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Il tempo non ha tempo

di Settimio Marcelli
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Pubblicato il 03/01/2018 18:35:38

59’59” 59’58” 59’57”

Quando i giorni si ripetono tutti uguali sei entrato nell’eternità. Oppure non sei più di questo mondo. Sempre che ci sia una grande differenza.

Prajāpati ci pensa spesso. Non solo perché se non ci pensi tu che sei un brahmano non ci pensa nessuno. È che quando da un momento all’altro possono dirti preparati che il boia ti aspetta è difficile cacciare dalla testa certi ragionamenti. Come quel vuoto nello stomaco quando ti arriva l’eco di una risata lontana. Oppure quel velo di tristezza che si posa sui tuoi gesti. Che si ripetono tutti i giorni uguali.

Alla fine nulla di insopportabile. Specie per Prajāpati, abituato alla disciplina degli esercizi spirituali e della meditazione. Eppure, se il buio della notte viene squarciato dai passi nel corridoio, il cuore ti si ferma e ti riprende a battere forte solo quando gli stivali superano la tua cella. E l’ansia che ti prende non appena dalle feritoie comincia a filtrare il primo filo di luce, che passa solo col silenzio del sole alto.

Per questo il calendario di Prajāpati graffia sul muro i giorni dell’euforia che segue il terrore. E questi giorni cominciano a essere troppi.

 

58’43” 58’42” 58’41”

La galera è sempre uno strazio, però ci sono posti peggiori di Yerwada.

In onore di Gandhi, il Mahatma, incarcerato in questa prigione all’epoca della lotta per l’indipendenza, a Yerwada è attivo un particolare programma di riabilitazione. In pratica, si tratta di un corso di non violenza. Al termine c’è una verifica. Se la superi ottieni dei vantaggi. Come il permesso di tenere un computer in cella.

Dell’esame di Prajāpati non c’è bisogno neanche di parlarne. Se bocciano un brahmano al termine di un corso sulla non violenza vuol dire che per gli altri non c’è proprio speranza. Non è questo che conta. L’importante è sapere che Prajāpati ha in cella un computer a fargli compagnia. L’accesso a internet nel braccio della morte è proibito, ma non è un problema. Tutta questa voglia di metterti in contatto con i vivi non ce l’hai. Meglio inventare una nuova vita.

 

56’25” 56’24” 56’23”

Se i giorni nella cella si ripetono sempre uguali, non è così sullo schermo del computer. Alle prime luci dell’alba Avatar si sveglia nella sua casa di Mumbai. Ha la carnagione bruna, gli occhi scuri, i capelli tra cui comincia a notarsi qualche filo bianco, come Prajāpati. Il brahmano intuisce il sorgere del sole dalla feritoia della sua cella. L’ansia lo coglie lo stesso, ma ora non è solo.

Prajāpati e Avatar pronunciano il nome del dio prima di rivolgere la parola a chiunque altro. Allo stesso modo si guardano le palme e toccano il suolo con una mano, recitano il mantra davanti all’altare, procedono alle abluzioni del mattino. Perché a Prajāpati, per rispetto del suo rango, viene portato in carcere ogni mattina quello che gli occorre per la cerimonia della purificazione. Dopo che hanno apposto sul volto i segni della comunità religiosa le loro vite si separano. Prajāpati resta nel circolo dei gesti sempre uguali. Avatar esce per le strade della metropoli.

 

54’12” 54’11” 54’10”

Il tempio non dista molto dalla casa. Vi si arriva comodamente a piedi. Eppure il percorso è ricco di insidie. La folla colorata e rumorosa riempie ogni spazio, le botteghe rovesciano sui marciapiedi tutti i beni del mondo, le automobili le biciclette i tram si inseguono a folle velocità aggirando acrobaticamente le ieratiche vacche, padrone incontrastate di ogni angolo della città. Avatar è indifferente a queste distrazioni. Solo i manifesti che sovrastano le alte cime dei palazzi attirano la sua attenzione. Vi sono ritratti giovani uomini e donne che si scambiano languidi sguardi, assumendo pose lascive, appena velati da abiti leggeri.

L’algoritmo con cui Prajāpati ha programmato Avatar deve avere qualche baco. Non era previsto questo interesse. Al brahmano non piace l’attenzione per le immagini e per titoli come “L’amore arriva con il treno” oppure “Ospite quando andrai via” che campeggiano sui manifesti. C’è una scritta che intriga Avatar più delle altre, che ritrova a grandi lettere davanti all’ingresso del Chitra, il cinema che si trova sull’altro lato della strada: “Sconosciuto, Sconosciuta”. Il locale a quest’ora del mattino è chiuso. Solo per questo Prajāpati riesce a condurlo fino alla scuola braminica.

 

52’29” 52’28” 52’27”

Sono i sacri Veda a indicare la strada. È bene che tutti lo sappiano. Per questo sul portone d’ingresso della scuola di Prajāpati nel mondo reale campeggia una iscrizione riportata, identica, nel mondo virtuale.

 

È PER MEZZO DEL SACRIFICIO

CHE GLI DEI 

GIUNSERO FINO AL REGNO CELESTE

 

Quando Avatar arriva, trova ad attenderlo il suo discepolo. È Mṛtyu, da cui derivano i guai di Prajāpati. Se deve essere un  nuovo inizio bisogna ricominciare veramente da capo.

 

Peritura è la materia; immortale, imperituro

il Signore, l'Uno, che controlla ciò che perisce

e anche l'anima. Meditando su di lui,

unendosi a lui, divenendo sempre più come lui,

ci si libera finalmente dall'illusione del mondo.

 

Mṛtyu ripete all’infinito il mantra del vecchio giorno.

 

51’27” 51’26” 51’25”

Mṛtyu non muove neanche un sopracciglio, nemmeno cambia il ritmo della respirazione, quando entra Avatar. Non ci si può distrarre salmodiando i versi dell’Upaniṣad. La punizione è inevitabile quanto giusta. La materia va mortificata, l’illusione del mondo allontanata. Cedere alla seduzione del perituro, anche sotto la specie del maestro, discosta dalla purificazione.

Questo insegnano i sacri inni.

 

Là dove non vi è oscurità,

né notte, né giorno,

né Essere, né Non Essere,

là vi è il Propizio, solo,

assoluto ed eterno;

là vi è il glorioso splendore

di quella Luce dalla quale in principio

sgorgò antica saggezza.

 

Avatar intona il mantra del nuovo giorno. Mṛtyu procede con il canto dei suoi versi. Lentamente, impercettibilmente, i suoni pronunciati dal discepolo si modulano su quelli del maestro. Il sole è alto nel cielo, le parole non sono ancora le stesse, ma già il suono del campanello che introduce la ripetizione del mantra è uno solo. Quando la poca luce che entra dalla piccola finestra della sala della recitazione non consente più di distinguere i tre cordoncini di cotone bianco intrecciato che Avatar indossa sopra la spalla sinistra, simbolo della sua dignità di brahmano, le due voci sono una sola. Il maestro può lasciare il discepolo.

Mṛtyu ha tutta la notte davanti a sé per diventare una cosa sola col mantra.

 

43’18” 43’17” 43’16”

Fuori, nella Mumbay simulata, un’aria fresca e leggera riesce finalmente a vincere l’afa opprimente della giornata. Prajāpati non vuole fargli percorrere la stessa strada del mattino, ma Avatar non ha dimenticato i manifesti. Specie quello all’ingresso del cinema Chitra. “Sconosciuto, Sconosciuta”, è quella la sua destinazione, non c’è mouse che tenga.

Come nei film, anche nella realtà virtuale non esiste il problema del biglietto. In un attimo Avatar si trova comodamente seduto in poltrona proprio mentre si oscura la sala e comincia a srotolarsi la pellicola.

 

43’13” 43’12” 43’11”

I protagonisti del film vengono dall’India, ma l’ambientazione è americana. Ci sono due giovani, un ragazzo e una ragazza, che stanno entrambi per suicidarsi buttandosi giù da un ponte, ma non uno qualsiasi, proprio dal Golden Gate di San Francisco. A spingerli a quel gesto sono per l’uno i guai economici, per l’altra le delusioni d’amore. Arrivano i guardiacoste e gli impediscono di uccidersi. Allora fanno un patto: organizzeranno di nuovo il loro suicidio. Insieme. In effetti, però, si vede che c’è una nuova luce nei loro occhi. In poco tempo nasce un amore tra questi sconosciuti, che vanno incontro a contrattempi e peripezie, attraversano gli Stati Uniti con i più diversi mezzi di trasporto, superano ogni genere di diffidenze e intralci messi in campo dalle loro famiglie d’origine, trovano il modo di cantare e ballare nei momenti e nei luoghi più improbabili, rischiano di ricadere più volte nella depressione che li spinge di nuovo alle soglie del suicidio, finché non riescono, ancora tra canti e balli, a coronare felicemente il loro sogno d’amore.

 

41’37” 41’36” 41’35”

Avatar segue con passione lo svolgimento della vicenda. Con ancora maggiore interesse osserva una ragazza che gli siede affianco. Vederla che ride e piange, impreca e sospira, si agita e si rilassa, canta e si muove a tempo con i balli, in perfetta sincronia con la storia narrata sullo schermo, è uno spettacolo ancora più avvincente.

Quando, danzando sulla poltroncina del cinema, gli assesta una solenne gomitata tra le costole, la ragazza si accorge della presenza di Avatar. Si scusa, gli offre da bere da una bottiglietta d’acqua che ha con sé, lo invita ad uscire con lei per riprendere fiato.

 

39’58” 39’57” 39’56”

I due si ritrovano in strada. Avatar dice che non è niente e gli dispiace perché le ha fatto perdere il finale del film. Pārvatī, la ragazza, risponde che l’ha visto già sette volte e può raccontarglielo lei il finale. Anzi, glielo danza, perché quella è la scena che manca. Così Pārvatī si mette a ballare sul marciapiede davanti al cinema Chitra di Mumbay, coinvolgendo Avatar nella danza, mentre Prajāpati cerca in tutti i modi di fermarli, ma oramai il creatore ha perso il controllo delle sue creature.

Fino a un certo punto, perché la soluzione c’è, basta uscire dal programma e spegnere il computer. Un bel reset e si torna al punto di partenza..

 

39’54” 39’53” 39’52”

Il pensiero corre a Mṛtyu. Povero ragazzo. Il rigore della scuola braminica lo conoscono tutti. A scanso d’equivoci è scritto bello grosso sul portone cosa ti aspetta. Se non reggi non la devi varcare quella soglia. Istigazione al suicidio di minore. Così recita la sentenza. C’è la pena di morte in India per questo. Pena sospesa per le indubbie qualità morali del condannato. Sospesa, non commutata. Possono sempre cambiare idea in qualunque momento.

I giorni che si ripetono sempre uguali permettono di fermare il tempo. Non è poco, nel braccio della morte, ma non basta. Tornare indietro, salvare Mṛtyu, questa è la missione di Avatar. Per entrare, serenamente, nell’eternità.

 

39’49” 39’48” 39’47”

Alle prime luci dell’alba si compie il rito del risveglio. Nella semioscurità della sua cella nel braccio della morte del carcere di massima sicurezza di Yerwada, Prajāpati riesce finalmente a comprendere il karma legato al mantra che recita ogni mattina fin dall’infanzia:

 

O bagno purificatore, che purifichi mentre scorri, possa io con l'aiuto degli Dei lavar via i peccati che ho commesso contro gli Dei e con l'aiuto degli uomini i peccati che ho commesso contro i miei compagni.

 

Non ritiene opportuno condividerlo una seconda volta con la sua creatura. Ha come un presentimento. Accende il computer e i suoi peggiori sospetti trovano conferma. Avatar e Pārvatī stanno ancora danzando davanti al cinema Chitra. Un altro reset, riparte il programma, e sono sempre lì. Ripete ancora tutta l’operazione. Deve arrendersi. Si fa quello che vogliono loro. Del resto conosce troppo bene i testi sacri per non sapere che, se ti proietti in una nuova manifestazione di te stesso, il rischio di generare delle mutazioni è elevato. E che puoi anche creare una volontà indipendente.

Per il momento resta a vedere quello che succede. Fino a un certo punto può tollerare qualche variante al suo piano. Fino a un certo punto.

 

39’46” 39’45” 39’44”

Cantano, ridono, si accostano. Arrivano a toccarsi. Avatar non è programmato per quel tipo di operazioni, ma impara in fretta. Non solo i movimenti. Sensazioni e turbamenti, aspettative e sentimenti lo colpiscono nel profondo del suo algoritmo, che qualcuno potrebbe anche chiamare cuore. Quello che è certo è che la serata non sarebbe finita qui. Dal film ha imparato che deve invitare Pārvatī a cena. Poi potranno fare una passeggiata tenendosi per mano. Dopo non ha capito bene quello che succede. A un certo punto lo schermo si fa scuro e quando torna la luce gli attori si trovano da un’altra parte a fare colazione oppure salgono in una macchina sportiva carica di bagagli.

Quella sera Avatar non ha scoperto quello che succede dopo la dissolvenza. C’è stata la cena e la passeggiata, ma tutto è finito lì. Avatar accompagna Pārvatī a casa e, prima di salutarla, le chiede: “Possiamo vederci ancora?”

“Domani sera, alla stessa ora, davanti al cinema Chitra. Così ti vedi anche il finale del film, questa volta.” Risponde la ragazza.

Avatar comincia a contare le ore che lo separano da questo incontro.

 

31’21” 31’20”31’19”

Alle prime luci della sua alba, Avatar compie il rito del risveglio. Percorre rapidamente la strada che lo separa dalla scuola braminica, dove trova Mṛtyu intento a recitare il mantra. Lo interrompe e, cosa inaudita a questo punto della iniziazione, si rivolge a lui:

 

Mṛtyu, ascoltami. È tempo che tu apra la mente ai misteri dei testi sacri, dove troviamo conforto alle angustie della nostra anima. Sappi che la Śvetāśvatara Upaniṣad si apre con le domande che da sempre sgorgano dal nostro cuore come l’acqua sorgiva dai fianchi della montagna: “Donde siamo noi nati? Per mezzo di che cosa viviamo? Su che cosa siamo noi fondati? Da chi dominati?”

No, non precipitare, non dirmi che la risposta è Śiva. Posto così sulle tue labbra è solo un nome, un suono. Śiva non è una risposta. È l’interrogativo più grande. È l’approdo che conclude la tempesta del mondo, a cui si giunge dopo grande pericolo e fatica, perché è scritto “Coloro i quali si applicarono alla disciplina della meditazione, contemplarono la potenza del Dio.”

Le parole che ci narrano del Dio sono il percorso tortuoso che ci porta, lentamente, duramente, all’approdo. Le parole non rimangono suoni solo se le prendiamo come guida per il nostro agitarci da ciechi. All’origine, quando c’era solo l’unità cosmica da cui tutto procede, anche il Dio si trovò in ambasce, perché, come ci ricorda lo Yajurveda:

“Egli non trovava felicità; così ancora oggi, chi è solo non trova felicità. Egli desiderava ardentemente un altro. Egli divenne grande come un uomo e una donna stretti in un forte abbraccio. Egli separò questo sé in due; da qui sorsero lo sposo e la sposa. Perciò, come ha detto Yājñavalkya: ‘Ognuno di noi è come la metà di un pisello spaccato’. Per questo motivo questo vuoto è riempito dalla donna. Egli si congiunse con lei e di qui nacquero gli esseri umani.”

Cercare la propria metà è dovere del Brahaman. Non si può raggiungere il Saṃnyāsa senza passare per il Kāma. Non per lascivia, ma per pietà. Come puoi conseguire la purezza dell’abbandono del mondo se c’è un’anima, la tua metà di anima, che vaga alla ricerca del suo completamento? Tu sei giovane. Non è ancora giunto il tuo giorno. La tua condizione ti impone di procedere nello studio dei Veda e solo chi è casto può accostarvisi. Io ho trovato la donna destinata a colmare il mio vuoto. Per me, ora, il Karma coincide con il Kāma.

Mi congedo da te. Non sono più io il tuo maestro. Non ti sarà difficile trovarne uno più degno di me. Abbi solo cura di seguire le orme di un Guru già sulla via del Saṃnyāsa. Per scoprirlo chiedigli quando ha conosciuto donna come sposa. Se dal suo pacato sorriso capirai che non ha voglia di parlare di cose tanto antiche, allora sarai davanti al tuo maestro.

 

Pronunciate queste parole, Avatar esce dalla scuola braminica per avviarsi all’appuntamento con Pārvatī. Crede di essere uscito anche dalla vita di Mṛtyu, ma si sbaglia.

 

26’38” 26’37”26’36”

È presto, il cinema Chitra è ancora chiuso. Avatar pensa che per ingannare l’attesa può fare due passi per la città, ma appena gira l’angolo si imbatte in Pārvatī, anche lei in anticipo. C’è tutto il tempo per prendere un tè insieme.

Prajāpati spegne e accende il computer più volte, ma ha perso il controllo sul mondo che ha creato. Potrebbe formattare il disco rigido. Potrebbe semplicemente staccare la spina. Potrebbe. Eppure non lo fa. Non puoi creare un mondo e abbandonarlo a se stesso. Anche se ti monta sempre più la rabbia per quello che succede nel creato.

“Vedo qual è il tuo rango.” Pārvatī confessa il suo imbarazzo davanti a un Darjeeling fumante, “Non sono religiosa, ma conosco le regole. Vediamo il film, passeggiamo, ceniamo insieme. È tutto a posto. Sto bene con te. Sei strano. Sembri venuto da un altro mondo. Mi piaci. E questo è ancora meglio. Però non voglio essere io l’ostacolo al tuo percorso di purificazione. Almeno prendiamoci tempo.”

Il destino sembra compiersi ancora una volta. Con angoscia Prajāpati vede sullo schermo del computer Avatar che prende la mano di Pārvatī, se l’accosta al cuore, la bacia dolcemente sul dorso, la stringe tra le sue. Ferma lo sguardo negli occhi di lei. Non parla. Tace Avatar, piange Prajāpati.

 

26’33” 26’32”26’31”

Mṛtyu è sconvolto. Mai si sarebbe immaginato di ascoltare dal suo maestro quel discorso. Solo la castità gli ha insegnato finora. Disciplina, mortificazione, purificazione. Questo era tutto il suo vocabolario. Si aspettava di essere abbandonato, più di una volta l’ha sospettato. Ma per vederlo partire verso un monastero dove completare in solitudine il suo percorso di santità. Non per infilarsi in un letto di donna. Non più demone da evitare. Addirittura passaggio per il divino.

Questi pensieri scuotono la mente di Mṛtyu. Ha lasciato la scuola, gira per la città. Ha perso l’orientamento, non conosce il quartiere in cui è finito. Tra case e strade devastate non sembrano esserci persone disposte ad aiutarlo. La gente fila via senza rispondergli, finché non gli fa cenno di avvicinarsi una donna anziana. È una Madiga. Ad un Brahman è proibito anche solo accostarsi a loro, ma troppe cose che non dovevano succedere sono accadute.

“Sono gli dei ad averti inviato fin qui, giovane figlio del fuoco che illumina la via verso la purificazione.” La donna lo invoca sbracciandosi e inchinandosi. “Non oserei mai rivolgerti la parola se non fossi investita di una missione suprema. È da giorni che vago tra la folla per conto di Yellama, la dea della fertilità. Il mio compito è trovare un giovane puro per compiere il rito sacro della dedicazione. Solo grazie a te una giovane fanciulla potrà diventare Devadasi. Entra. E che il volere degli Dei si compia!”

 

21’15” 21’14”21’13”

Tutto succede in un attimo. Questa volta invece della dissolvenza c’è un rapido cambio di scena. Pārvatī è distesa sul letto della casa di Avatar. Il giaciglio è angusto. Stringersi l’uno all’altra inevitabile.

“Bada di non violare il tuo karma. Resterai prigioniero del samsāra. Dolce mio Avatar, mi maledirai in eterno!”

 “Tu sei il mio dharma, piccola Pārvatī, conducimi sulla strada della illuminazione. Tu sei la legge universale che rende positivo il mio karma. Abbandonandomi in te potrò trovare la mokṣa. Accoglimi tra le tue braccia. Completa la mia essenza con la tua anima. Altra metà della mia!”

“Ti confesso che non ti seguo. Te l’ho detto, non sono molto religiosa. Ma se quello che dici significa che mi ami, abbracciami forte. E si compia quello che i tuoi Dei ci fanno chiamare destino.”

A Prajāpati gira la testa. Forse è l’agitazione, forse è il computer ad essere difettoso. Certo è che non solo non riesce a fermare i due innamorati, ma non è neanche capace di spegnere la macchina. Così assiste alle carezze, ai baci. Alle vesti che cadono. Ai corpi che, nella penombra, diventano una cosa sola. Potrebbe distogliere lo sguardo. Ma come si fa a non guardarsi mentre si ama? Perché il fremito del corpo è il suo, lo sguardo rivolto nell’estasi è il suo, il viso che contempla l’assoluto è il suo. E capisce che non c’è nulla di più osceno della propria anima nuda.

 

21’12” 21’11” 21’10”

La Madiga conduce Mṛtyu verso la baracca più fatiscente di tutta la via dissestata. Ma anche la più appariscente, dipinta con colori accesi e ornata di corone di fiori. L’interno, senza finestre, è illuminato da candele speziate che, unite all’aroma intenso dell’incenso che brucia sull’altare della Dea Yellama, fanno girare la testa al ragazzo, che sta per perdere i sensi e cadere.

La vecchia lo sostiene e lo accompagna fino alla porta della camera dove si trova la Devadasi, la schiava della dea della fertilità, che lo attende per compiere il rito. Non avrà più di quattordici anni. I gioielli, l’acconciatura, il trucco, lo stesso abito che indossa non riescono a mascherare la sua età. E la piccola statua della Dea che tiene in grembo ricorda più una bambola della sua infanzia che l’idolo a cui è votata.

La porta si chiude alle spalle di Mṛtyu. Nella camera senza finestre, appena illuminata da candele speziate, la ragazza lo attira a sé. Le vesti cadono e i due corpi, nella penombra, diventano una cosa sola.

 

16’37” 16’36” 16’35”

Pārvatī dorme. Avatar la osserva. Appoggiato su di un gomito, girato verso di lei,  si sente come il primo uomo. E davanti a lui è come se si trovasse la prima donna. Insieme possono dare inizio a una nuova stirpe. Avranno dei figli, nati dall’amore. Destinati a diffondere il bene ovunque. Troveranno ostacoli lungo il cammino, ma riusciranno a superarli, grazie alla forza che gli Dei infonderanno loro. A loro, ai loro figli, ai figli dei loro figli.

Questo dicono le voci nella testa di Avatar, ma Prajāpati non lo sa. Non solo ha perso il comando dei gesti del suo doppio; non riesce neppure ad averne il controllo dei pensieri, che fluiscono senza obbedire alla sua volontà. Oramai non c’è che una soluzione: formattare il disco rigido.

 

16’33” 16’32” 16’31”

Mṛtyu vuole fuggire. Non è possibile che quello che è avvenuto non sia stato. Eppure ha bisogno ora più che mai della guida di un saggio che, tramite la mortificazione, lo induca a purificarsi e lo indirizzi di nuovo verso la santità.

Invece è ancora una volta la Madiga a prendere l’iniziativa: “Dove pensi di andare? Gli Dei si infurieranno se non gli offri quello che è giusto. Devi lasciare l’offerta. La Devadasi ora è consacrata. Sarebbe un affronto troppo grande abbandonarla senza un’adeguata ricompensa. Gli Dei non te lo permetteranno!”

Mṛtyu non comprende il senso di quelle parole. Vuole solo allontanarsi dalla baracca. Con una spinta sposta la vecchia che gli impedisce di raggiungere la porta. Guadagna l’uscita, ma viene gettato a terra da due uomini che lo bloccano. Il più anziano dei due si siede sulla schiena del ragazzo, si accende la pipa e gli impartisce una lezione di vita: “Non mi dire che è venuto a trovarci il primo imbecille di Mumbay, l’unico abitante di tutta la città a non sapere che le schiave di Yellama si prostituiscono per onorare la Dea? Mettila come ti pare, nobile aspirante santone, ma questo è un sacro bordello e per fare l’amore con le ragazze bisogna pagare. Per cui adesso tu ti alzi, entri e sganci i soldi. Altrimenti ti spezziamo le ossa a una a una, con tanta pazienza e devozione che nemmeno Śiva in persona potrà mai rimettertele a posto come prima!”

 

14’03” 14’02” 14’01”

La porta della baracca si apre ancora una volta e Mṛtyu viene sbattuto dentro con tale violenza da finire tra le braccia della Madiga, che se lo stringe al petto e lo sbeffeggia, dicendogli qualcosa come “Non ti accontenti mai, benedetto ragazzo. Se vuoi, con un piccolo supplemento, possiamo anche combinare.”

Non è sul sorriso della vecchia, che rivela una bocca ormai quasi abbandonata dai denti, che si concentra l’attenzione di Mṛtyu. Tanto meno sulle sue carni repellenti, maculate e flosce. Un riflesso di luce lo ha abbagliato mentre veniva scaraventato nel sacro bordello. Proviene da sopra l’altare della Dea ed è prodotto dalla lama di un grande pugnale dall’impugnatura di giada scolpita a forma di serpente, con due rubini incastonati negli occhi. È un Khanjiar, frutto probabilmente di un’offerta votiva. Il ragazzo si divincola dalla presa ripugnante della vecchia, afferra il pugnale e la minaccia. La costringe a entrare nella camera dove si trova la giovane prostituta e vi rinchiude tutte e due le donne, spingendo il pesante altare contro la porta per non farle fuggire. 

 

12’44” 12’43” 12’42”

Urlano le donne rinchiuse nella camera, chiedono aiuto per farsi liberare. Urla Mṛtyu agitando il Khanjiar dalla lunga lama appuntita, minaccia di uccidere tutti. Urlano i due uomini nella strada, non possono violare il tempio della Dea, accessibile solo ai clienti della Devadasi. Urla la folla radunata davanti alla baracca, già divisa tra i sostenitori delle varie parti in causa, reali e immaginarie che siano. 

Il clamore attira un poliziotto che chiama rinforzi. Un drappello di agenti si schiera a semicerchio di fronte alla porta. A fatica riescono a domare il frastuono, così riescono ad udire le parole di Mṛtyu. Confuse, ma chiare: “Pongo termine all’esistenza, mia e di quanti mi hanno indotto alla vergogna. Prima toccherà alle donne. Poi a tutti coloro i quali hanno contribuito a dissipare i miei voti. Non ci sperate. Specie le donne. Ricomincerò strisciando come un serpente. Tutte le donne. Non salvo nessuno. Un serpente come l’impugnatura del pugnale. È il segno che mi ha mandato Kṛṣṇa. Maestro perché mi hai abbandonato. Una donna ti ha aperto la via verso la purificazione. Una donna mi conduce al sacrificio. Tutti ricominceremo strisciando come serpenti. È un segno divino. Questo pugnale. Trovato vicino all’altare. Sull’altare ci immoleremo. Che agli Dei sia gradito il nostro sacrificio. Prima le donne. ‘Chi vede in me tutte le cose e tutte le cose in me, per costui io non sono perduto, per me egli non è perduto’.”

Non si deve formattare il disco rigido. Prajāpati lo sa. Il destino deve fare il suo corso

 

11’38” 11’37” 11’36”

Nei vicoli la voce corre veloce. È un santo. Un marito tradito. Un vendicatore divino. Il padre di una prostituta sacra. Un folle. Ecco, si fa avanti qualcuno che sostiene di conoscerlo. È il giovane discepolo di Avatar, il saggio. Chiamate il maestro, solo lui potrà fermarlo. Invochiamo il grande Śiva. Avvertite la polizia. Loro sapranno come raggiungerlo. Sono tempi singolari. Si può dare una spinta al divino anche con un telefono cellulare. Perché, i santoni vanno in giro col telefonino? Non si sa, si può sempre provare. Anche pregare. Certo, però si fa prima a telefonare. Alla Centrale sanno sicuramente cosa fare.

È questione di pochi attimi. Al telefono della casa di Avatar non risponde nessuno. Al tempio è la stessa cosa. La polizia compone il numero del cellulare del brahmano.

 

10’ 33” 10’ 32” 10’ 31”

Avatar osserva Pārvatī che dorme. Non immaginava che potesse toccargli una veglia così dolce. È un dono di un Dio. Una leggera brezza soffia dalla finestra aperta. Muove appena i capelli della donna, glieli fa cadere sul viso. Senza svegliarsi Pārvatī se li sistema con civetteria innata. La più bella preghiera di una donna innamorata.

L’estasi è infranta da una melodia sconosciuta che promana dalle vesti di Avatar, abbandonate nella stanza. L’uomo si alza, fruga nelle tasche, trova un oggetto che il suo algoritmo gli fa riconoscere come un telefonino, anche se non immaginava di possederne uno. E non è neanche certo di sapere come funziona.

Le frasi sono concitate. Presto, bisogna fare presto. Il suo discepolo. Minaccia di fare una strage. Una prostituta sacra. Un pugnale sacro. Un tempio sacro alla Dea Yellama. Cos’altro c’è di sacro? La vita. Deve correre. Solo il maestro può impedire la tragedia.

 

9’49” 9’48” 9’47”

La suoneria del telefono, le parole allarmate, i rumori nella stanza hanno svegliato Pārvatī. Avatar si veste in fretta e non risponde alle domande della donna. Scende di corsa in strada, seguito da Pārvatī, a piedi scalzi, avvolta nel lenzuolo impregnato della loro felicità.

Arrivano alla baracca. Un megafono spunta tra le mani di Avatar. Le sue parole si diffondono in tutto il quartiere.

“Mṛtyu, mio caro Mṛtyu, non è questo che ti ho insegnato. Non è la lama la signora della vita. Bada di non violare il tuo karma. Resterai prigioniero del samsāra. Così è stato detto a me e così io ti dico.”

“Maestro, tu mi hai abbandonato. La lama è ora il mio karma. Per tua colpa non ho potuto raggiungere l’ahiṃsā. In me non ci potrà più essere l’assenza del desiderio di uccidere. È questo desiderio che ora mi pervade. Potevi impedirlo. Non l’hai fatto.”

 

9’36” 9’35” 9’34”

La folla si apre per far passare Pārvatī, che raggiunge Avatar avvolta nel suo candido lenzuolo. Si accosta al suo uomo. Muta.  

“Figliolo, la vita non è in nostro potere. Appartiene a chi è ben più in alto di noi. Non disporre di ciò che non è tuo. Liberarci dalle catene del nascere e del morire. Questo è il nostro scopo. E non possiamo anticipare il saṃnyāsa.”

“Non pensare di confondere la mia mente. Ho ascoltato con grande attenzione i tuoi insegnamenti. So bene che non possiamo anticipare l’ultimo passaggio terreno, ma possiamo allontanarlo. È quello che farò con il mio sacrificio. Non violerò il karma di queste sventurate, che con l’inganno mi hanno indotto a violare il mio voto di castità. Sono io che, come mi hai insegnato, sono sceso nelle tenebre. Perché è scritto che ‘gli esseri statici, i vermi, gli insetti, i pesci, i serpenti, le tartarughe, il bestiame e gli animali selvatici sono l'ultimo livello di esistenza, cui conduce la tenebra’e io, seguendo il tuo insegnamento, dalla tenebra ripartirò.”

 

9’05” 9’04” 9’03”

Il silenzio è sceso nei vicoli. Nessuna voce proviene dalla baracca. La folla attende col fiato sospeso. Avatar chiama Mṛtyu, ma non riceve risposta. È Pārvatī che si fa avanti, si accosta alla porta per ritrarsi con un balzo. Si guarda i piedi. Sono rossi. Di sangue. Non sa spiegarsi come possa essersi ferita senza provare dolore. Poi capisce. Non è suo quel sangue. Proviene dalla casa. Con un urlo d’orrore indica l’uscio, davanti al quale si è formata una pozzanghera densa e scura.

Con un rapido cenno d’intesa i poliziotti si radunano davanti all’uscio della baracca. Basta un calcio per sfondare la porta. Non possono entrare rapidamente con le armi spianate pronte a far fuoco, perché lo spazio è così angusto che non glielo permette, ma tanto non serve. Quello che doveva succedere è successo.

L’anima di Mṛtyu ha abbandonato il corpo, disteso sul pavimento. Dalla gola tagliata di netto sgorga ancora sangue. Altro sangue tinge di rosso l’altare della Dea. Così come le pareti, fino al soffitto.

Le urla delle donne arrivano dalla stanza il cui accesso è impedito dall’altare. Non è facile fargli capire che devono avere pazienza. Per farle uscire dovrebbero spostare il cadavere e non si può. Deve prima arrivare il magistrato. E comunque è tutto finito.

 

7’15” 7’14” 7’13”

Non è tutto finito. Non per Avatar. Pārvatī piange stretta tra le sue braccia. Non bada neanche più a coprirsi. Il lenzuolo fatica a contenerne il fremito. Altre sensazioni, altre emozioni premono su Avatar. Questo corpo di donna che si stringe a lui,  quel corpo di ragazzo di cui si intravedono i piedi. Due vite sconvolte dalla sua inadeguatezza.

Quando il magistrato esce dalla baracca e rivolge lo sguardo verso di lui, Avatar sa cosa deve fare. Allontana con forza da sé Pārvatī e si rivolge alla folla: “Portate via questa donna. Ella non può accostarsi a me. Io indosso il bianco, colore della luce e della purezza, che mi è dovuto per nascita. Perché ella osa sfoggiare il bianco? Portatela via, la sventurata. Non la biasimo. È la follia che si è impossessata della sua anima. Ricopritela del giallo, del colore della terra, da cui ella sicuramente proviene. Aiutatela a tornare in sé. Tornando alla terra tornerà in sé. Abbiate misericordia di lei. Ma non permettete che mi si accosti. Io non la conosco. Né posso conoscerla.”

Prajāpati capisce. È l’unico a capire. Perché è già successo.

 

5’33” 5’32” 5’31”

Il magistrato si accosta ad Avatar. Ha terminato il sopralluogo nella baracca. Ha fatto trasferire le donne alla Centrale di Polizia per interrogarle. Lo farà non appena si saranno riprese dallo shock. Si è fatto riferire sommariamente i fatti principali dagli agenti intervenuti. Si è fatto anche una prima idea sull’accaduto. E in questa prima idea Avatar gioca un ruolo di rilievo.

Sul suicidio non ci sono dubbi. Sulle cause che l’hanno prodotto c’è da ragionare. La vecchia Madiga è sicuramente nei guai. Le vengono contestati una mezza dozzina di reati, dalla riduzione in schiavitù allo sfruttamento della prostituzione minorile, dall’adescamento alla truffa, fino al più grave, l’istigazione al suicidio di un minore.

Ma se è vero che il maestro ha abbandonato il discepolo, se con il suo comportamento contrario agli insegnamenti fino a quel momento impartiti ha indotto nel ragazzo la confusione che lo ha portato a imitarlo, se la consapevolezza dell’errore compiuto lo ha portato alla disperazione, se le parole del maestro hanno acuito ancor di più l’angoscia dell’allievo, allora anche Avatar dovrà rispondere dello stesso capo d’accusa: istigazione al suicidio di un minore. Roba da pena di morte.

 

5’21” 5’20” 5’19”

Il magistrato si sta accostando ad Avatar. Il brahmano capisce. Prima di essere arrestato fugge. In un attimo si dilegua tra la folla accalcata nel vicoletto davanti alla baracca. I poliziotti si mettono al suo inseguimento. Arrivati alla piazza a pochi passi dal luogo del suicidio si dividono tra le stradine che da lì ripartono. Le provano tutte, ma non sarà facile trovarlo.

Pārvatī aspetta che gli agenti si allontanino e poi sa dove andare. Senza dare nell’occhio, senza correre, ma con passo deciso si dirige verso il Bandra Worli Sea Link, il nuovo ponte che unisce le due isole principali della città. Che somiglia tanto al Golden Gate. È sicura di trovarlo lì. Come i protagonisti di “Sconosciuto, Sconosciuta”.

Da quel ponte ricomincerà la loro vita. Quelle parole servivano a depistare la polizia. Avatar è lì che l’aspetta.

 

3’17” 3’16” 3’15”

Avatar fugge. Non sa dove sta andando. Attraversa strade e piazze che non conosce. Ora non è più nella città vecchia. O forse questa era la città vecchia e non lo è più. È tutto un cantiere. Edifici abbattuti, scavi per fondamenta, scheletri di edifici in costruzione. Un camion si allontana veloce da un capannone dove ha scaricato qualcosa. La porta è aperta. Avatar entra per riprendere fiato.

Il brahmano rimpiange di non fumare, perché nel buio non riesce a capire dove si trova. Quando una nuvola che impediva alla luce della Luna di penetrare nella piccola finestrella del locale si sposta, Avatar ringrazia di non avere quel vizio. Si trova in un deposito di esplosivi. Dovrebbe essere roba da cantiere. Eppure la cosa sembra un po’ più losca. Dietro una cassa con delle scritte che non sa leggere trova delle cinture da cui pendono dei candelotti. Collegati ad un innesco ad orologeria. Forse quella gente che aveva tanta fretta ne sa qualcosa. In ogni caso Avatar ha trovato la soluzione.

 

2’05” 2’04” 2’03”

È quasi l’alba ed il traffico sul ponte che unisce le due isole di Bandra e Worli comincia già a farsi sostenuto. Pārvatī ha freddo. Si accuccia vicino all’ingresso del ponte. Il casellante che provvede a riscuotere il pedaggio esce dal suo gabbiotto. Le offre del tè caldo. Le porge una coperta. Ora sta meglio. Può aspettare. È sicura che Avatar la raggiungerà. Da lì lei non si muove.

Il computer di Prajāpati non risponde ai comandi. Neanche la formattazione del disco rigido è più possibile. Non c’è neppure una spina da staccare. Del resto lo sa che sarebbe solo una pausa. Poi lo scorrere degli eventi riprenderebbe da dove era stato interrotto.

 

1’11” 1’10”1’09”

La cintura è ben stretta sotto la candida veste. L’innesco ad orologeria procede nel suo viaggio. Anche Avatar si mette in cammino. Destinazione Yerwada. Non lo rinchiuderanno nel carcere. Non come il suo Deva. Di cui ha ripercorso la strada. Commettendo gli stessi errori. Ma non fino all’ultimo approdo.

“Chi vede in me tutte le cose e tutte le cose in me, per costui io non sono perduto, per me egli non è perduto.” Prajāpati intona il mantra della speranza. Volge le spalle allo schermo del computer. Sa quello che accadrà. Ha fallito di nuovo. Prega. Senza sapere se per Avatar o per sé.

All’imbocco del Bandra Worli Sea Link il frastuono è assordante, eppure Pārvatī dorme. Sogna. È in un cinema. Anche se il film lo ha visto tante volte, lo segue sempre con passione. Ride, piange, canta, si agita nella poltrona. Si agita tanto che dà una gomitata nelle costole dell’uomo che le siede accanto. È mortificata. Gli offre da bere. Lo invita ad uscire. E davanti al cinema comincia a ballare come nella scena finale del film.

 

02” 01”00”

L’esplosione è talmente forte da aprire una breccia nel muro di cinta della prigione di Yerwada. I pixel che compongono l’immagine virtuale di Avatar formano un vortice che si innalza verso il cielo. Arrivato a toccare il lato superiore dello schermo del computer il vortice si decompone. È l’immagine stessa a sfaldarsi. Uno alla volta i minuscoli quadratini si dissolvono. In pochi secondi lo schermo si annerisce. Rimane come una polvere di pixel in un angolo. Qualcosa che potrebbe definirsi un vento cibernetico smuove questa polvere, che si addensa di nuovo. Forma una scritta.

 

GAME OVER

 

Riprendono i gesti tutti uguali. Tutti i giorni. Prajāpati torna nell’eternità. Forse non è più di questo mondo. Sempre che ci sia una grande differenza.

 

 


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