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Roberto Deidier

Argomento: Intervista

Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 04/05/2012 21:48:58

[ Intervista di Patrizia Stagnitta ]

 

 

1 Roberto, vivi e insegni a Palermo ormai da più di dieci anni. Tu sei romano, cosa ti ha portato in terra di Sicilia?

Il lavoro, anzitutto. Negli anni dopo la laurea, a Roma non venivano banditi concorsi, non c’erano opportunità. Molti dei miei amici e colleghi, infatti, avendo scelto di non muoversi sono entrati all’università molto più tardi di me, ma ne comprendo le ragioni, che erano d’ordine affettivo o di famiglia. Io ero libero di spostarmi, invece, e non ho avuto problemi a farlo quando si è presentata l’occasione di un concorso a Palermo. Considera poi che la mia famiglia è originaria di Napoli, quindi nel meridione mi sento ovunque e comunque a casa mia. Ecco, i siciliani vanno in continente a lavorare, io invece ho fatto il percorso opposto. E invece di prendere casa a Villa Sperlinga o a viale Strasburgo l’ho scelta tra la Vuccirìa e la Cala, con grande disappunto di diversi amici artisti palermitani, pensa tu…

 

 

2 Rispetto alla poesia come hai trovato Palermo negli anni in cui sei arrivato?

Un silenzio assordante, con poche presenze di rilievo e, come dire, molti “localismi”. Ero stupefatto: tanti narratori interessanti venivano fuori in quegli anni (Alajmo, Calaciura, Conoscenti, Evelina Santangelo, Vanessa Ambrosecchio) e con alcuni di loro è nata una bella amicizia, ma con la poesia le cose andavano diversamente. Eppure la poesia italiana era nata proprio qui, possibile che anche dentro l’università fosse così trascurata? Così ho cominciato a tenere qualche corso, ma alla facoltà di scienze della formazione, dove avevo vinto il mio concorso, ho sempre avuto pochi studenti. Ricordo quel periodo senza tristezza, però: la mia era una materia a scelta, e gli studenti che venivano a seguire le mie lezioni erano davvero interessati, eppure nessuno aveva il coraggio di chiedermi una tesi sulla poesia. Come avrebbero potuto spenderla sul mercato del lavoro, dovendosi laureare in giornalismo o in pubblicità? Sentivo poi un atteggiamento diffuso di diffidenza verso la poesia cosiddetta “nazionale”, come se la vera poesia avesse confini. Così, nel 2003, quando l’Unesco mi chiese di organizzare una giornata della poesia a Palermo, per il 21 marzo, invitai dei poeti per la prima volta. In una grande sala del Politeama, che mai mi sarei aspettato di vedere piena, vennero a leggere Luciano Erba, Marcia Theophilo e Umberto Fiori, un poeta con un passato di cantante (era una delle voci del rock progressivo italiano, ricordi gli Stormy Six?) che naturalmente cantò…. delle canzoni su poesie di Franco Loi. Fu un successo, ma anche un caso isolato. Insomma, cercavo di darmi da fare come potevo, ma non sempre i riscontri erano quelli sperati. Non ho smesso, però, come vedi. La poesia non è solo un “vizio solitario” come diceva Sbarbaro, uno dei maestri di Montale: è anche un bel vizio collettivo e tu che organizzi da due anni il reading a piazza Garraffello ne sai qualcosa, no?

 

 

3 Per diversi anni hai collaborato con Antonio Presti ai progetti poetici di Fiumara d'arte, mi racconti?

È stata un’esperienza importante, costruttiva, nel senso che Presti ha voluto “usare” la poesia come se questa potesse ancora avere voce e impatto nel nostro berlusconissimo presente (oggi forse possiamo dire passato prossimo e speriamo che presto diventi remoto). Ci ha fatti sentire utili e importanti, ci ha messo davanti a un pubblico con cui condividere emozioni e battaglie: per Librino, per il parco del fiume Oreto, per il recupero di una intima e forte dignità. Sono stati anni in cui davvero siamo tornati a pensare di avere una voce e tutti i poeti invitati (li sceglievamo io e Maria Attanasio in modo libero e soprattutto eterogeneo tra i nomi migliori della poesia contemporanea) ritornavano a casa pieni di qualcosa che nelle loro città non riuscivano più a sentire. Da Milano a Roma si era creata una mitologia intorno a quello che facevamo tra Catania e Palermo. E poi, leggere tra i bambini, con i bambini… gli incontri nelle scuole, soprattutto nelle elementari, sono riusciti benissimo. I bambini hanno un’attitudine naturale al linguaggio della poesia, che poi, purtroppo, le scuole superiori affossano. Questo è un altro argomento di cui si discute poco, di come la scuola non crei lettori ma disaffezioni nei confronti della letteratura. Ma torniamo a Presti: qualche risultato, sul piano politico, è infine giunto. Però devo dirti questo, o meglio te lo dico in forma di domanda. È meglio sentirsi vivi combattendo, anche se con le armi della poesia, che se sono ben dirette sono tutt’altro che spuntate, o adagiarsi sugli allori della vittoria? Quando quei riconoscimenti sono arrivati, mi sono intristito. Era come se si chiudesse un periodo pieno di stimoli. Anche le ultime manifestazioni della Fiumara non hanno più l’energia di quelle battaglie, purtroppo, sono diventate delle kermesse molto scenografiche e un po’ fricchettone. Pensa invece che a Catania, a Librino, eravamo ospiti nella parrocchia di un prete che raccontava barzellette sconce sul papa; tutto il quartiere partecipava, venendo ad ascoltarci e poi cucinando per noi. Ma si stava tutti insieme, era una grande festa. C’era un contatto profondo dei poeti tra di loro e con i presenti, c’era intesa e soprattutto voglia di intendersi, di comunicare. C’era una curiosità autentica verso i poeti mentre leggevano. Un silenzio ricchissimo.

 

 

4 Hai cominciato prestissimo a scrivere di saggistica occupandoti di autori come Calvino, Penna, Bellezza, Amelia Rosselli. Come concili il lavoro critico con la poesia?

Con la schizofrenia. Quando faccio poesia (e accade quando vuole accadere: non sono un versificatore da tavolino) devo cercare di dimenticare l’eco dei poeti che amo e leggo e magari studio. Per esempio ogni tanto devo disintossicarmi da Penna, che con la sua bella musicalità ti entra nell’orecchio e non ti molla più. Sai che ci sono autori sui quali, per continuare ad amarli, non ho mai voluto scrivere di critica? Non che quelli di cui mi occupo non li ami più, ci mancherebbe, ma la critica a volte è un po’ come una vivisezione, come un’autopsia. Bisogna imparare a dosare bene entusiasmo, amore e scienza. Se uno di questi ingredienti prevale, rischiamo di combinare un pasticcio. Per esempio di poeti che continuo ad amare, come Larkin o Gunn, non riesco a scrivere nulla. Al massimo posso tradurli, come ho fatto di recente con Anne Sexton. Comunque, ho cominciato presto, il primo saggio l’ho pubblicato che avevo ventidue anni, non ero neppure laureato. Quando mi sono presentato a Palermo, al concorso universitario, mi sono accorto solo allora di avere scritto e pubblicato tantissimo. Non avevo la possibilità di viaggiare, quindi leggevo e scrivevo senza rendermi conto di quanto stessi incamerando. Sono stato un viaggiatore mentale, in compagnia dei miei libri. Quel poco che potevo permettermi di spendere, e che mi veniva da borse di studio o contratti precari, finiva quasi tutto nelle librerie romane (gli acquisti online non esistevano ancora). Ma non mi sono certo lamentato, anzi… la poesia continua a darmi una grande felicità, è la mia vita da sempre. È il momento, per me, di più alta solitudine e insieme di massima condivisione con l’umano.

 

 

5 Recentemente hai tenuto un laboratorio di poesia ad Alcamo, come ti è sembata questa esperienza?

Mi sono divertito e stancato, spendendomi molto. Dunque, c’erano una ventina di partecipanti, dalla casalinga attempata all’insegnante in pensione, alla psicoterapeuta, al dottorando di filologia classica. Insomma, tenere un linguaggio che potesse andare bene per tutti è stata davvero un’impresa, una scommessa, ma stando ai giudizi è stata vinta. Un laboratorio di poesia non è un laboratorio di scrittura, questo è un grande malinteso: non esiste una scuola di creatività che non sia, anzitutto e soprattutto, una scuola di conoscenza di ciò che stiamo facendo attraverso il modello di chi quelle cose le ha fatte al meglio. Chi giudica dal di fuori i laboratori e pensa che siano delle truffe organizzate ha un atteggiamento pregiudiziale e fintamente naif, in realtà molto snobistico. Se tutti siamo artisti, nessuno lo è: ci sono questioni di cui si deve essere a conoscenza. L’improvvisazione non è un’arma vincente, in poesia. E io, col mio laboratorio, non devo certo creare o avallare poeti: non ho né questo potere né questo scopo, piuttosto voglio che ci siano nuovi e più consapevoli lettori. Insomma, chi crede che Baudelaire o Rimbaud fossero degli improvvisatori prende un granchio colossale. Invece abbiamo visto e commentato insieme filmati con Ungaretti, Montale, Pasolini; abbiamo letto e riletto fino allo stremo Leopardi e Baudelaire, Saba e Kavafis, Penna e Rilke. Ci siamo emozionati insieme, ci siamo scoperti e conosciuti, fino ad arrivare alle nostre poesie, ma solo alla fine. E in molti hanno cominciato a comprendere da soli, concludendo questo percorso, cosa poteva funzionare e cosa non funzionava nei loro versi. Hanno cominciato a sentire la musica, il ritmo in quello che scrivevano; hanno rivisto certe immagini, si sono confrontati tra loro; hanno guardato a tutto il loro scrivere con occhi diversi. Alcuni, tramite email o facebook, ancora mi scrivono e questo contatto nel tempo mi supporta anche nel mio lavoro presente. Certo, è un lavoro che richiede perizia, dimestichezza, sensibilità, psicologia. Non so se sono riuscito a conquistarmi tutte queste cose, ma per l’appunto, ci ho lavorato e il lavoro deve essere riconosciuto. Non si capisce perché in Italia si pretende che i poeti debbano lavorare gratuitamente, anche quando danno dei pareri. Nel mondo inglese e americano, per esempio, le riviste pagano le collaborazioni, qui da noi invece è tutto volontariato. Internet, poi, è divenuto nel tempo un luogo pericoloso dove si creano illusioni, perché non ha filtri qualitativi. E c’è pure chi è pronto a spararti se non rispondi subito. Il primo parere sulle mie poesie l’ho atteso quasi un anno…

 

 

6 Che mi dici del tuo sodalizio più che ventennale con Elio Pecora?

Elio è una delle voci davvero autentiche della poesia del secondo Novecento. Un maestro della parola. E soprattutto di quello che sta dietro le parole. Mi mandò da lui la mia prima vera lettrice, Amelia Rosselli, ma queste cose le ho scritte anni fa in un racconto pubblicato su “Nuovi argomenti” e non sto a ripeterle. Dovevo andare da lui per editare un possibile libro, invece quel libro, nella forma che pensavo, non uscì mai. E io, piuttosto che tornare a casa dai miei, rimasi lì per molti anni, appunto, dividendo la quotidianità, ricostruendo nella sua famiglia la mia famiglia dispersa. Credo di avere imparato molto da lui, di aver appreso i tempi dell’ascolto. Elio mi ha aiutato a trovare la mia voce, la mia lingua. Mi ha messo in mano Auden e me lo ha fatto tradurre. Mi ha trasmesso l’amore per le prose di Brodskij, per il suo affrontare corpo a corpo, con una tensione unica, la poesia degli altri. Mi ha reso familiari i manoscritti del nostro maggior lirico, Sandro Penna. Ha creduto in me come poeta e come studioso. Mi ha coinvolto nella redazione della rivista “Poeti e poesia”, dove abbiamo pubblicato di tutto, compresi tantissimi giovani. E ha rafforzato in me la diffidenza verso il potere, da qualsiasi fonte provenga. Lui stesso, pur essendo molto noto negli ambienti letterari e avendo avuto frequantazioni di altissimo livello, da Palazzeschi a Wilcock, da Moravia a Penna, dalla Morante a Bellezza e alla stessa Rosselli, è giunto tardi a quei riscontri che altri autori invece avevano ricevuto ben prima, ma la mia non è polemica, ognuno di noi è quel che è nel bene e nel male. So solo che questo essere amico dei più grandi senza però adulare il potere di una certa società letteraria gli ha nuociuto, ma certo non sul piano della qualità dei suoi scritti. Ed è questo che conta, scommettere fino in fondo su noi stessi ma con una grandissima dose di umiltà, accanto alla costanza e alla caparbietà. Elio non è stato temuto se non dai mediocri, che vedevano in lui il rivale che non era: piuttosto è stato ed è amato. Anche per il suo rigore. Ed è solo questo, infine, che vogliamo, come dice Carver in una splendida poesia: vogliamo essere amati qui, amati sulla terra. Sì, è stato facile amare Elio.

 

 

7 Omosessualità e poesia, cosa mi dici?

Facciamo una seduta spiritica e lasciamo che risponda Bellezza! Dunque, mi sono sempre più convinto che la sessualità, omo o etero, sia uno dei tanti temi della letteratura. Ci sono autori che hano costruito un’opera (o un’immagine) intera su questo tema. Ma questo non legittima che si possa parlare in senso stretto di una letteratura omosessuale. Se c’è al mondo qualcosa che rifiuta qualsivoglia incasellamento in questo o in quell’aggettivo, credo sia proprio la letteratura: dunque quando si parla di letteratura omosessuale mi domando di cosa si stia parlando, in realtà. Di un’opera scritta da un omosessuale? Di un’opera dove ci sono personaggi gay? Non mi paiono ragioni sufficienti. La cosa mi puzza di discriminazione al contrario e dunque di omofobia strisciante da parte di chi non ha pienamente fatto i conti con la propria sessualità. Chi è tranquillo col proprio eros (ma chi di noi in fondo lo è davvero?) non si aspetta che un autore più o meno scopertamente gay scriva per forza storie gay, tanto meno la sua. Esiste una grande libertà e varietà di temi che ci viene dalla modernità e dunque ognuno scriva di quello che gli va, di quello che si sente di trasmettere, di ciò che lo occupa maggiormente sul piano delle emozioni condivisibili. Del mio eros, se devo dirla tutta, sento di avere poco e nulla di interessante da dire, tranne per qualche curioso un po’ morbosetto, forse. Bellezza invece ha fatto della sua omosessualità un tema centrale, ma ne aveva di cose da condividere! Un poeta greco, premio Nobel, come Odisseo Elitis poneva come condizione della poesia il raggiungimento di un’essenzialità che vada oltre l’individuo. Ecco, in ogni nostro tema noi dobbiamo aspirare proprio a questo, altrimenti ci terremmo i nostri versi nel cassetto o ci esporremmo al chissenefrega dei lettori. Ho scritto tante poesie d’amore, ma l’amore in poesia è qualcosa in cui tutti dovremmo poterci riconoscere. Così quando rileggo Bellezza mi importa fino a un certo punto che sotto i miei occhi stiano scopando due uomini e spesso se lo so è perché penso che Bellezza era omosessuale; invece non sempre nelle sue poesie c’è l’esibizione della fisicità. E se nei miei versi l’oggetto d’amore resta spesso indefinito, senza genere, non è per scelta volontaria o per autocensura, come qualche lettore frettoloso insiste a dirsi, ma perché mi viene naturale rivolgermi a chi amo direttamente, in seconda persona. E il tu non ha genere.

 

 

8 Sei stato un giovane che è andato alla ricerca di padri letterari. Qual è il tuo rapporto con i giovani di oggi? E cosa pensi del loro lavoro?

Credo che ci sia un problema e che stia tutto nella prima parte della tua domanda. È verissimo, io sono andato alla ricerca di padri letterari. Nei libri ma anche e soprattutto nella vita. Elio è stato e continua ad esserlo, per me: sai che ancora non tiro fuori un verso se prima non so da lui cosa ne pensa? Oggi è lui a chiedermi di fare lo stesso. Ci sono tanti poeti che a Roma hanno esordito grazie a Elio, che li ha seguiti sempre in ogni loro pubblicazione, leggendo con loro i testi, limando, suggerendo, intervenendo. Potrei farti tanti nomi: da Alberto Toni a Giovanna Sicari, da Baldo Meo a Paolo Febbraro, fino a un giovane poeta siciliano che è anche un ottimo e stimato pittore, Francesco Balsamo. A volte i padri sono fratelli severi, come Isherwood nel caso di Auden. Ecco, nella tradizione inglese esiste questa figura del “poet reader”, ovvero di una persona di fiducia a cui il poeta si rivolge per l’editing, che nel nostro caso corrisponde essenzialmente al lavoro di lima, al taglio dei versi ridondanti. Invece i giovani di oggi non cercano padri, hanno la sindrome dei “rottamatori”, il che per me si traduce in una prospettiva storica assai ridotta e meschina: i padri sono necessariamente potenti e mafiosi. La cosa si commenta da sé. Ma sanno ancora ascoltare? Quanto sono disposti? Sembrano così inderogabilmente sicuri di quello che fanno da non avere bisogno di nessuno, ma così facendo ricadono su loro stessi. Sono convinti, e questo è molto triste, che internet conceda loro sempre e comunque quella libertà e quella visibilità che gli editori gli negano. Ma quanto si fatica, invece, per raggiungere un editore, piccolo o grande che sia? Tutta quella sana palestra che si faceva un tempo pubblicando sulle riviste autorevoli, prima di approdare a un libro, sembra oggi rinnegata. Il problema è esordire, fare il libro, anche a proprie spese, magari, andando incontro a un flop o, nel migliore dei casi, all’autoreferenzialità, ovvero alla circolazione all’interno di gruppi ristretti quanto chiusi. Ecco, internet purtroppo può produrre questi tristi giardini d’infanzia dove tutti sono convinti di essere poeti. Siamo approdati alla democrazia degli imbecilli, allora, o di quelli che si lasciano frustrare dalle proprie illusioni disattese. Ma non è poi, in fondo, la vecchia storia della volpe e dell’uva? Questo, purtroppo, è il quadro della maggioranza, ma è anche normale che sia così. Poi ci sono le eccezioni. Quelli che ti cercano, che insistono, che ti fanno capire che averti contattato per loro è davvero importante. E allora ne vengono delle vere scoperte. Due nomi, Luca Minola e Marco Aragno. Di “Poeti e poesia”, a cui lavoriamo dal 2004, se mi mettessi a rivedere gli indici, beh, perderei il conto dei giovani che abbiamo pubblicato come poeti, come traduttori, come saggisti. Sono tanti, davvero tanti, felicemente tanti. Il nostro lavoro però si ferma qui: nessuno di noi lavora in case editrici, nessuno di noi, neppure Elio Pecora con la sua autorità, ha il potere di far pubblicare un libro, o anche solo di far leggere un manoscritto a un redattore.

 

 

9 La poesia giovane in Sicilia: hai incontrato poeti interessanti? Qual è il loro futuro?

Insegno a Palermo dal 1999. Qualche volta ho trovato sulla mia scrivania dei libri di poesia, pubblicati a proprie spese. Per carità, lo faceva anche Saba e Lucio Piccolo spedì a Montale una plaquette con le sue poesie stampate in proprio presso una tipografia locale. Il primo editore di Palazzeschi era il suo gatto. Quindi un’occhiata la do sempre. Però però però… Nessuno invece mi ha mai cercato di persona, eppure è facilissimo trovarmi. Detto questo mi sono imbattuto in alcuni poeti interessanti: Balsamo, che ti ho già citato, Alessandro Di Prima, e i più giovani Conticello e Mazziotta, anche se hanno ancora da lavorare. E poi c’è Sergio Costa, un mio allievo che alla fine del corso mi ha confessato di scrivere: sta già pubblicando su riviste importanti e Maurizio Cucchi, al quale si è rivolto per primo (ecco l’eccezione felice) lo ha fatto esordire sull’Almanacco dello Specchio. Costa è un perfetto sconosciuto senza alcun “aggancio”, se dobbiamo esprimerci in termini di consorterie letterarie: eppure un poeta esigente come Cucchi si è convinto del talento di questo giovane e lo ha appoggiato. Ma quanto coraggio e quanta umiltà deve essere costato a questo ragazzo il primo invio dei suoi versi a un poeta importante… Costa non cerca il libro facile, cerca la qualità di ciò che va facendo. Non saprei dirti del mio futuro, figurarsi del loro: preferisco restare nel presente. Temo però una cosa: che internet possa esplodere e soprattutto far esplodere, creando psicologie distorte dalle false attese e piene di livore nei confronti di chi lavora seriamente e in disparte, avendo comunque il suo posto e la sua autorità, guadagnati sul campo con anni di lavoro riconosciuto sul piano nazionale e magari internazionale. Su facebook invece impazzano tanti versificatori che intasano il network (e la tua casella) di poesie posticce, piene di anime e di cuori e di lune e di stelle, di facili e ingenue esternazioni di sentimenti che nulla hanno a che fare con la poesia. E un vero poeta, in tutto questo marasma, rischia di perdersi, di non riuscire neppure a farsi notare. Quanto ai blog, ognuno può crearsi il suo e sparare a zero sulla folla, se crede. Io invece credo che la poesia abbia bisogno di altri canali, tutto ciò crea solo confusione. E illusioni, appunto.

 

 

10 Cosa ne pensi della piccola editoria? E cosa del fatto che si è costretti a pagare per l’uscita di un proprio libro?

È una domanda con un doppio risvolto. Da una parte non mi sembra giusto pagare, perché ci sono editori che raggiungono introiti di un certo spessore proprio approfittando dell’ingenuità e della vanità altrui. E pensa che mettono pure nel loro catalogo qualche poeta importante da usare come richiamo, come specchietto per le allodole. Purtroppo c’è una lista molto lunga di questi editori, i cui filtri di selezione sono giocoforza deboli, assai deboli, perché più selezionano e meno guadagnano, ovviamente. Ecco, come regola diffido degli editori che pubblicano troppi libri di poesia all’anno. D’altra parte mi chiedo perché un editore, magari piccolo e con mezzi limitati, dovrebbe scommettere su un giovane sconosciuto e su un mercato francamente povero come quello della poesia. Quindi non sarebbe del tutto ingiusto contribuire con una certa equità alla pubblicazione del proprio libro, a patto che sia garantita la qualità sia dei testi che della sigla editoriale. Chi non può permetterselo può ricorrere ad altre formule, come si faceva un tempo: prima di mandare in tipografia un libro pubblicato a proprie spese, Saba faceva girare delle cartoline di prenotazione e su quelle regolava la tiratura. Del resto, è esattamente quello che fanno oggi gli uffici marketing dei grandi editori, facendo girare tra i librai le schede dei libri in anteprima così da poterne valutare l’impatto. Se guardo indietro al Novecento, sarebbe impossibile negare che la piccola editoria sia stata la spina dorsale della poesia che abbiamo più amato. Senza editori come Enrico Vallecchi, come Piero Gobetti, come gli Scheiwiller o Giorgio Devoto (pensa che alla morte di Vanni Scheiwiller il presidente del premio Mondello mi chiese di entrare in giuria al suo posto e io ne fui particolarmente onorato, proprio perché si trattava di un piccolo, straordinario editore) cosa sarebbe stata la poesia di Ungaretti, di Montale, di Penna? E le collane che nascevano dalle riviste, come quelle della “Voce”, di “Solaria”, di “Letteratura”? Tutto il nostro miglior Novecento è lì. Non pochi autori, poi, sono passati dal piccolo al grande editore: in questo senso Montale parlava di Scheiwiller come di un “pesce pilota”, perché le sue edizioni si chiamavano “All’insegna del pesce d’oro”. Oggi quella funzione viene svolta da editori come Crocetti, marcos y marcos, La Vita felice, fra quelli di qualità. Ho tentato più volte di suggerire a Sellerio una collana di poesia, ma non ho trovato interesse.

 

 

11 Non pensi che sia come sfuggito il controllo rispetto alla qualità dei testi?

Certo che sì e internet ha delle grandi responsabilità, o meglio l’uso che se ne fa. Chi giudica chi e su quali basi? Oggi i poeti che collaborano con gli editori e selezionano la qualità sono davvero rari. Dopo la scomparsa di Giudici, Fortini e Raboni, poi, temo siano rimasti solo Cucchi e Magrelli a garantire la continuità di una figura chiave specie per i giovani poeti. Io e Pecora possiamo solo limitarci a proporre le novità dalle pagine di “Poeti e poesia”, ma non disponiamo di altri mezzi.

 

 

12 Cosa deve fare un giovane poeta per porsi all'attenzione di un pubblico? Pensi sia utile partecipare ai concorsi di poesia?

Il pubblico lo si forma nel tempo, cominciando ad apparire su riviste qualificate, poi in qualche antologia ad ampia diffusione, poi pubblicando un libro e dandosi molto da fare per promuoverlo e per seguirne le sorti, per quanto possibile. Certo, c’è una sordità agghiacciante dei media nei confronti della poesia e quelli che potrebbero essere importanti, come internet, sono male utilizzati. È davvero un peccato. Dunque non bisogna attendersi grandi riscontri né restare delusi se nessuno ci applaude al primo tentativo. Se i giovani leggessero di più le biografie dei poeti si renderebbero conto di tante cose, ma temo siano troppo presi da se stessi. È anche comprensibile la loro ingenuità, la loro voglia di protagonismo: sono almeno tre generazioni ad essere state narcotizzate da un sistema mediatico perverso. Ma torniamo alla poesia: oggi gli autori devono farsi promotori di se stessi, nessuno li aiuta dal di fuori. Perfino se si riesce a pubblicare con un grande editore, il suo ufficio stampa non si darà molto da fare per un libro di versi, sono troppo occupati dal mercato della narrativa. I concorsi? Certo, sono utili anche questi ma con un distinguo essenziale: bisogna evitare quelli con le tasse di iscrizione e quelli senza giurie autorevoli. Altrimenti che vale? Spostarsi da una parte all’altra d’Italia per andare a ritirare una targa placcata in argento, consegnata da qualche oscuro assessore locale o da qualche sedicente quanto sconosciuto poeta significa solo perdere tempo.

 

 

13 Cosa pensi dei poeti performer?

La poesia nasce in un tutt’uno rituale con la musica e la danza, quindi la performatività è nel suo dna. Le performance, che oggi richiamano soprattutto un certo pubblico di giovani, sono un fenomeno interessante che segue ai grandi reading degli anni settanta, da Castelporziano in poi. Non bisogna però commettere l’errore di scambiare la performatività con la sostanza stessa della poesia e cerco di spiegarmi: la parola della poesia, così scarna ed essenziale, unica e insostituibile, è già di suo una parola potente e naturalmente performativa. Non sto giudicando il fenomeno in sé, ma certe esecuzioni che rischiano di sopraffare la poesia. Pensa alle serate di Dylan Thomas o cerca su youtube qualche filmato di Amelia Rosselli e capirai meglio cosa intendo: un equilibrio assoluto tra ciò che è dietro la parola e ciò che le si pone davanti. La poesia deve farmi smuovere dalla sedia, sia che me la legga da solo sia che la ascolti da qualcuno, deve giungermi come uno schiaffo preciso e ben assestato, senza alcuna ridondanza.

 

 

14 Quali sono stati i tuoi autori di riferimento nel corso del tempo?

Se intendi gli autori che in qualche modo mi hanno formato e influenzato, in realtà ho cercato di leggere quanto più ho potuto, a partire dai classici, ma ricordo che quand’ero studente divoravo soprattutto Montale e Baudelaire, li introiettavo, li imitavo. Poi sono venuti gli inglesi, Auden resta per me un caposaldo. Sì, probabilmente è stato il mio vero diapason. Tra i contemporanei ho amato molto Giudici e Fortini e un poeta oggi molto trascurato come Margherita Guidacci. Ma ogni attraversamento di un poeta mi ha dato il senso della temperatura della lingua poetica che si esprimeva intorno a me. Forse, più che di autori, dovrei parlare di singoli testi che a lungo mi hanno ronzato nella testa. Penso a “Via Scarlatti” di Sereni, a “I papaveri” di Bertolucci, a “Nel tempo della madre” di Pecora, per restare agli italiani. Invece Penna, che è il poeta che ho più studiato, non c’entra nulla con la mia poesia. Ma come si fa a restare indifferenti a Penna?

 

 

15 Per due volte consecutive sei stato ospite del reading palermitano "La bellezza e la rovina - poeti al Garraffello". Questa estate ti sei trovato a leggere con autori come con Luigi Nacci, Rosaria Lo Russo, Domenico Ingenito, pur essendo i vostri percorsi così diversi e lontani. Sei aperto ai diversi generi che la poesia contemporanea propone?

Il Garraffello è una bella esperienza e come esperimento funziona proprio perché tu lo fondi sulla varietà espressiva. Posso dirti che tutto quello che mi emoziona mi incuriosisce e lo faccio mio. Se apri il mio ultimo libro, Gabbie per nuvole, apparso come i precedenti da un piccolo editore (qualcuno lo ha preso per un quaderno di traduzioni e invece è un viaggio sentimentale nella poesia altrui) ci ritrovi autori che mi somigliano e altri che sono diversissimi da me. Amiamo la diversità, no? Cosa mi porta altrimenti a tradurre poeti come Artaud, Apollinaire, Keats o la stessa Sexton? Perché la traduzione è uno strato molto profondo dell’interpretazione, e richiede amore e fatica. I latini esprimevano questi concetto con una sola, splendida parola: “cura”. E la cura si esprime anche attraverso la critica: nei miei libri ritrovi passaggi su tanti poeti, sia italiani che stranieri, che con la mia scrittura non hanno nulla a che vedere, ma che per qualche ragione sono riusciti a parlarmi. E io ho lasciato che mi parlassero. La vita di un poeta non è solo nel suo cuore e nella sua mente: è anche nel suo orecchio. Sì, mi fermo sempre ad ascoltare.



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