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Quella luce che tocca il mondo

Argomento: Letteratura

di Ninnj Di Stefano Busà
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Pubblicato il 20/02/2012 08:32:08



Quella luce che tocca il mondo di Ninnj Di Stefano Busà


Emerico Giachery

Accogliere un nuovo libro come un evento dal quale ricomincia il mondo di un poeta è possibile in un libro come questo, così colmo, intimamente organico, e così se stesso pur nel lungo e celebrato cammino di Ninnj Di Stefano Busà. Giova, comunque, prendere atto di qualche lampo interpretativo degli eminenti maestri che si sono espressi su opere precedenti (Piromalli, Manacorda, Bárberi Squarotti e non pochi altri), e poi andare avanti. Non dimenticare, soprattutto, la densa e scavata Lettera-Prefazione al volume L’arto-fantasma (2005) della stessa poetessa. Il prefatore è uno dei personaggi più apprezzati del secondo Novecento letterario, Giovanni Raboni, poeta militante capace come pochi di capire altri poeti e di parlarne con avveduta penetrazione. Certe sue impressioni e formulazioni sulla poesia di Ninnj Di Stefano restano decisive. Per esempio: “una voce che ha nel suo sfondo il mistero della parola fuori della routine”. Oppure: “la novità di un modernismo non aberrante, non raggelato da spettrale figurativismo né minimalismo che ne denuncino il disabitato conflitto coi significati interiori più spirituali”. O ancora: “un limpido assolo fra i drammi privati e quelli più universali cha fanno il consuntivo di una sperimentazione in limine, di ottimo livello”. Infine, “l’impressione di trovarsi in un clima diverso, quasi di sospensione fra la ragione dello strazio e il suo superamento”.
Ricordiamo anche la nota con cui l’autrice spiega il titolo, davvero singolare per un libro di poesia, come L’arto-fantasma: “in campo scientifico-medico quella particolare condizione nella quale, nonostante l’assenza fisica, sembra permanere nell’individuo, al di là dell’atto amputativo, la sensazione di reperibilità immanente, di persistente disagio o turbamento, che indichi l’indivisibilità, quale scaturigine di una sua irrinunziabile adesione all’atto unico e irreperibile dell’esistente”. Spiegazione minuziosa, questa, di una ruvida immagine, e quasi allegoria, della condizione d’assenza, di un’assenza-mutilazione dolente, che è anche, al fondo, nostalgia di totalità. Secondo l’autrice, proprio questa è “la condizione della poesia e della parola nell’attuale società tronca, violentemente amputata, assente, eppure ancora vitale nelle rappresentazioni e nelle sensazioni che riesce ad evocare”. Interessante anche l’annotazione, certo di mano della poetessa, alla coinvolgente riproduzione in copertina di una terracotta di Laura Rossi Ravaioli dal titolo Decostruita: “indica la bidimensionalità dell’anima divisa e moltiplicata dall’assenza”. Musa generatrice anche di Quella luce che tocca il mondo, l’assenza, in Ninnj Di Stefano, “non è desertificazione o estinzione”, precisa Raboni.
Nostalgia, semmai, dell’Essere perduto, degli Dei fuggiti o nascosti, delle stagioni consumate, che diventa appello alla necessità della parola, o pausa musicale, o respiro di leggerezza e quiete ritmica. Ha forse qualche affinità col vuoto interiore che il guru meditante consegue perché necessario all’auspicata irruzione del divino.
Il proposito è ora incontrare senza ipotesi pregiudiziali il nuovo libro nella sua unicità e singolarità, come se si affrontasse un’opera figurativa adespota da attribuire: è un suggerimento di Gianfranco Contini al quale volentieri mi attengo di fronte ad un nuovo testo ancora inedito o fresco di stampa. Stavolta, tuttavia, era necessaria un’eccezione per il grande motivo dell’assenza, radicata nella poetica stessa dell’autrice e nella sua concezione del mondo: averne già nozione è disporre come di un privilegiato frammento di “avantesto”. Che però – ecco – ci introduce già nel nuovo testo. Che poetica costellazione d’immagini vi ha generato e profuso la nozione-chiave di assenza! Assaporiamone alcune: “vuoto lasciato dalle cose”; “echi senza voce”; “ le cose dileguate | o assenti”: “ scalmi alla deriva, senza approdi”; “la salvezza che non cogli”; “giorni senza incensi, senza mète; “lande disabitate, indizi cancellati”, “un diario | senza pagine, l’ora che non c’è”:“inconsistenze che trattengono silenzi”; “suoni senza vita, giorni che non tornano”; “il senso delle cose perdute”; “l’attimo non torna, proprio non torna”; “guizza dall’anima il lamento | per le cose assenti”; “rose sfatte | ai muri dell’inverno, consunte le parole”; “un dire senza attese”; “momenti di un codice segreto | che contorna la vita che non c’è”; “tu parti e non hai mèta, arrivi e non sai | il nome dei luoghi dell’altrove”. Di notevole interesse l’implicito protendersi dall’assenza verso l’“altrove”: una sorta di etimologico ex-sistere. Forse per tentare voli verso un ipotetico Oltre, la terra “ci fa germoglio d’ali”? . L’impari, e perciò tanto più intrepida, sfida della parola e della scrittura al vuoto dell’assenza è comunque un suggello impresso al libro. Eccolo: “le parole sfilano | e non sanno che sistemarle per poco, | seppure sulla carta, serve a dar loro ancora | un po’ di senso una voce un corpo | che le leghi e perduri oltre l’assenza”.
Libro compatto, omogeneo è dunque Quella luce che tocca il mondo. Da recepire e godere come unità. Unità poematica? “Poema lirico-filosofico”, si potrebbe dire con un po’d’enfasi, soltanto se mirasse a divulgare una dottrina e se del poema avesse la struttura, con palesi svolgimenti diacronici. Il suo, invece, è un tempo quasi ciclico. Assomiglia al tempo della meditazione, non al tempo della diegesi. Assomiglia a ricorsi di stagioni: analogia o affinità con le stagioni è del resto partecipe sintonia con la grande natura.
Si articola in riprese, ritorni, approfondimenti singoli, pur nel costante clima diffuso. “Variazioni”, si potrebbe dire con allusione musicale (richiami a situazioni musicali sono qui pertinenti e illuminanti). Non su tema unico, come è consuetudine nella musica, bensì su un coerente plesso tematico, che rappresenta, se così è lecito dire, la sua stessa struttura, e la scansione di una fondante concezione del mondo, che corrisponde, mutatis mutandis, a quello che è la tonalità per una composizione musicale.
La concezione del mondo non è compendiata né compendiabile in formulazioni (giacché si pone anzitutto come effuso sentimento del mondo). Non proclamata né sbandierata, si accende, e più spesso traspare in controluce, qua e là.
Il segno cristiano, accennato appena nella prima poesia del libro (“tu non sai perché questo giorno | è inchiodato al legno della croce”), compare esplicitamente solo in Sarà pane, in una generosa visione escatologica: “Gli angeli laveranno il peccato della croce, | il pianto sarà acqua benedetta, | di Cristo avrà voce la salvezza”. Il sintagma “il cielo sopra di noi” non può non ricordare la celebre formula kantiana: “il cielo sopra di noi | è un dono che non finge”. L’“Esserci” è certa allusione al Dasein di Heidegger: “Dunque è qui l’indistinto, il minimale, l’esser(ci)”. I vocaboli “cose” e “mondo”, ricorrenti almeno una dozzina di volte, ci immettono in aura fenomenologica.
Singolare, infine, la ricorrenza del termine “implosione” (una sola volta si trova “esplosione | delle spighe”) e del verbo “implodere”, che acquisiscono qui quasi una patina di “idioletto” e richiamano l’estroso monologo di un Amleto dell’era spaziale nelle Cosmicomiche di Italo Calvino. “Esplodere o implodere – disse Qfwfq – questo è il problema: se sia più nobile intento espandere nello spazio la propria energia senza freno, o stritolarla in una densa concentrazione interiore e conservarla ingoiandola. Sottrarsi, scomparire, nient’altro; trattenere dentro di sé ogni bagliore, ogni raggio, ogni sfogo, e soffocando nel profondo dell’anima i conflitti che l’agitano scompostamente, dar loro pace, occultarsi, cancellarsi: forse risvegliarsi altrove, diverso”. Patina di “idioletto” ha forse anche il molto usato termine “epifania”, indizio di una modalità intensa, a volte quasi mistica, di incontro con l’oggetto Un esempio: “Tutto è nel suo farsi [= del giorno] breve e senza luce | nel suo porsi come epifania di senso”. La suddetta patina è conferita dalla coloritura vivamente personale a diversi altri lessemi, dilatandone e arricchendone il senso. Per esempio “rammendo”(“pianto che ferisce il suo rammendo”); “miele” (“il miele del tramonto”o “il miele del ricordo”), che sostituisce “dolcezza”, rendendola più concreta e meno sentimentale. Poi “arsura” (non “l’arsura in giro” topica diOssi di seppia), e “brivido”, spesso plurali, entrambi con estesa e forte connotazione esistenziale: nel primo caso tendente a volte a crudezza assetata (“arsure di sensi, volti e nomi”), nel secondo a tensione emotiva, vibrazione: “la parola chiusa nel suo brivido”, “inesplorati brividi”. Si trovano comunque entrambi associati, una volta, in “brividi d’arsura”.
Pensiero poetante, dunque? Poesia pensante? Preferibile parlare di concezione del mondo, non sistematica e tuttavia coerente; incarnata, come è proprio del dire poetico, in immagini, in ricorrenze tematiche armonicamente variate e in una felicità ritmica e metrica senza sbavature, commisurata al respiro del contemplare, del meditare e del rammemorare. Raboni suppone, almeno per quanto concerne il libro da lui prefato, “aspetti e suggestioni della poesia meridionale del Novecento”. Nel libro che qui ci si offre, una sola volta è ricordata la Sicilia natia: “la mia terra di zagare e uragani”. “Tratturi” ci trasportano al pastorale Sud abruzzese pugliese molisano: “respiro lento | di fiumi a segnare tratturi”, “il profumo dei tratturi”, “luce sfinita | sui tratturi”. Ricorrenti “chitarre” potrebbero evocare – ma è soltanto una supposizione – l’area della “matrice mediterranea” di cui ha parlato Raboni: “vegliano chitarre nelle aie estive”, in Paese senza tempo (titolo d’alta pregnanza!), che ritorna in L’oracolo, “tortorelle | di un sogno perverso che veglia chitarre | nella aie estive”, e in Quella forza, “Una memoria, un fuoco hanno giorni appesi | alle chitarre dell’infanzia”. Ma il contesto melodico e ritmico, con quegli adagi e larghi, pacati e pausati, e di frequente “aperti” al fluire di magistrali enjembements, ci fa immaginare un orecchio che abbia assimilato la vitale lezione metrica del Quasimodo postbellico, in cui più di un poeta del Sud ha riconosciuto una misura congeniale.
In ogni caso il protagonista (talvolta dissimulato) della poesia italiana, l’endecasillabo, qui si affaccia con slancio. A volte si afferma in momenti di incisività gnomica: “ l’inutile distanza delle cose”; “Ci restano le strade consumate”; “ciò che non muta, ciò che non ritorna”; “il nostro è un regno dai confini incerti”. A volte offre propizi avvii (“Ogni giorno è votato al suo silenzio”, “Silenziosamente tutto splende”) o misure di compiutezza: “Tutto poi torna alla sua breve quiete”; “che ricompone giorno dopo giorno”. “D’altro naufragio è l’età che non torna” ha un vago alone ungarettiano. Invece Montale, che ha “salato il sangue” di più d’una generazione ed è, secondo Raboni, tra i maestri capitali di Ninnj Di Dtefano, con l’eco del quasi proverbiale anello che non tiene è presente nel verso: “e il rammendo non tiene. Tutto è stato”, e anche altrove. Del resto, proprio nello stesso testo, dal sintomatico titolo Niente ha nome o voce, è già presente quasi un “ammicco” montaliano: “sabbia che si addipana senza consumarsi”. Montaliano un verbo come “avvena”: “la carne del dolore che l’avvena”. “Fuori piove” sono le ultime parole di Ai transiti del vento come delle memorabili Notizie dall’Amiata. Anche in Ossi di seppia aleggiava, come qui aleggia, una esitante “attesa di salvezza”. Non manca il “varco”, forse non immemore di quello esemplare della Casa dei doganieri: “Questo varco, la sua ipotesi | ti porti dentro”; il mondo è “racchiuso in sé, senza varchi provvisori”. Parecchie – ma non necessariamente montaliane – le “occasioni”, importanti aspetti della condizione temporale: “Le occasioni poi scorrono in un fluire | d’acqua e neve”.
Il Tempo: uno degli elementi portanti dell’universo immaginario e semantico di questo libro. La parola “tempo” vi compare non meno di venticinque volte. Altrettante volte vi compare la parola “silenzio”, ma per lo più al plurale: Leopardi, con i suoi “sovrumani silenzi”, ha additato la suggestione poetica di un plurale che aggiunge, si direbbe, un orizzonte di spazialità. Ecco due significativi endecasillabi: “L’eco è breve, già chiama dai silenzi” e “albe chiare ritornano ai silenzi”. Il dinamico“vento” (“vento che muta le sembianze”, “odissea di vento”) compare una dozzina di volte; altrettanto i già ricordati “mondo” (“il mondo è lì”) presente anche nel titolo e “cose” (“la storia cambia il senso delle cose”). “Lento” è aggettivo caro all’autrice (“il lento respiro delle sere”) e suggerisce, in amichevole sinergia con “silenzio”, un “tempo di lettura” riposato e pausato che corrisponde col respiro della scrittura.
L’indicazione meramente statistica delle concordanze, già in sé stimolante, è peraltro soltanto un avvio, una prima chiave. Uno dei “piaceri del testo”, che è quello di esplorarne percorsi e sensi per goderne la poliedrica compiutezza, si accresce nel riconoscere le metamorfosi semantiche dei segni, il loro combinarsi, intrecciarsi e corrispondersi per dar vita alla sinfonia del tutto.
Un tutto, in questo caso, segnato fortemente dalla luce, forse proteso verso la luce. Di fronte a una diecina, o poco più, di segni dell’“ombra”, (“è troppa l’ombra che ti passa | addosso e ti nega il profilo del sole”), la “luce”, che già signoreggia dalla posizione potente del titolo del libro, ricorre poco meno di quaranta volte in una raccolta di settantaquattro poesie. Evidentemente non si tratta soltanto di una parola-nucleo, ed è più che un tema tra altri temi. La tradizione biblica, e soprattutto neoplatonica e mistica, è così impastata nella cultura europea, nell’anima europea, nel nostro immaginario, che non è facile dissociare la luce dal senso del divino e dell’assoluto. Dal I secolo in poi si forma una metafisica della luce, in cui avrà notevole parte Dionigi Aeropagita, poi il francescano di Oxford Roberto Grossatesta col suo De luce (“la prima forma corporea è secondo me la luce”), contemporaneo del luminismo trionfale del Paradiso dantesco. Poi, l’elemento poetico della luce nella pittura europea, soprattutto da Caravaggio in poi. Poi, per esempio, il “lungo viaggio verso la luce” di poeti come Mario Luzi, più che mai poeta della luce da Per il battesimo dei nostri frammenti al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Non sappiamo, del resto, quali orizzonti ci schiuderà la fisica di domani nello studio della luce.
In questo libro il segno luminoso ha valenza per lo più positiva: “evoca spore in attesa di luce”, “a tentar luce mai vissuta”, “generiamo luce d’amore”, “l’emergenza di luce”, “epifanie di luce”, “una mezza verità | rivelata dalla luce”, “Al gran clamore il giorno proietta | la sua luce, nelle strade, nei vicoli”, “un’allegria di petali alla luce”. E quando è negata è forse anche nostalgia e sgomento per una pienezza ontologica minacciata o perduta, e perciò è quasi implicitamente riaffermata: “luce che si spegne”, “perdita di luce”, “luce che diventa opaca”, “luce che non brilla”. Per concludere luminosamente la prefazione si può ricorrere a questo verso (ancora un endecasillabo!), che sembra renderci partecipi alla tensione spirituale del libro: “ognuno porta l’onda di una luce”.

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