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Il lupo e Margherita

Argomento: Letteratura

Articolo di Temistocle Lo Giudice 

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Pubblicato il 26/01/2018 11:01:07

Le due città teatro del romanzo “Il Maestro e Margherita”, la Mosca pacificata dai partigiani rossi e la Gerusalemme occupata dai conquistatori romani, sembrano tollerare sonnecchianti la zelante macchina organizzativa creata a protezione del potere. E accettare che il singolo debba rispondere agli ordini di chi gli assegna un ruolo nel far girare la macchina: azionare una leva, stringere un bullone, dirigere un teatro, amministrare la giustizia. L’importante è farne parte, sfruttare i privilegi che derivano dalla propria posizione e rassegnarsi ai compromessi. Dove porti la macchina nessuno sembra chiederselo, e se questa schiaccia i valori umani lo fa perché potenzialmente destruenti l’equilibrio istituzionale. Il “buon governo” proiettando valori di efficienza, reale o apparente, accontenta tutti e impedisce lo sviluppo ideologico. Su questo consenso e sulla necessaria divisione tra chi comanda e chi ubbidisce si regge il potere. Ma questa strutturazione non cancella la paura, l’avidità e la viltà che coesistono nell’uomo. E quando arrivano il diavolo Woland a Mosca e Gesù a Gerusalemme la coperta cade lasciando i funzionari e il popolo faccia a faccia con la loro neutralità borghese. I solerti funzionari altro non sono che solerti arraffoni la cui unica finalità pubblica è arricchirsi a spese di un popolo che cerca disperatamente la stessa cosa. E gli scrittori, da cui dovrebbero nascere visioni alternative, generalmente non fanno eccezione: nella Mosca sovietica le loro preoccupazioni si riducono ad avere la tessera letteraria che consente l’accesso al cibo migliore al miglior prezzo possibile, agli eleganti appartamenti in città e alle dacie in campagna. Il dialogo tra il gatto nero e l’usciera del circolo-ristorante letterario sulla definizione di scrittore pennella efficacemente il ruolo, che lo stesso Bulgakov subisce, degli scrittori di quegli anni: impiegati di stato. La pedagogia dei popoli non lascia spazio alla riflessione e alla fede individuale, sostituite dalla propaganda di uno stato necessario al popolo terrorizzato dai lupi che, ripulitisi, dalle campagne si sono trasferiti in città. Questi lupi ora amano la bella vita, il cibo e le donne, belle donne russe che diventano lussuosi arredi di case gigantesche e vengono sfoggiate nei locali e nei teatri. Queste donne, integratesi perfettamente nel sistema morale dei loro accompagnatori, sono disvelate dallo spettacolo di magia del professor Woland: rimangono in mutande di fronte ai rispettivi consorti (e non solo) per un paio di scarpette o per una camicetta parigina alla moda. Ma Margherita sente la vacuità di questo tipo di esistenza. Accetta di rimanere nuda al cospetto dei “pendagli da forca” dell’inferno solo per ottenere la salvezza del suo Maestro. E la sua pietà spiazza il diavolo quando, come unica ricompensa spendibile, chiede il perdono per Frida. Frida, vittima di uno stupro, ha soffocato il suo neonato con la futile motivazione dell’indigenza: un anello della funesta catena di violenza che genera passivamente violenza. Margherita interrompe questo fluire di sofferenza trovando la forza nell’espiazione di Pilato, come l’ha immaginata il Maestro nel suo romanzo, e nella gioia prepotente dell’amore. E’ la strega che vola sopra i cieli di Mosca con lo spazzolone raschiando la critica acritica di regime. Crede fermamente nella letteratura, nella sua funzione salvifica per tutti gli uomini: per Pilato che legge convulsamente i papiri di Levi Matteo su Gesù e per se stessa che rilegge piangendo i resti bruciacchiati del romanzo del Maestro. I due Maestri sono morti, probabilmente. Sicuramente non sono più quelli che erano: il Maestro ebreo ha cessato di predicare, il Maestro russo di scrivere, ma rimangono le loro immagini e le parole che denunciano la viltà di chi chiude gli occhi quando qualcuno sparisce misteriosamente per essere prontamente rimpiazzato negli ingranaggi e alloggi statali o di chi non impedisce gli omicidi politici pur sapendo benissimo chi sia il mandante. Vile il corrotto funzionario dell’assegnazione degli alloggi che confessa ma giura disperatamente di non aver mai preso soldi stranieri per mitigare la necessaria punizione da parte di funzionari più corrotti di lui. Vile il borghesuccio impiegato seduttore di domestiche che, trasformato nel porco qual è, trasporta in volo la domestica di Margherita al gran ballo di Satana: dopo tutto ciò che ha visto domanda solamente un certificato da presentare per giustificare la sua assenza. Tutti ometti nevrotici attaccati al telefono in attesa di ricevere disposizioni dalle forze oscure che flagellano Mosca. Ma c’è chi sente prepotente lo stridore tra la cupezza miserabile dei comportamenti e la grandezza dell’animo umano: talmente prepotente che lo fa impazzire. E’ il giovane poeta Ivan che rinuncia a scrivere versi rivoluzionari dopo aver capito di cosa sono capaci i suoi compagni, ferito nella “memoria trafitta d’aghi”. E’ il Maestro-Bulgakov che salva Margherita-poesia avviata al suicidio perché si è fatta incarcerare in una gabbia d’oro areflessiva (Margherita lo amava e lo aspettava da “tanto tempo prima”) e che riesce a portare testimonianza della crisi politico-morale universale e del tempo. A prezzo della rinuncia della fama, della ragione e della vita il Maestro ottiene la sua libertà d’espressione e il riscatto dal comune istinto di sopravvivenza. E, come Gesù, avvicina a Dio gli uomini. Gli uomini veri, naturalmente, che non collaborano con i lupi. Per renderli tali la letteratura ha i mezzi straordinari negli esempi comuni. Anche Bulgakov brucia il suo manoscritto, sa che non gli darà benefici carrieristici e che probabilmente non riuscirà mai a pubblicarlo. Ma il tentativo di cancellazione fallisce, le parole riecheggiano nella sua coscienza e nella speranza della poesia che le aspetta: e lo scrittore non può far altro che riscriverle lasciandole in custodia alla sua Margherita perché le regali all’umanità. Il processo privato di riscatto si avvia risalendo le leggi naturali e politiche del male razionale. Come nella celebre favola musicale del coevo compositore Prokof’ev “Pierino e il lupo”. Il “buon senso comune”, il nonno, suggerirà sempre a Pierino di sottomettere la libertà alla salvezza personale e di rimanere in casa. Chi può difendersi si difenda. Che i lupi siano reali e mangino i deboli è nell’ordine delle cose. Pierino sa che nascondendosi condannerebbe i suoi compagni più indifesi e prima o poi toccherà a lui subire la ferocia del lupo. Quindi lo affronta coraggiosamente rendendolo innocuo e grottesco con la coda in aria, come fa Bulgakov, e riconquista la gioia di vivere con gli altri. La forza del lupo sta tutta nella paura di chi si accontenta di non esser predato. E chi non ha paura porta a termine la sua rivoluzione coerentemente senza ricorrere alla violenza organizzata dei cacciatori, ottenendo immediatamente la ricompensa: l’anatra (la poesia), inghiottita per prima dal lupo perché goffa e appesantita, non è morta e riprende a far sentire il suo canto d‘allarme contro le meschinità asservite al potere. Così il romanzo del Maestro non brucia e alimenterà i tormenti di chi crede, per dirla alla Pasternak, che “vivere significa sempre lanciarsi in avanti, verso qualcosa di superiore, verso la perfezione, lanciarsi e cercare di arrivarci”.

 
Temistocle Lo Giudice
(Leporano, Agosto 2017)

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