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Nuvole cariche

di Massimo Campigli
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Pubblicato il 13/02/2015 11:24:26

Alle 6.00 la sveglia suonò, ma inutilmente; due occhi stanchi fissavano il soffitto già da un’ora.

Non era stata una buona nottata; nonostante la bella compagnia della sera prima, i brindisi all’amicizia e i racconti sui ricordi di una vita, il sonno era arrivato tardi ed era proseguito a stento, spezzato in minuti piuttosto che in ore.

Lasciò suonare la sveglia una sola volta, come gli avevano insegnato tanti anni fa, poi l’ammiraglio si alzò e come tutte le mattine, in 30 minuti esatti fu pronto per andare in ufficio.

Solo dopo aver ricevuto il saluto dal segretario poté oltrepassare la porta.

La caraffa nera lo aspettava, bollente, in un angolo, ed il vapore che ne fuoriusciva portava nell’aria di quella piccola stanza un profumo che rendeva tutto un po’ più familiare; quella era una delle poche cose che lo rilassavano, un piccolo risveglio della memoria che lo riportava un po’ a casa ma che, come sempre, sarebbe scomparso nel giro di qualche minuto.

Nessun messaggio, niente di nuovo sulla scrivania; solo gli appunti sulle manovre della giornata e qualche rapporto da controllore prima di incontrare il generale, per la riunione della domenica mattina.

Un vento forte, potente, arrivava dal mare quel giorno; lui si fermò per un attimo davanti alla finestra che dava su Ford Island: poteva vedere le otto corazzate ben allineate, a due a due, stagliarsi sull’azzurro del mare.

L’interfono dette il suo annuncio ed un attimo dopo la porta si aprì.

“Entra pure Walter, accomodati”

Nonostante gli anni trascorsi insieme, potevano concedersi queste piccole informalità, solo quando si trovavano da soli.

Bastò un solo sguardo al generale:

“Come stai? Non hai l’aria di essere troppo in forma. Ci sono stati problemi questa settimana?”

“No, nessun problema. Le esercitazioni di martedì sono andate abbastanza bene, anche se mi dicono di non aver ancora risolto il problema con il puntatore per i 340mm. E tu che mi dici? Ci sono novità? ”

“Niente di rilevante, il preavviso di 10 giorni fa sembra non ci riguardi. Mi preoccupano piuttosto i sabotaggi che potremmo subire da parte dei residenti.”

“Allora intensifica i controlli e tienimi aggiornato. Se non c’è altro, credo che possiamo….”

Si interruppe.

Guardò dritto negli occhi il suo amico, come se stesse cercando la risposta ad una domanda che nessuno gli aveva fatto.

Il generale, seduto, con le gambe accavallate, attese per un attimo, interdetto, poi aggrottò le sopracciglia cercando di interpretare quello sguardo.

Nessun movimento, sembravano essere in attesa l’uno delle mosse dell’altro; poi fu Walter a rompere quell’equilibrio:

“Ti senti bene?”

Non rispose, e non distolse neanche lo sguardo; i suoi occhi si socchiusero un poco, come a voler acuire la vista; poi, senza dire una parola si alzò dalla poltrona, si avvicinò alla finestra, ed aprì le due ante lasciando correre lo sguardo lungo tutta la linea dell’orizzonte.

Il generale, seguendone i movimenti, si era alzato lentamente per raggiungerlo, cercando di non disturbare quella specie di concentrazione che l’altro sembrava aver trovato.

“Che cosa succede?”

“Walter che cosa senti?” rispose con una domanda.

Il cielo limpido della prima mattina era ancora carico di quel vento freddo che trascinava con se il salmastro, saturando ogni angolo della città.

Il generale provò a tendere i sensi, tutti quanti: non sapeva a che cosa si riferisse ed in quel momento non poteva escludere niente.

“Non sento niente, solo l’odore del mare.”

E in effetti, anche l’ammiraglio, ad occhi chiusi, la testa leggermente inclinata all’indietro, sembrava protendere il naso verso l’esterno, per annusare l’aria, per percepire qualcosa.

Poi di scatto si girò verso, a capo chino, e con le braccia tese in avanti  afferrò il generale per le spalle. Erano di nuovo l’uno di fronte all’altro.

“Ed ora? Adesso che cosa senti?”

Evidentemente il monsone stava per arrivare e portava con se il primo carico di pioggia, perché si cominciava ad udire, in lontananza, un rombo cupo, provenire dal cielo; ed anche se l’aria appariva ancora pulita, il fragore pareva aumentare velocemente.

“Credo stia per piovere, di questi tempi è normale”

L’ammiraglio lo guardò con una punta di sdegno, insoddisfatto della risposta che aveva ricevuto; poi si voltarono insieme verso la finestra.

In fondo, sforzandosi di spingere lo sguardo sin laggiù, si poteva vedere il cielo farsi scuro, nuvole grigie, pesanti, avvicinarsi sin troppo velocemente, e con loro un tuono costante, pauroso, sempre più potente.

Quel minuto sembrò non finire mai.

Il generale, fronte tesa, braccia lungo i fianchi, come gli inermi, incapace di pronunciare anche una sola parola, sbalordito di fronte a ciò che stava prendendo forma di fronte a lui; l’ammiraglio, costretto a reagire, ma incastrato tra l’incredulità e la rabbia, già consapevole di ciò che sarebbe stato di li a poco.

Il peggior inferno che avrebbero potuto immaginare si stava per abbattere su di loro: la porta si spalancò con uno schianto contro la parete; il segretario, con il terrore negli occhi, aveva fatto irruzione nell’ufficio tenendo un foglio stretto tra le mani, nella cui intestazione era indicato:

Washington, 7 Dicembre 1941, destinatario: Ammiraglio Kimmel, Pearl Harbor, Hawaii.


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