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L’Uomo Fisico

di Raffaele Sergi
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Pubblicato il 04/03/2018 04:00:57

L’uomo Fisico

 

Il freddo ha placato ogni cosa, 

ha lasciato i suoi cristalli di brina: 

è come sedersi sul letto del fiume ghiacciato. 

Il muro del buio traccia un confine, 

da un argine che nulla diffonde nell’aria, 

ma solo concentra il pensiero 

in un cerchio più profondo.

Chinarsi, fermarsi 

con gli occhi sulla coltre nevosa, 

quando rumori più aspri si sono fermati: 

forse al mondo non si ama che questo, 

solo il sapore ferroso del bianco e del nero 

di questa continua immagine, 

nient’altro che un suono mortale 

– tutto brucia il fuoco del gelo, 

lascia l’unico spazio 

ad una rauca voce interiore.

 

Nessuno può sentirti, 

stella bruna nel ventre della terra, 

il tuo suono è nascosto 

dal velo notturno di questo gelo 

e vibra, sottile e infinito, 

nel presente eterno, eterno pensiero; 

solo ferisci il sonno 

come un sogno fuori dal tempo 

quando batti sul tuo tamburo 

e canti le sorelle del carro 

col cui aiuto navigavano i Fenici, 

quando ti trasformi in magra figura 

tinta del sangue dei vulcani 

– dal volto freddo e cereo – e gridi, 

spalancandoti 

nell’immenso respiro del dolore.

 

E immagini immani del passato 

bruciano dentro gli occhi 

come specchi di luce improvvisa, 

quando la mente ha relegato all’occhio 

qualcosa di più grande, 

un sapore aureo e dolce 

che si può riconoscere 

quando la tenebra cerca di aprirsi 

e un canto si fa più forte 

accarezzando il cuore; 

acqua e muschio concedono una forma, 

un sorriso della natura dove assopirsi.

 

Questa pelle calda e bianca rammenta 

ciò che è stato lasciato con un cieco gesto: 

le nostre spoglie si spostano per spazi infiniti 

e la paura cade nel suono 

– siamo soli ed eterni

come nel camminare sulle cime del verde, 

in questa pietra lucida e sempre uguale 

di sola acqua che rapidamente scorre: 

il sogno sublime dal quale ci sveglieremo 

con un serpente di metallo dentro.

 

Quando tutto questo il dio del tempo 

lascerà cadere in un sonno profondo 

di gesti consueti,

guarderemo affranti verso il limite 

dell’immensa distesa d’acqua, 

specchio di gelo e nient’altro che gelo.

 

Ma io ti sento, invincibile e buia, 

trasformata e confusa, 

agitata dentro un rumoroso colore di universo 

– una goccia di cristallo liquido 

nel mondo microscopico d’un colpo d’occhio – 

come il paesaggio di neve sciolta 

che sembra essere innanzi, 

come un dio che colpisce da lontano 

dentro l’acqua che si perde alla vista, 

principio delle cose, e dentro il dio 

che dall’acqua con la mente le plasma. 

 

E ancora forse fissare lo sguardo 

è come perdersi nel pensiero 

che si dilata e si fa ritmico, 

e di qua, e di là, nell’orizzontale, 

è il Tutto forse, 

o ti sei lasciata cadere dentro me.

 

Ancora ascolto il tuo respiro farsi il mio, 

chiudere gli occhi nel sonno 

sembra ancora un gesto ultimo e mortale e certo, 

non serbare memoria parrebbe 

perdere la vista in una lunga strada di pietra 

e sapersi il viso solcato da un silenzio sepolcrale; 

così come sentire la fine ormai troppo vicina, 

i pescecani dell’ombra farsi aghi di vento 

e lacerare il mare fermo 

– vedere i coralli spalancarsi in verticale, 

in bocche argentee farsi abissi e luci: 

se il lenzuolo scuro copre tutto dinnanzi, 

voltando pagina è il bianco che diviene infinito.

 

Sei dentro me, poiché ti penso, 

ed è come se il cielo s’aprisse in sogno 

per lasciarsi dimenticare nell’attimo dopo;

mai mi riuscirà di partorirti 

e spasimo e dolore mi fremono in corpo, 

in un nodo di carne; 

sei dentro me, bruciante, 

se guardo il cielo e la terra 

sembra sentirti parlare dal profondo 

e muovere il corpo immenso 

come un rettile antico.

 

Dentro una bocca e un grido al cielo 

ascolto e vedo in un modo nuovo di agitarsi, 

girarsi, muoversi nel letto d’acciaio, 

avvolto dentro un lenzuolo 

– altri occhi fiammeggianti e un’altra bocca: 

non potrò vomitarti 

mentre ti gonfi nello stomaco 

come un liquido velenoso 

né mai riuscirò a salire anch’io sul monte 

e mostrarmi sul dirupo 

come in un tempio celeste 

e lasciarti cadere in zampilli e gabbiani 

dentro lo specchio fosforescente dell’alba.

 

O specchio infallibile! 

Verità dalla fiamma bluastra, 

non posso guardare!

È un giorno d’Eclisse 

che trasforma in pietra il tempo, 

diventa presente eterno, eterno pensiero 

– vedendo, definendo, 

si palesa un frammento delle tenebre: 

dentro il tempio 

è come volessero ferire la terra 

con lampi di ghiaccio.

 

Così sono, 

gli Uomini Fisici dall’occhio fermo, 

nell’oscurità di questo tempo, 

supini su altari di marmo contemplano muti, 

i loro corpi si bagnano d’una pioggia azzurrina 

e forse si scavano nei cuori senza dire parola.

Così si distruggono! 

In cima al monte lottano 

come feroci minotauri, 

del principio delle cose l’antico 

è il sentirsi vivi, 

con l’arma alla mano.

Scivolando dentro l’ovunque 

si sollevano dal muschio 

e portano in dono una manciata di terra 

a noi tutti, 

battendo rabbiosamente una porta, 

aprendo una mano ferita. 

Dentro la folta vegetazione 

posseggono le loro travi di cristallo 

e le loro costruzioni dimenticate dal mondo, 

obliate da un frastuono metallico di moltitudini, 

voce sola di un silenzio 

che nessuno ha mai violato.

 

Grandi cose sembrano ignorare gli uomini: 

la pupilla dilatata dei Fisici. 

Essi si avvolgono nei loro mantelli di pietra, 

con un gesto perpetuo, scompaiono nella nebbia, 

senza ch’io me ne avveda.

Li riconosco: 

così codardi mentre si nascondono, 

così coraggiosi mentre sanno di soccombere, 

dai visi scavati da un silenzio immortale...

Questo il pensiero meno sublime. 

 

Le mani dei titani mostrano al cielo 

le ferite terribili, 

in una foresta spine ghiacciate 

hanno lasciato i loro segni: 

monti, fiumi, grandi percorsi, 

zolle di terra che non conoscono 

il passo degli uomini.

Dimenticare i demoni di roccia,

impassibili guardiani, 

e non temere il braccio 

che senti di sfiorare nella notte, 

nel cammino dentro il buio: 

la luna illumina profili perpetui 

– troppo la mente li pensa, 

ne alimenta il fuoco dentro la terra 

e s’intorpidisce dentro gli elementi 

– ma è distante dal vero, 

ancora troppo lontana.

 

In immagini senza colore 

cancellare i profili di fosforo, 

nella notte che chiude 

la voce dei vicoli e ferma l’aria, 

che penetrano il pensiero 

con segni enormi, sospiri, 

colpiscono e feriscono.

 

Chi mi ha portato in un luogo così profondo?

Chi mi ha messo indosso questo mantello polveroso?

Chi mi spia da dietro il vetro e la ginestra?

Guardando innanzi, oltre la distesa, 

sembrano smarrirsi in un piano infinito 

i volti divini dell’acqua, 

le antiche febbri crescenti, 

come alberi dopo che Nettuno 

ha allargato le sue braccia: 

sono rami accasciati dentro la terra rossa, 

in ogni lato hanno una bocca 

che sputa fango e fuoco 

– si riconoscono dal cranio di ciottolo levigato 

tinto di alghe che le onde spostano 

dalla terra al cielo, dal mare alla luna; 

dai volti morenti che non sanno 

in quale luogo lasciare riposare lo sguardo.

Immagini che sospirano le lunghe attese 

degli uomini sempre soli, dentro il caos 

– che enormi grida al cielo, dalla schiuma del mare! 

 

L’occhio dei Fisici ascoso 

non ha dolore né frammenti, 

e tutto sospende nel nulla. 

Dimmi, qual’è il canto che ascolti, 

quale nota fosforescente e continua? 

Quale giorno di pioggia, 

quale impossibile autunno? 

Ciò che la rauca voce ti dice all’orecchio, 

ciò che con voce tremante rispondi... 

No! Gli uomini quale grido al cielo compiono, 

se sentono luce e infinito, e infinito buio!

 

1981


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