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L’anello del ritorno

Argomento: Filosofia

Saggio di Daniele Didero 

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Pubblicato il 12/05/2014 09:34:07

"L'ANELLO DEL RITORNO"


A CURA DI DANIELE DIDERO
“ Come potrei non essere preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, - l'anello del ritorno? Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all'infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, Eternità! ”; “Così parlò Zarathustra, "I sette sigilli (ovvero il canto del sì e dell'amen)”. Con queste parole, Nietzsche esprime il senso del rapporto tra il divenire e l'eternità dell'eterno ritorno - dell'anello del ritorno: la volontà di creare (di "avere figli"), ossia il divenire stesso come continua creazione, è possibile solo se non è bloccata, resa impotente, dagli immutabili metafisico-morali e da quell'immutabile che è il passato (che si costituisce come la dimensione dell'immodificabile per eccellenza, come il macigno del "così fu": nel linguaggio dello Zarathustra, ciò è rappresentato dallo "spirito di gravità"); quindi, il divenire - l'evidenza innegabile dell'Occidente - sarà possibile solo sul fondamento dell'eterno ritorno, della potenza della volontà sullo stesso passato. “ L'anello del ritorno ” è dedicato all'analisi di queste tematiche e di queste implicazioni: attraverso un costante confronto con l'interpretazione heideggeriana di Nietzsche, il volume di Severino esamina i testi in cui viene fondata la dottrina dell'eterno ritorno, prendendo in considerazione i cardini concettuali del pensiero nietzscheano e la sua potenza speculativa, che segna un punto di massimo rigore nello sviluppo del pensiero dell'Occidente e della fede nel divenire. Assieme a Leopardi (e - per quanto riguarda l'indagine sulla concreta struttura del divenire - a Gentile), Nietzsche rappresenta - per Severino - uno dei massimi punti di autoconsapevolezza del pensiero occidentale, uno dei momenti in cui l'essenza dell'Occidente - l'essenza del nichilismo - raggiunge la maggior chiarezza consentita a chi rimanga nell'orizzonte del nichilismo stesso: essi si spingono “ fino al limite estremo della coscienza che l'Occidente, rimanendo se stesso, può avere della propria autentica essenza [...] Leopardi e Nietzsche si portano a ridosso di quel limite, perché scorgono ciò che per l'Occidente è l'assolutamente impensabile, ossia che il divenire dell'essere è contraddizione (autocontraddittorietà, impossibilità) ” . Il pensiero di Nietzsche va quindi preso sul serio: ma prendere sul serio il pensiero di Nietzsche significa innanzitutto, per Severino, evitare di ridurlo ad una riformulazione dello scetticismo ingenuo: significa, cioè, evitare di attribuire - come invece fa Heidegger - un carattere trascendentale alla negazione nietzscheana della verità, il quale riporterebbe il pensiero del nostro filosofo ad una posizione che, ben lungi dal costituire qualcosa di "abissale", era già stata formulata e confutata fin dai tempi della Sofistica. Ora, Severino rileva invece che “ affermazioni come: ‘ogni conoscenza è sempre falsa, ma vi è, in tal modo, un rappresentare’ non hanno nulla a che vedere con lo scetticismo assoluto, ma dicono che, proprio perché la conoscenza è sempre falsa (‘in tal modo’), la conoscenza rappresenta qualcosa, ossia c'è un rappresentare, e questo esserci è la nostra unica certezza ”. La "certezza fondamentale" è la "constatazione" di un "fatto"; anzi, del "fatto", il "fatto" del divenire dell'essere - dell'"essere che ha rappresentazioni": “ che l'essere abbia rappresentazioni non è un problema, è il fatto: se in generale vi sia un essere diverso da quello che ha rappresentazioni, se il rappresentare sia una qualità dell'essere [...], questo è un problema ”. Allo stesso modo, non va intesa in senso trascendentale neppure la negazione nietzscheana del principio di non contraddizione: quello che Nietzsche nega, infatti, non è l'opposizione di essere e nulla, di positivo e negativo (essenziale perché si possa parlare di divenire: se il qualcosa fosse immediatamente identico al proprio altro, non potrebbe infatti diventare questo altro, proprio perché lo sarebbe già), bensì è la valenza "logica" del principio di non contraddizione, quella fondata sul concetto di "cosa"; concetto che - sottolinea Nietzsche - è di per sé falsificante, in quanto interpreta il flusso caotico del divenire introducendo in esso (per un'esigenza di conservazione vitale: per rendere prevedibile il divenire, rendendo uguale ciò che è diverso) la stabilità. Ma - appunto - questa valenza "logica" del principio di non contraddizione viene rifiutata da Nietzsche proprio in quanto essa è falsificante e, in ultima analisi, contraddittoria (in quanto in essa vengono identificati i contraddittori, viene considerato uguale - sulla base del principio di assimilazione - ciò che è diverso): viene rifiutata, quindi, in forza dello stesso principio di non contraddizione, che esclude l'identità dei diversi (A non è non-A). E, d'altro lato, la stessa dottrina dell'eterno ritorno richiede che ciò che eternamente ritorna, ritorni “ così come esso è stato ed è ” (Al di là del bene e del male, aforisma 56), cioè nel suo essere identico a ciò che esso è stato, e nel suo non essere l'altro da ciò che esso è stato. Se il pensiero di Nietzsche non è riducibile ad una forma di scetticismo ingenuo, la negazione in esso operata delle "verità" appartenenti all'ordine metafisico-morale non può essere fine a se stessa, ma deve essere sviluppata a partire da un'altra verità, considerata come la verità originaria, evidente e innegabile: e qual è, per Nietzsche, questa verità innegabile? È (come sottolineato dal filosofo tedesco in una annotazione della primavera-autunno 1881, dal titolo "Certezza fondamentale") la verità del divenire, che è immediatamente presente come flusso di rappresentazioni: “ l'annotazione sulla ‘certezza fondamentale’ rileva infatti che [...] è di per sé chiaro che il rappresentare non è nulla di immobile, di uguale a se stesso, di immutabile: l'essere, dunque, che unicamente ci è garantito, è in mutamento, non è identico a se stesso... [non ha, cioè, la fissità che il principio di assimilazione, con il concetto di "cosa", vorrebbe imporgli, falsificando ciò che esso in realtà è] - Questa è la certezza fondamentale dell'essere ”. È indubitabile l'essere delle rappresentazioni (è indubitabile l'attività del rappresentare, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno l'attività di un soggetto), e questo essere si manifesta in continuo divenire: questa dimensione originaria ed innegabile del divenire verrà indicata da Nietzsche come "volontà di potenza", e sarà da lui posta come l'essenza stessa dell'essere. Il divenire come volontà di potenza è quindi per Nietzsche la verità prima e indubitabile. L'impegno centrale del testo di Severino sta nel mostrare come la dottrina dell'eterno ritorno, ben lungi dal rappresentare un corpo estraneo nel pensiero nietzscheano o, comunque, un "postulato pratico", non teoreticamente fondato, sia invece la necessaria conseguenza di questa affermazione del divenire, e come questa necessità sia rigorosamente fondata negli scritti di Nietzsche. In particolare, Severino prende in esame lo sviluppo logico che intercorre fra tre capitoli di “Così parlò Zarathustra” : "Sulle isole beate", "Della redenzione" e "La visione e l'enigma". La distruzione - operata da Nietzsche - della tradizione occidentale è la distruzione degli immutabili via via eretti da questa tradizione: in primo luogo, dell'immutabile costituito da Dio, inteso come l'Uno e il Pieno e l'Immoto e il Satollo e l'Imperituro, qualcosa cioè che si sottrae alla volontà. Di fronte a questo Dio, alla volontà umana “ non resterebbe più nulla da creare ”. Il creare è infatti innovazione, e l'innovazione presuppone che ci sia un ambito aperto alla novità: ora, la posizione di questo Dio immutabile che, come omnitudo realitatis , contiene già tutto in sé (è "Pieno" e "Satollo"), esclude proprio la possibilità dell'esistenza di questo ambito di novità, necessario perché il creare non sia ridotto a semplice apparenza, illusione. Ma che il creare umano non sia semplice illusione, è per Nietzsche - così come per la tradizione che egli critica - l'evidenza fondamentale, la verità prima e indubitabile: è evidente - per l'Occidente - che le cose divengono, passano dall'essere al nulla, esistono ora ma non esistevano prima e non esisteranno dopo. In quanto il divenire è inteso come passaggio dall'essere al nulla (e viceversa), esso è creazione: la creazione non è quindi soltanto l'opera di Dio (che è un determinato tipo di creazione, in cui viene posta in essere anche la materia, il sostrato delle cose), ma è ciò che è proprio di ogni tipo di divenire (perché almeno qualcosa, qualche aspetto di ciò che diviene, passa dall'essere al nulla). Quindi, poiché il divenire è l'evidenza fondamentale (ciò che per l'Occidente non può esser negato), poiché il divenire è creazione, e poiché la creazione richiede l'apertura di un ambito di novità, Nietzsche conclude che l'esistenza di Dio (che, includendo già tutto in sé, esclude la possibilità dell'esistenza di questo ambito di novità) vada negata: l'evidenza del divenire implica necessariamente la morte di Dio. Ora, Severino sottolinea come la forza della distruzione nietzscheana stia nel fatto che essa si basa sulla stessa fede nell'esistenza e nell'evidenza del divenire, che è condivisa anche dalla tradizione criticata: la critica nietzscheana non è dunque, per questa tradizione, qualcosa di puramente estrinseco, ma è qualcosa di estremamente intrinseco, è il necessario sviluppo di ciò che da quella tradizione è affermato. Ma la critica nietzscheana non si ferma qui, bensì si estende (necessariamente) ad ogni immutabile epistemico che, posto al di sopra del divenire, finisce per vanificarlo, renderlo illusorio: l'uomo "metafisico-morale" della tradizione occidentale ha eretto questa serie di immutabili (metafisici, logici, etici...) per dominare il divenire, per porre un rimedio all'angoscia che esso - in quanto imprevedibile - genera, ma questo rimedio si è mostrato essere peggiore del male (perché viene a ridurre ad illusione ciò che l'Occidente pone come l'evidenza prima, come la dimensione della vita stessa dell'uomo); l'uomo "dionisiaco", il "superuomo", si rende conto di questo ed affermando il divenire in tutti i suoi aspetti, pronunciando gioiosamente il proprio "sì" alla vita (anche nei suoi aspetti dolorosi e tragici), distrugge quella serie di immutabili che la tradizione ha edificato. Ma - e l'osservazione è di centrale importanza - il "superuomo" non è semplicemente altro rispetto all'uomo "metafisico-morale": esso è invece il necessario sviluppo di quest'ultimo, che si ha quando egli (in quella che Nietzsche indica come "l'ora del meriggio") si rende conto che, con la posizione degli immutabili, ha tradito la propria più profonda essenza, il proprio essere volontà di potenza, divenire creatore. Ogni immutabile, ogni dimensione che si sottragga al divenire creatore, è una forma di negazione dell'evidenza del divenire stesso (si badi: della fede nel divenire, che per l'Occidente è la suprema evidenza); ogni immutabile, infatti, costituendo una dimensione alla quale ciò che nel divenire viene ad essere deve adeguarsi, dà un senso al divenire, lo rende in qualche modo prevedibile (se, ad esempio, la legge della gravitazione universale viene considerata come immutabile, allora si deve ritenere che ciò che viene ad essere debba adattarsi a questa legge, ed in ciò esso è reso prevedibile). Ma l'essenza del divenire richiede che il divenire non abbia un senso, proprio perché questo senso costituirebbe qualcosa al quale il divenire dovrebbe adattarsi, configurarsi, sì che esso non potrebbe più avere quella imprevedibilità che gli viene dal fatto che ciò che viene ad essere, viene (almeno in parte) dal nulla, ossia dall'assolutamente imprevedibile: dire che ciò che viene ad essere sia in qualche modo prevedibile - abbia quindi un senso che vada oltre al suo puro esserci di fatto -, significa dire che il nulla dal quale le cose provengono non sia realmente il nulla, e che quindi il divenire delle cose - come passaggio dall'essere al nulla - sia soltanto illusorio. Ora, l'ultima dimensione dell'immutabile destinata a cadere è, per Nietzsche (Così parlò Zarathustra, "Della redenzione" e - quindi - “La visione e l'enigma”), quella del passato: il macigno del "così fu", nel suo ormai definitivo sfuggire alla volontà. La redenzione del passato consiste appunto nel ricondurlo all'ambito di ciò che non è sottratto alla volontà, ossia di ciò che non è definitivamente sottratto al divenire stesso, perché la volontà di potenza non è - per Nietzsche - qualcosa di soltanto umano, ma è l'essenza stessa dell'essere (in quanto esso è divenire, continuo tendere ad un di più di potenza): “ tale volontà [la volontà umana] appartiene essa stessa alla molteplicità del divenire e del caos, ossia appartiene alla "olontà di potenza che include la volontà dell'uomo (e del superuomo, e di tutto ciò che non è né uomo né superuomo) e che è lo stesso orizzonte trascendentale dell'essere: l'essenza più intima dell'essere è volontà di potenza ”. Ma ciò non può significare che la volontà venga a modificare il passato: quand'anche così fosse, infatti, non si farebbe altro che aggiungere un secondo "esser stato" al primo, non si farebbe altro che allargare la dimensione dell'immutabile esser stato (ad esempio, quand'anche fosse possibile mutare il risultato della battaglia di Stalingrado, non si cancellerebbe con ciò l'esser stato della vittoria russa: avremmo invece un esser stato della vittoria russa prima della modificazione del passato, ed un esser stato della vittoria tedesca dopo la modificazione del passato - l'unico risultato sarebbe quindi quello di aggiungere un altro esser stato, a sua volta immodificabile, al primo). La via della redenzione del passato è perciò un'altra: il "pensiero abissale" dell'eterno ritorno. Di fronte allo spirito di gravità (il macigno del "così fu"), mezzo nano e mezza talpa ("La visione e l'enigma"), Zarathustra espone così la dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale: essa è necessariamente implicata dalla fede nell'evidenza del divenire, come condizione di possibilità del divenire stesso. Il passato deve essere redento, deve essere riportato nell'ambito della volontà di potenza, perché altrimenti esso - come immutabile - vanificherebbe il divenire, lo renderebbe qualcosa di illusorio; ma la redenzione del passato non può essere la sua modificazione, con il costituirsi di un altro passato, perché ciò amplierebbe solo la dimensione dell'immutabile; dunque, lo stesso passato, in tutte le sue sfumature di contenuti, deve eternamente ritornare così come esso è stato. Il tempo, quindi, non ha uno sviluppo semplicemente lineare, bensì circolare: l'andare in avanti è, insieme, un tornare indietro, perché andando avanti ci si muove - restando in un circolo - verso il punto di partenza. Quindi, ciò che stato non è qualcosa di immodificabile, di eternamente sottratto alla volontà, ma è - all'opposto - qualcosa che ritornerà infinite volte, eternamente, ossia sarà eternamente voluto (perché, torniamo a sottolinearlo, la volontà di potenza non è qualcosa di semplicemente umano, ma è la stessa dimensione universale del divenire, del dionisiaco) così come esso è stato. Ritornando eternamente su se stesso, il divenire del mondo - e quindi il mondo stesso - non ha principio né fine, non ha alcuno scopo né alcun senso il cui essere prestabilito ed immutabile vanificherebbe il divenire stesso. Il superuomo, conoscendo la dottrina dell'eterno ritorno e volendo l'eterno ritorno, si identifica allora con la dimensione universale della volontà di potenza, essendone la piena consapevolezza: "Il superuomo non è un "individuo" - che per definizione è qualcosa rispetto a cui il mondo è esterno e indipendente -; non è un "io" o una coscienza individuale, ma è "il pensiero più potente", che è insieme la volontà più potente; "il dire sì alla vita" che, come eterno "piacere del divenire", è "anche il piacere dell'annientamento" di ogni individualità: la dimensione del "dionisiaco" che dice di sì a se stessa" . In quest'ottica, Nietzsche può parlare di un amor fati (che è, a sua volta, fatalis): il superuomo vuole ed ama la necessità dell'accadere di ogni cosa, che si ripete all'infinito. Ma occorre tenere distinta questa forma dell'amor fati da quella sostenuta, ad esempio, dagli Stoici; mentre per questi ultimi, infatti, la necessità di ogni cosa è una necessità razionale, epistemica (frutto della provvidenza divina del Logos, che guida lo sviluppo di ogni cosa come principio immanente dell'universo), la necessità di cui parla Nietzsche è una necessità cieca, irrazionale: gli enti, infatti, non hanno alcun legame intrinseco fra di loro, perché questo legame sarebbe - di nuovo - un immutabile che vanificherebbe il divenire. La necessità nietzscheana è allora la necessità dello stesso ripetersi eterno del caos: “ il caos implica la necessità del ritorno eterno del caos, della mancanza di senso del tutto. Appunto per questo Nietzsche scrive che ‘il carattere complessivo del mondo è ... caos per tutta l'eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine’ metafisico-epistemico ” . Sono così in errore, secondo Severino, gli interpreti che credono di scorgere immediatamente nella dottrina dell'eterno ritorno un'incoerenza nel pensiero nietzscheano rispetto all'affermazione del divenire e della libertà creativa. L'incoerenza c'è, ma non è nel modo in cui Nietzsche porta in luce l'implicazione necessaria tra divenire ed eternità, tra libertà e necessità; l'incoerenza è molto più radicale, e sta nel concetto stesso di divenire, il quale - e nel portare questo in luce sta la forza della filosofia di Nietzsche, che pure non si spinge fino a riconoscerlo esplicitamente - è tale da implicare necessariamente la propria negazione. Forse proprio presentendo questa catastrofe del proprio pensiero (e, con esso, del pensiero occidentale), lo stesso Nietzsche - come racconta Andreas-Salomé - avrebbe provato "quell'"indicibile tristezza" per l'avverarsi del pensiero dell'eterno ritorno, e ne avrebbe parlato solo con quella “ voce sommessa e mostrando tutti i segni del più profondo raccapriccio ”. Così, se il canto della leopardiana ginestra è l'espressione della vita passeggera che l'anima riceve dalla stessa forza con cui sente la morte propria e di tutte le cose (e il suo canto non toglie questa morte universale), la gioia del superuomo per il proprio eterno ritornare nell'essere "è la maschera inevitabilmente indossata dall'angoscia a cui l'Occidente è destinato. Al di là della follia del divenire e cioè dell'eternità dell'Occidente, la Gioia del destino della verità non maschera alcuna angoscia". Il merito principale del lavoro di Severino sta nell'affrontare il nucleo teoretico del pensiero nietzscheano, che, al di là delle contraddizioni che spesso gli vengono imputate, va invece preso sul serio, in tutta la sua potenza speculativa. Resta comunque necessario soffermarci un istante per un rilievo critico, dovuto proprio al fatto che, almeno in un punto, Severino finisce poi col prendere il pensiero di Nietzsche un po' troppo sul serio... Il punto è quello delle annotazioni sull'eterno ritorno scritte da Nietzsche nel 1881-1882, prese in esame da Severino nel capitolo IX de “L'anello del ritorno”. Si tratta delle prime formulazioni nietzscheane della dottrina dell'eterno ritorno: in esse, il filosofo tedesco cerca di fondare questa dottrina a partire dalla considerazione sulla finitezza delle forze dell'universo le quali, proprio in quanto finite (e necessariamente finite, perché altrimenti si dovrebbe ammettere una miracoloso forza infinita, una sorta di Dio immanente), in un tempo infinito dovrebbero esaurire infinite volte tutte le possibili loro combinazioni. Ora, nonostante tutti gli sforzi di Severino per difendere la coerenza e la rigorosità del pensiero di Nietzsche su questo punto, mi sembra che queste annotazioni - prescindendo dalle considerazioni sviluppate in seguito nello Zarathustra circa la redenzione del passato - non riescano ancora ad arrivare alla fondazione dell'eterno ritorno. Infatti, anche se si arriva a dimostrare la finitezza delle forze nell'universo (e quindi la finitezza delle loro possibili combinazioni), e anche se si arriva a dimostrare l'infinità del tempo (perché dare una fine al tempo significherebbe dare un qualcosa da raggiungere, uno scopo, al divenire), non ne segue però ancora la necessità della circolarità del tempo, dell'eterno ritorno: anche se tutte le possibili combinazioni delle forze devono realizzarsi, in un tempo infinito, infinite volte, non ne segue che esse debbano realizzarsi nello stesso ordine di successione (che si debba formare, quindi, un circolo, un ritorno); anzi, prescindendo dalla dottrina sulla redenzione esposta nello Zarathustra, si sarebbe più portati a credere che, proprio in forza del caos e dell'imprevedibilità del divenire, queste combinazioni vengano a succedersi in un ordine sempre nuovo ed imprevedibile. È certamente possibile supporre che, negli anni 1881-1882, Nietzsche avesse già raggiunto l'autentica fondazione dell'eterno ritorno (che poi esporrà nello Zarathustra), e che in queste annotazioni si limiti a cercare un'altra strada per giungere allo stesso risultato; in ogni caso, mi sembra però che quest'altra strada non conduca Nietzsche dov'egli voleva arrivare.

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