:22:46

Il passato è innanzitutto una dimensione del tempo. Il pensiero dello scorrere del tempo si lega inevitabilmente a un sentimento, poiché tendiamo sempre a creare un rapporto con gli altri esseri umani, o con determinate circostanze (se non persino con gli oggetti), e a un livello materiale questo può accadere solamente in relazione al tempo trascorso, ovvero al ricordo. Questo legame è dunque consolidato dalla memoria, che è la nostra coscienza delle cose passate. Non sbagliò Italo Svevo, quando ne La coscienza di Zeno scrisse: «Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia». Storia e memoria sono infatti il simbolo del sentimento che noi proviamo verso ciò che è passato, sia a livello personale, che collettivo.
 
Non pare infatti che possa trattarsi di altro che di sentimento; è facile, per esempio, tornare con la mente ad incontri significativi della propria vita, traendone un generale senso di serenità e di ottimismo. Da un lato è il ricordo in sé a provocare un’emozione che supera persino il dolore contingente di un avvenimento; dall’altro tali esperienze suonano spesso come un monito per affrontare il presente.
Émilie du Châtelet, nel Discorso sulla felicità, non a caso afferma: «La nostra felicità non dipende soltanto dalle gioie attuali, ma anche dalle nostre speranze e dai nostri ricordi. Il presente si arricchisce del passato e del futuro».
Certamente la speranza è una qualità che dipende molto dal vissuto particolare dell’individuo; per questa ragione, prima ancora di guardare avanti per tentare di realizzare i nostri progetti, il passato offre una maggiore possibilità di analisi critica. E questa analisi ci consente di creare dei veri e propri modelli, fondati su persone o su circostanze, che costituiscono dei capisaldi indispensabili per una maggiore coscienza. A patto però che il sentimento del passato non esca dai propri confini e scada in un particolare genere di sentimentalismo, che sarebbe persino più deleterio di una qualsiasi perdita di memoria.
 
Il passato, peraltro, non possiede solamente una dimensione individuale, bensì anche collettiva, senza che tra le due entità vi sia una divisione netta. Dopotutto è proprio la Storia ad essere frutto dell’opera di singoli esseri umani, per quanto la loro coscienza e le loro idee siano sempre maturate almeno su una base storica, ovvero sulla relazione con l’esperienza di altri uomini. Lo stesso genere biografico è rintracciabile in qualche misura già nell’antico Egitto, nell’opera anonima Le avventure di Sinuhe.
Ma questa relazione dice ancora poco rispetto a quella dicotomia tipicamente occidentale che vede da un lato la Storia come un’alternanza caotica di eventi; dall’altro, come una logica, di natura divina o prettamente razionale. Notiamo però che tale dicotomia è solo apparente e risponde – se così si può dire – ad un errore di “catalogazione”. Nel senso che la distinzione può sussistere soltanto in ragione di una mentalità post-galileiana: fu appunto Galileo a interpretare le Sacre Scritture secondo una visione storicistica, applicando il metodo sperimentale ad un contesto che però non lo richiedeva. E che infatti ne falsò i risultati. La logica che definiamo “divina” semplicemente non è sullo stesso piano di quella “logico-consequenziale”, intendendo dire con ciò che risulta sempre deleterio porre a paragone due elementi nettamente distinti e che anzi dipendono l’uno dall’altro.
 
È pur vero che già prima del Seicento, in Occidente, esistettero i concetti antitetici di “caso” e “fortuna”, che di fatto portarono a quell’infinito dibattito storico che si protrae in parte ancora oggi (e rimarrà insoluto fintanto che si paragoneranno due ordini diversi di coscienza, l’una universale, l’altra meramente materiale e particolaristica, valida appunto per la sola concezione della Storia occidentale). Niccolò Machiavelli, ne Il principe, fece addirittura della fortuna una sorta di nemico da fronteggiare ad ogni costo con l’uso dell’ingegno: un caso emblematico del rifiuto rinascimentale e del moderno Occidente rispetto a tutto ciò che esula dal dato “scientifico”.
E dove Machiavelli si limitava a riconoscere la fortuna come un’entità esterna al dominio umano e che andava per questo soggiogata, Francesco Guicciardini, che visse negli stessi anni del delegato fiorentino, nei Ricordi(numero 126), affermò: «La natura delle cose del mondo è in modo che è quasi impossibile trovarne alcuna che in ogni parte non vi sia qualche disordine e inconveniente; bisogna risolversi a torle come sono e pigliare per buono quello che ha in sé manco male».
In questo caso, si riconosce che la “natura delle cose” presenta un ordine (sottinteso nella frase) a cui corrisponde in modo quasi inevitabile un disordine. La risposta di Guicciardini – che è comunque pervasa dall’ottimismo e dalle euforie rinascimentali – appare dunque più cosciente della realtà rispetto a un sentimento di supereroismo nei confronti di tale natura.
Non a caso, con lo sviluppo di un pensiero marcatamente razionale, tra i due storici fu preferito proprio Machiavelli. Fu con il Settecento illuminista che la discussione intorno al caso venne vista attraverso lo sguardo onnicomprensivo della ragione: fortuna o non fortuna, la ragione era in grado di rivelare il significato di ogni evento storico, rintracciando la catena di cause che avrebbero condotto al progresso. Così Charles-Louis de Montesquieu, nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei Romani:«Non è il caso a dominare il mondo. […] Vi sono cause generali, sia morali sia fisiche, che agiscono in ogni monarchia, che la elevano, la mantengono o la rovesciano; tutti gli accidenti sono subordinati a queste cause; e se l'esito di una battaglia, cioè una causa particolare, ha rovinato uno Stato, vi era una causa generale per cui quello Stato doveva perire per una sola battaglia. In una parola, l’andamento generale porta con sé tutti gli accidenti particolari». Morale e scienza (questo lo strumento per indagare le “cause fisiche”) sostituirono quel contenitore polivalente che conteneva termini come “caso” e “fortuna”.
Bisognerà attendere in particolar modo la fine della seconda guerra mondiale, con il suo carico di morti e di atroci scenari, per poter affermare che l’Uomo non è in grado di ricavare alcun insegnamento essenziale dal passato. E questa era una risposta evidente fin da subito a chi fu in grado di individuare quanto limitata fosse una società il cui senso era costruito su un sentimento del passato, elevato a sistema con l’applicazione del metodo scientifico in questo particolare campo di studi.
Ci si accorse dunque – ma quella coscienza fu troppo breve – dell’inconsistenza del progresso, ma di tutta risposta, anziché ritentare un approccio tradizionale, si preferì spingere scienza e morale alle loro logiche conseguenze: l’annullamento nella materia e nella relatività. Tutto divenne a tal punto accettabile che il guadagno, l’avidità e persino il distacco dal presunto messaggio della Storia (che quel tipo di società stesso aveva costruito per sé) furono accettati in nome di un nuovo racconto del progresso. Il secondo conflitto mondiale non aveva dunque risolto nulla.
 
Che cosa si può ancora dire in merito? Vale la pena fare un po’ di chiarezza in tempi in cui tutto è bianco o nero o senza sfumature. Noi tutti possiamo condividere l’importanza della memoria, che offre al presente la possibilità di porsi in relazione con il passato (sia esso storico o mitologico), ma la preoccupazione è di un altro genere. L’Occidente, nella sua visione sentimentale della Storia (ché la storia del progresso non è affatto razionale, di una ragione pura), tende a distaccarsi dal dolore, privato e collettivo, per ricercare una nuova stabilità. Ancora una volta materiale, poiché piacere e dolore incatenano l’Occidente in questo sistema autoreferenziale.
È il discorso che si delineava all’inizio: se è vero che, nel contingente, la nostra felicità di esseri umani dipende anche dai nostri ricordi, la mancanza di modelli effettivamente validi ha reso vana la ricerca di una felicità situata al di là di quel contingente e che lo includesse nella sua inferiorità. Così, nella società occidentale degli ultimi decenni, non si può dire che siano mancati esempi morali, per non parlare della miriade di “icone popolari”, che però sono appunto questo: immagini, riflessi, idoli (si noti l’ambivalenza odierna di questo termine, che sembra addirittura contenere un significato positivo, a testimonianza del livello di confusione che si è generato). Ma a tutto questo, anche nei casi moralmente ineccepibili, è mancato appunto un principio superiore, che riconducesse l’uomo fuori dalla sua prigione. Né si poteva sperare che in una simile condizione, questa società fosse in grado di individuare tali princìpi e di ristabilirli.
Non per questo è impossibile tentare un nuovo approccio, benché il lavoro sia estremamente complicato e uno dei rischi sia di finire in una fase di stagnazione. In cui la retorica prenda ancora una volta il sopravvento in entrambe le parti: da un lato, aggrappandosi e svuotando di forza e significato parole come “libertà” e “diritto”; dall’altro, ritornando a predicare l’esasperata convinzione nel primato dei tempi. Quest’ultimo, banale emblema della nostra effettiva “dimenticanza”.
 
Arrivati al nostro tempo, ci si aspetta una soluzione. E crediamo che queste parole, ancora di Guicciardini (Ricordi, numero 114), permettano di riprendere il discorso dove si era interrotto: “Le cose passate fanno lume alle future, perché el mondo fu sempre di una medesima sorte; e tutto quello che è e sará, è stato in altro tempo, e le cose medesime ritornano, ma sotto diversi nomi e colori; però ognuno non le ricognosce, ma solo chi è savio, e le osserva e considera diligentemente”.
Se non si può dire che la storia sia esattamente ciclica, è però lecito pensare ad una sorta di spirale, che ritorna su se stessa e può crescere, così come recedere. Nell’attuale fase storica la seconda possibilità sembra la più vicina a noi. Stiamo infatti assistendo ad uno stallo nei campi della cultura umanistica; l’insieme dei problemi umanitari, dalla fame alle crisi socio-politiche, ci stanno conducendo a conflitti sempre più ampi; infine, anche nell’ambito scientifico, non ci troviamo più di fronte a grandissime scoperte o teorie rivoluzionarie, benché questo tipo di società dovrebbe suggerire ben altri traguardi nel settore. In questi termini si può forse parlare di una nuova forma di decadentismo, che dimostra come il progresso tecnologico non sia necessariamente correlato al progresso come umanità.
Conoscere il nostro passato, di individui e di umanità, liberandolo però dall’ottica autoreferenziale del “progresso”, è anche un modo per creare una relazione tra noi e i nostri antenati che ci accomuni nello spirito. Quando anche noi saremo superati dal tempo che scorre, tutto ciò che lasceremo sarà un breve ricordo se non saremo stati in grado di entrare nella coscienza più profonda, al di là delle teorie scientifiche e dei dogmi moralistici. Ogni storia è in fondo un racconto del passato: abbiamo raccontato troppo a lungo della nostra caduta oppure della nostra presunta evoluzione, a tal punto che non possiamo permetterci il lusso di assecondare ancora questo rinnovato sentimento di decadenza fine a se stesso.
 
 
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