[Un breve componimento scritto nel lontano 2015, quando avevo ancora, nella scrittura, tutta quella ingenuità, parole buone e messe al posto giusto. L’originale era completamente diverso, non era il caos di oggi (lo preferisco). La scrittura era tenera e patetica, diciamo anche “ben educata”. Si sentiva la voglia di chiudere tutto con un fiocchetto di prima comunione. Lo adattato alla scrittura di oggi, quella con il sangue tra le dita.]
Il treno corre, sì. Non per arrivare, ma per scappare da tutto quello che resta fermo. Troppe cose immobili.
Fuori la vita passa, si sbriciola in case che non conoscerò mai, in alberi che nessuno abbraccia più. Dentro, visi stanchi, dita che scorrono su schermi per non guardarsi davvero.
Io aspetto, come sempre. Non so cosa, non so dove. L’attesa è il mio binario.
Le mani sul grembo, lo stesso grembo che ha fatto nascere quattro destini. Li guardo oggi e so che non mi appartengono più, ma li riconosco negli occhi quando ridono. Lì, mi sento ancora vivo.
Ogni tanto riaffiorano i volti che mi hanno costruito: mia madre col suo sorriso ostinato, mio padre che si inventava storie per far sembrare meno brutto il mondo. Li porto dentro come cicatrici buone, come nomi che non servono più dire.
Anche tu, nonna. Tu che davi tutto, anche quando non avevi niente. Sei il mio pensiero quieto, quello che non si sporca mai.
Degli amici ricordo le risate e i silenzi, le ubriacature di troppo e i ritorni che non ci sono stati. La vita ci ha dispersi come cenere al vento, ma ognuno di loro mi ha lasciato addosso una ferita con la sua forma.
E poi tu.
Compagna, amante, sopravvissuta insieme a me. Di noi resta la fatica, la pelle, i silenzi. Ma anche quella testarda voglia di restare, nonostante tutto.
Il treno andrà avanti, e prima o poi ci butterà giù.
Ma finché ci saremo, vaffanculo al capolinea.
Febbraio 2015 - 2025
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