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Traslochi

Argomento: Letteratura

di Anna Maria Vanalesti
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Pubblicato il 18/01/2017 18:29:28

 

 

Appena si inizia a leggere il libro di Franca Alaimo, Traslochi, si ha come l’impressione di essere già stati in quei luoghi, in quelle stanze, di aver già percepito quel sussurro di parole, di aver già provato quella sensazione di stare nell’universo come un puntino, come “cosa tra le cose”.

Partiamo da quel “muro sottile” della prima lirica (Separati in casa), che divide le due persone che  abitano nella stessa casa, ma non si amano più: la separazione, in uno spazio condiviso e forzato, si muta in uno sciame fatto di respiri, di  ronzii, di ombre, di  passi che si incrociano, di corpi che si avvicinano senza sfiorarsi, mentre la parola tace, inceppata dall’orgoglio.

Uno stato di pena, quindi, reso e trasformato dalla poesia in un suono sommesso, quasi in un fremito sonoro che percorre i versi dal primo all’ultimo, in un seguito di immagini visive e uditive, che scandiscono il sentimento poetico, liberandolo dalle scorie della  realtà dolorosa. Spie generose della tensione emotiva sono gli aggettivi: il muro è sottile, il ronzio è ostinato, le ombre sono teli viola, la stella è colma di tempesta.

Da questo iniziale avvertimento del dolore, si dipana man mano la trama di un universo abitato dall’uomo, non da solo, ma insieme con tanti altri esseri e comincia a disegnarsi la mappa dei  traslochi, alla ricerca di uno stare meglio che non  si raggiungerà, di un altrove più lieto che si identifichi con uno spazio nuovo e lasciando il vecchio, si scopre un minuscolo zoo, un mondo sommerso di piccoli animali, tra i quali ci si riconosce, perché facenti parte di un’unica smisurata vicenda, quella dell’esistenza. Piccoli animali, passeri, colombi, calabroni, formiche, avvolti dallo sguardo della poetessa, divengono tenere presenze che popolano uno scenario quotidiano fatto di gesti abitudinari, attraversato da suoni impercettibili, segnato da un destino di infelicità, comune a tutti gli animali, tra cui i più infelici sono proprio i padroni di casa.

Un’onda di commozione si propaga con picchi più alti in alcuni punti, come nella scoperta delle case d’argilla lasciate dalle vespe nelle pagine dei libri, scambiate forse per “serre traboccanti di parole odorose” .

La poesia è sempre in grado di circoscrivere gli spazi, ricreandoli, perché il poeta vi ritorni, vi si chiuda, ritrovi le sue stanze e in esse le  ombre della sua solitudine. Così nella lirica intitolata Sola, che dà il via ad una situazione di doppio sguardo interno ed esterno, da parte dell’autrice, sia dentro la casa e quindi dentro se stessa, sia  fuori dalla abitazione, nel mondo della strada, dominato dai rumori dei motori e dal trambusto del traffico consueto. Dove comincia “lo zero” della morte? Era inevitabile che le ombre conducessero a questa idea, la poesia può anche ritornare dopo un periodo lungo di assenza, ma non potrà mai essere esorcizzata del tutto l’idea della morte che ci accompagna costantemente.

Intensi questi versi: La morte era cosa da poco dentro il fiore, /un piegarsi leggero e sgualcito (da Benvenuta in città, o mia poesia). Il canto diviene quasi un prosimetro, che consente alla poetessa di compiere un ardito intreccio tra gli elementi fortemente realistici trattenuti dalla sua visione, saracinesche, strade, lampade fluorescenti, la matta del terzo piano, la serranda del garage e gli elementi onirici, come la stessa poesia, uscita a forza dalla sua scorza, i petti caldi e innocenti degli animali in volo, la luna che si specchia in un catino colmo d’acqua sporca, dimenticato in balcone. Questo ritorno della poesia che sorprende Franca Alaimo, la colloca per qualche istante nella dimensione di Dino Campana che invocava  la poesia e la richiamava come una chimera.

Il disegno continua con una trama  di ponteggi che si innalzano come un fittissimo bosco, creando una complessa architettura in cui sono inglobati, come in una scultura della pop-art, materiali diversi, secchi, ciotole, tubi, giunti ortogonali, che pur nella loro prosaicità, riescono a richiamare l’immagine delle foglie d’autunno, che hanno il colore del rame ( Ponteggi). A tanto può giungere il prodigio della poesia. E’ come se ogni istante di vita fosse trasfigurato, inserito in un ordine diverso da quello reale, per essere riletto, ripensato e restituito ad una sua razionalità, prima rimasta incompresa. E’ infatti questa l’operazione più evidente che l’Alaimo compie, mette ordine nell’esistenza propria e altrui, spiega con la poesia la banalità, la precarietà e persino l’inutilità di certi momenti quotidiani, trasformandoli in moti indispensabili dell’eterno ruotare della vita. Così si può superare l’insonnia e renderla occasione unica per cogliere le voci che giungono dall’esterno, insieme ai sogni smaniosi, al fruscio delle macchine, alla visione di un Dio-ragazzo che si droga sul marciapiede, tra il vagare dello sguardo che spazia dal cielo e dalla luna, fino ai platani ricamati dalla luce. C’è un’ampiezza di respiro poetico che tale sguardo riesce a creare, come raramente si avverte nei poeti di oggi, troppo attenti ad attenersi al dato realistico e spesso polemico, troppo attenti ad evitare ogni pericolo di sentimentalismo, agganciandosi saldamente alle cose, agli oggetti. Non è così per Franca Alaimo, che dilatando il suo sentimento ecumenico, riesce a coniugare liricità e prosaicità, astrazione e concretezza, annodando ogni cenno d’amore e di gioia, come dichiara in chiusura di Insonnia:

 

C’è perfino un grillo che canta nell’unica aiuola

inondata dalla luce azzurrognola di un neon.

bisogna adattarsi, sai,

ed annodare ogni cenno d’amore e di gioia

per sentire la trasparenza dell’alba

sopra le palpebre.

 

Annodare i fili con gli altri, i cenni d’amore e di gioia è in qualche modo compito precipuo della poesia per la nostra autrice, che spontaneamente si colloca su di una linea di continuità con le persone e le cose, nel tentativo includerle in un cerchio comune, dove l’esistenza sia più sopportabile e accettabile per tutti. In questa dimensione la soccorrono i ricordi, lieti o tristi che siano (soffia sulla memoria quel vento che accosta/ il fiore del papavero e il crisantemo invernale) e la natura che lei non cessa di osservare, entrando in essa come in un quadro shagalliano e non perdendo mai di vista il cielo, di un azzurro metafisico. Infatti si potrebbe dire che cielo e terra siano i poli opposti della poesia della Alaimo, l’uno che domina dall’alto gli eventi nel suo imperturbabile e splendido isolamento, l’altra schiacciata e compressa dal caos delle macchine e dalla sarabanda giornaliera degli uomini.

Di tanto in tanto affiorano citazioni letterarie che appartengono al sostrato culturale della poetessa e che trasalgono quando la sua parola le appare insufficiente, come allorché giudicando i suoi passi, in un tentato bilancio del suo cammino umano, li trova tardi e lenti e petrarchescamente li assolve. Qualsiasi problema passa al vaglio della poesia, persino quelli economici ( non a caso Problemi economici è anche il titolo di una composizione) e ciò le consente di dipingere un quadro fittissimo di particolari, cibo, vetrine, negozi, frutta, bottigliette di profumo, corpi, giocattoli e altro, come in una gigantesca tela di Guttuso ( si pensi alla Vucciria), che rivela la sua sicilianità, l’appartenenza cioè ad una terra intrisa di colori, di sapori, di figure, di suoni. Ed è questo che può farle accettare anche la povertà e il bisogno, con un’ironica accondiscendenza:

 

Domani avrò solo dodici euro da spendere,

e, accidenti, è rimasto soltanto

un pugno di croccantini per la mia gatta.

 

 Questi traslochi sono della mente, una mente inquieta, che lascia luoghi e case, che sceglie di trasferirsi altrove, che muove oggetti e animali sostanze e memorie , in una continua migrazione di pensieri e di immagini, nella perenne ricerca di uno status che abiliti e razionalizzi gli errori e le correzioni, per approdare ad una serenità costruita, virtuale, mai reale. Si spiega perché anche la pioggia possa divenire elemento disturbante, o distraente nella paziente e ardua scansione delle ore della giornata. Si legga qualche passo di Pioggia in città , in cui si assiste al lento, ineluttabile sommergersi della città:

In un crescendo di pianto

e odori acri di decomposizione

si gonfia d’acqua nera la città

come un annegato.

L’acqua sbava sulle mattonelle dei balconi,

singhiozza sulle ringhiere,

cola sui muri, gorgoglia con voce roca lungo le grondaie,

…………………….

 

Tremola il selciato di luci colorate

come l’insegna di un grande parco giochi;

finché – sono ormai le nove di sera –

la luna come tratta fuori da un forcipe,

esce dall’umido grembo del cielo,

il volto fresco, lucido e sereno.

 

La luna è  sempre elemento leopardiano rasserenante e compare con grande frequenza in questa raccolta, quasi a placare l’animo commosso e a restituirgli pace. L’occhio vigile  della poetessa contempla e ritrae ogni movimento del giorno, ogni andare della gente, come nei versi di I condomini di via Bonanno, in cui incontra inquilini del palazzo, indaffarati nel loro salire e scendere le scale, trasformate dalla fantasia poetica, queste, nella scala di Giobbe e quelli in angeli, mentre il colombo che picchia sui vetri per un attimo impersona lo Spirito Santo che forse bussa al cuore. Siamo di fronte ad una trasfigurazione continua del reale e del quotidiano, in mezzo al quale pur si muove l’autrice, con la sua profonda sensibilità di donna e di poeta, tuffandosi nell’ordinario e mutandolo in straordinario, tramando, come fa nella lirica citata, un ricamo sottile di cose minime che diventano gemme nelle sue parole, come il fiore scarlatto, i gladioli, i giacinti, i tulipani, nei vasi sul balcone, e persino la pioggia che batte con ritmo sempre più veloce / i suoi allegri tamburi.

Bisogna leggere questo libro, per tentare di riappacificarsi con la realtà che ci circonda, per sottrarla al suo male, ai suoi venefici effetti e salvarla dal nostro pessimismo, per ancorarla ad un trasloco definitivo che ci convinca del tutto perché di quello già compiuto nemmeno la gatta è convinta ( e in proposito si legga l’ultima parte del componimento, ad alto tasso ironico e umoristico, La mia gatta):

Ma soprattutto temo

 che abbia cambiato opinione sul mio stato mentale:

chi mai lascerebbe l’Eden

per l’Inferno? – si domanda –

ma guarda tu che razza di padrona!

E nel farmi le fusa mescola l’amore e lo stupore.

 

E la vita continua oltre i traslochi: nuovi giorni si succedono, i ricordi non danno tregua e scandiscono il tempo e il poeta cerca la sua anima, ponendosi domande a cui non trova risposte:

 

Ma dov’è andata mai l’eterna essenza,

l’immagine bellissima di quel mondo

che ruota al di sopra, lontano, misterioso,

al di là della luce traballante delle stelle?

Mentre il buio mi cade addosso,

chiudo gli occhi e inseguo un sogno,

ma sprofondo in un labirinto senza visioni,

finché la notte mi sale all’orecchio bisbigliando,

l’incommensurabile tedio del silenzio.

Ed è proprio in quest’ultimo verso che si manifesta la capacità  della lingua poetica di Franca Alaimo di produrre ampie volute e creare onde lunghe con le sue espressioni. Qui la posizione chiasmica del termine tedio, già di per sé pregnante e profondo, posto tra l’aggettivo incommensurabile e il sostantivo silenzio, genera un effetto smagante di vuoto e di mistero, che da solo vale meglio di qualsiasi altra percezione dell’universale.

Non cessa però il desiderio di trovare altre vie  per intrecciare una trama nuova della vita (Pagliuzze d’oro), pur sapendo che non tornerà da nessun luogo Ulisse e che la solitudine ormai è compagna diletta (è la solitudine che più mi sta a cuore). I traslochi sono avvenuti, la casa lasciata è lontana, non restano che i ricordi ed il cuore sanguinante:

Tutto frana della vecchia casa, tutto ricopre la polvere inesorabile del tempo, sull’intonaco si vedono le colature della pioggia, sui muri c’è la muffa, i cancelli sono arrugginiti, tutto insomma è metaforicamente segno delle macerie del passato, ma a quel passato la poetessa ritorna, per ritrovarlo e per ritrovarsi: (Di fronte alla casa lasciata: ricordando)

 

Ci torno da fidanzata e sposa del mio passato,

con quei ricordi di me,

bestiola così scalmanata e tenera in amore

 

Così si chiude il libro, documento prezioso di una poesia  colma di verità e di impietoso sguardo alla vita, che postillando minuziosamente i momenti e i piccoli eventi d’ogni giorno, li avvalora di senso e di significato, sottraendoli allo sterminio e all’indifferenza del tempo. Ed è questa l’operazione più cospicua che ci sembra abbia compiuto l’Alaimo, in questi traslochi della mente e dell’animo, nei quali anche noi ci riconosciamo.

 


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