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La parata di Dave Eggers - Obbligo o verità?

Argomento: Letteratura

di Timothy Megaride
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Pubblicato il 18/11/2020 21:15:56

da il tetto, n. 336-337, anno LVII, marzo-giungo 2020, pp. 143-146

 

Scrivo nei giorni del coronavirus. Di un romanzo[1] che, a giudicare dal clima che si respira, pare profetico. Nella traduzione di Francesco Pacifico è il primo che Feltrinelli dà alle stampe di uno scrittore americano, Dave Eggers, già noto al pubblico italiano per i precedenti libri pubblicati da Mondadori. La sua generazione ha molto da dire, molto da raccontarci, per essere figlia legittima di questa nostra complessa e caotica contemporaneità. Eggers lo fa da una posizione di tutto rispetto, immerso nel buco nero del presente che tutto fagocita e maciulla e nulla fa distinguere di ciò che un tempo poteva essere definito e catalogato. Sarà per questo che i personaggi del romanzo non hanno un nome e li si identifica con un numero o un particolare dell’abbigliamento, un grado di parentela, il genere, l’età? Sono Quattro, Nove, Medaglione, Cugino, una donna, un vecchio, un bambino. La caratterizzazione fisica allude a un tratto (Un ricciolo nero gli copriva sbarazzino l’occhio sinistro), uno solo, che salta all’occhio, la tipizzazione culturale mette a confronto due mondi contrapposti, l’opulenza e l’indigenza, la tecnologia e i suoi detriti presumibilmente tossici, il primo e terzo mondo oleograficamente intesi. E poi comportamenti che, in qualche misura, ci dicono che, talvolta, siamo ancora uomini e non automi. 

Direi che, nella produzione più recente, Eggers approda all’essenzialità del romanzo filosofico e tende a dimostrare un assunto che si dispiega dinanzi ai nostri occhi come ineludibile verità, inesorabile sentenza: siamo mostri sanguinari agiti da un congegno a orologeria che ripete pedissequamente le battute da copione di uno sceneggiatore cinico e imperturbabile. La carneficina avviene sotto i nostri occhi, ma noi ne siamo ben distanti, nel ventre protettivo di un aereo che ci riporta al mondo preteso civile e ci restituisce al confortante calore delle acquisite e consolidate certezze. È un po’ come assistere a un film dell’orrore con la consapevolezza che è solo un film, un modo come un altro per aumentare la frequenza cardiaca e dirci che un cuore, forse, ce l’abbiamo e che, volendo, potrebbe anche battere. La reazione di attacco o fuga cessa presto quando il pericolo è virtuale, mediatico nella fattispecie, esattamente come in un film.

L’azione si svolge in un paese tropicale del terzo mondo. Quale? Uno qualsiasi. Le immagini della televisione e del cinema ce li rappresentano allo stesso modo: caldo appiccicoso che ha per sfondo un deserto, una savana o anche una foresta. Qua e là qualche dissestato villaggio di sventurati.

La guerra civile è appena cessata e l’opera di riappacificazione tra esercito governativo e ribelli è in corso; è simbolicamente rappresentata dalla costruzione di una strada che unisce la due aree del paese che si sono combattute, la più ricca e sviluppata con la povera e depressa. La carrozzabile che le unisce rappresenta la speranza di una minore povertà, di una più efficace integrazione, la concreta possibilità di curare gli ammalati in un vero ospedale. Prima che il tracciato fosse completato, per raggiungere un luogo di cura occorrevano giorni di viaggio; ora, appena l’asfalto ne avrà rivestito la massicciata, coprire 230 kilometri di distanza sarà questione di poche ore, con un pick-up o una moto. Lungo il percorso la popolazione dei villaggi già si attiva per fornire raffazzonati servizi ai venienti viaggiatori, con improvvisati posti di ristoro o minuto commercio: è l’estemporanea economia della ricostruzione postbellica.

Due contractor del primo mondo, retribuiti da una multinazionale, devono asfaltare la massicciata in un paio di settimane, quante ne mancano alla grande parata che il governo illegittimo ha previsto per celebrare la pace e inaugurare la nuovissima via di comunicazione. Dieci-dodici giorni sembrano pochi per il completamento dell’opera. Sono in realtà più che sufficienti a giudicare dall’avanzata tecnologia impiegata: una sofisticata macchina asfaltatrice che riveste l’impiantito di bitume limitatamente tossico e di presa rapida a una velocità di 40 kilometri giornalieri o anche più se la solerzia di Quattro, il primo e più esperto dei due contractor, nonché manovratore della RS-80, fosse sostenuta dal suo più giovane e inesperto collega, Nove, il cui semplice compito è precederlo a bordo di un quad per mantenere sgombero il lineare percorso da uomini, cose e animali. Ma Nove è tutt’altro che ligio al dovere e assai poco sollecito alle rigide direttive dell’azienda. È un agente del caos: devia dal percorso, sparisce per lunghe ore, confonde il povero Quattro, il quale spesso si trova a risolvere i problemi che il collega gli crea. Ne è molestato oltre i limiti della sopportazione, medita di denunciarne il comportamento, ne auspica la sostituzione, ma sa pure che i capi non gradiscono l’onere di questioni che Quattro può risolvere da solo. Per il poveruomo non v’è altra soluzione che tollerare le malefatte dello scapestrato collaboratore e provare come può a porvi rimedio. Fino a quando Nove non si ammala gravemente e sembra assai prossimo alla morte. Il lavoro ha una brusca battuta d’arresto, il rischio di non rispettare le consegne è altissimo. Ma Quattro non può abbandonare Nove, deve prendersene cura. Lo assiste e intanto profonde energie nel portare a compimento l’impresa, non senza l’aiuto di qualche indigeno parimenti interessato al completamento dell’arteria, sia pure per motivi personali e ben lontani dalla logica produttiva. La narrazione si fa incalzante e tale da coinvolgere il lettore nella lotta contro il tempo. 

In assenza di coordinate geografiche e contesti storico-politici, la vicenda diventa emblema di generiche dinamiche postcoloniali che ben rappresentano il tipo di relazione che intercorre tra l’Impero e la pletora di stati nominalmente sovrani sorti sulle macerie di storiche guerre d’indipendenza. Sembra di capire che questa non c’è mai stata e che l’antico dominio sopravvive nella forma del controllo economico dei territori un tempo soggetti allo straniero e oggi retti da governanti corrotti proni alla volontà dell’ex dominatore. Eggers ce ne ha già dato più esplicita testimonianza in un bel libro del 2007[2], i cui temi sembra ora riprendere in una prospettiva storico-esistenziale che afferisce a una sorta di ineludibile condizione: siamo tutti vittime e carnefici in un mondo nel quale lo stato perenne di belligeranza è forse l’unico vero volano dell’economia. E tuttavia, perché il congegno funzioni, è necessario che sia spettacolarizzato e scorra davanti ai nostri occhi come un film d’azione. All’orrore ci si abitua quando appare distante dalla quotidiana esperienza, tranne il caso in cui la sventatezza dei nostri ragazzi scambia per avventuroso lo spettacolo guardato a distanza e ne sia attratta come da un potente stimolante. Parte, il nostro figliolo o il nostro giovane amico, animato da un impulso di generosa vitalità che lo spinge a lanciarsi nella mischia, ignaro dei pericoli che corre, senza schermi e senza preventivo addestramento. È incosciente il nostro ragazzo o desidera semplicemente vivere senza vincoli di sorta perché è nella sua età e nella sua condizione scandagliare il caos? 

La prudenza di Quattro non frena Nove. Le regole del gioco, percepite come una necessità di sopravvivenza dal più anziano, sono viste come intralci dal più giovane. Si configura così la dialettica intergenerazionale: una sorta di relazione pedagogica che oppone regola e prudenza a spontaneità e indiscipina. Quattro sa, per maturità e competenza, che attenersi alle consegne è l’unico modo per uscire indenni dalla trappola del subbuglio tribale; Nove dello scompiglio si nutre, per intrinseco, istintivo spirito d’avventura. Quattro medita di liberarsi del pericoloso e scapestrato collega; ma, quasi come un padre che tema di far peggio, non dà mai seguito alle deliberazioni, anzi si fa carico di tutte le malefatte dell’altro, fino a provarne pena e a tentare ogni azzardo per salvargli la vita. Vince Quattro perché, a dispetto degli imprevisti, completa il suo lavoro e salva anche la vita all’irresponsabile gregario.

La prosa scarna, disadorna, essenziale evoca la scabrosità dei luoghi, le insidie del territorio inospitale. Il lettore, tenuto col fiato sospeso per i 230 kilometri del tragitto narrativo, trae per un attimo un sospiro di sollievo. Poi, inattesa, come in un noir che si rispetti, giunge la crudele staffilata e scompagina l’apparenza della ritrovata normalità. Il caos torna a fagocitare le nostre illusioni per dirci che stiamo tutti giocando una partita che non ha regole, a dispetto della prudenza dell’impietrito protagonista, il giudizioso ed empatico Quattro.

Scrivo nei giorni del coronavirus. Siamo tutti in attesa della palingenesi. Seppelliti i morti e guarite le ferite, dovremo riprendere la partita e sarà una competizione ancora più dura: la prospettiva di una nuova e più terrificante crisi economica ci attende al varco, almeno secondo quanto affermano i media. Già si prefigurano le nuove prede da spolpare e noi, ignari cacciatori delle future battute di caccia, saremo esattamente come Quattro, disciplinati e guardinghi, pronti ad accettare la sfida di un gioco al massacro del quale ignoriamo la strategia. Il dilemma permane: obbligo o verità? Il primo salva l’impresa globale, la seconda sacrifica le future generazioni all’altare dell’illusione perduta. 

 

Timothy Megaride             

                                    



[1] Dave Eggers, La parata, Feltrinelli 2019

[2] Dave Eggers, Erano solo ragazzi in cammino, Mondadori 2007

 

 


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