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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Giacomo sansoni

Argomento: Intervista

Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 02/06/2019 14:05:05

 

L’autore qui intervistato è Giacomo Sansoni, terzo classificato al Premio letterario “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”, V edizione 2019, nella Sezione B (Racconto breve) con “Laura”.

 

 

 

Quali sono gli obiettivi che ti prefiggi con la tua scrittura?

 

La parola è stato il mio primo incantamento, il primo strumento per entrare appieno nel mondo, di riappropriarmi di un mondo, di costruirmene uno plausibile, dopo la mia esperienza personale, che mi aveva visto da bambino sradicato da una realtà, solo topologica e topografica? chi può dire, e portato nel piccolo paesino, lato sud del Gran Sasso dove si può desiderare quello che non si ha e avere solo ciò che non si desidera: paese di mia madre. Quel mondo nuovo già in età precoce volevo respirarlo, nonostante gli iati asmatici, addentarlo a morsi pieni, farmene e rivendicarne una proprietà, colmare un vuoto. Vuoto, a quell’età? Chi può dire quali sono i vuoti che ereditiamo per lascito mendeliano o escatologia acquisita. stupirmi della viridità nuova dei boschi, dei prati. Della cospirazione dei gialli primari. Del sangue sacrificale dei papaveri, dell’assolutismo dottrinale del cinabro, dell’azzurro sconfinato del cielo, deflorato dalla virilità dei monti. La corruzione temporalesca da parte del grigio giorgionesco del blu di prussia. Le pietre: grumi di silenzio. Quelle accatastate nel rimario consolatorio delle case. Il patimento delle metamorfosi sedimentarie delle rocce. La copula ardimentosa e temeraria della terra, con il cielo, nelle vette. L’ossido del tempo, rappreso come un fiato fisiologico, che varia dall’ocra al terra nelle storie dei vecchi. Le derive gravose dell’incoercibile male necessario del tempo, nella sua fatale deriva precipitosa, sia dai davanzali delle finestre, dalle bifore e dai ballatoi, o lacrime senili dalle palpebre. Forse da questo nasce l’amore per la scrittura: dalla scoperta della natura? Per rubare la soverchieria delle troppe emozioni; iniziare a costruirmene un abecedario. Ero, sono, forse sarò un eretico, un eretico che attenta l’attimo per creare agguati al futuro. Assediarlo nelle sue ore prossime alla fiacca, bonificarlo ai confini tra il determinismo e l’eterno presente della inafferabile valenza quantistica. Scrivere è prendere ostaggi, creare una progenitura o figliolanza riconosciuta. È volere un’alba, un tramonto, un sole, una speranza, un cielo, un abbraccio, un amore, affatturando la realtà. Come un manierista violare il soggetto, prima d’appropriarsene con le pennellate di una disperata tavolozza. Scrittura, atto supremo di libertà e creazione. Avocarsi un deità egolatra? Istinto ferino di egemonia? Possesso di determinabilità indeterminabili e limiti rivendicabili, al pari dei cani che rogitano i confini delle maggiorie, con l’urina? Forse rincorrere, come da bambino, metafore come farfalle? Quelle celestine, del fiume, ebbre di suggere melodie dai fiori, o quelle illuse dal relegato miracolo, dei cieli antinomici delle effimere pozzanghere. Metafofore, simulacri di vita, schegge vetrose di specchi, bottini piccoli, tessere sparigliate per un mosaico da sperare. Irrealtà da accumulare nel formicaio, sottoterra, per il freddo, che prima o poi verrà? Pegno per riscattare un futuro? Quant’altro è la scrittura, e collateralmente l’altra forma di scrittura che mi ha, anche se saltuariamente, sempre accompagnato: la pittura. A circa 12 anni avevo scritto una silloge di poesie. Raccolta poetica che mia madre scoprì e della quale si fece un vanto fiero, quale reliquia per magnificare la sensibilità di un’anima. Per me schivo fu solo vergogna, e fu tanta. Una profanazione. Non volevo che si sapessero quali ruminazioni saturavano la mia anima, come le vacche che per il fieno umido necessitavano del subbio per essere liberate dalla fermentazione. Dovetti prendere coscienza di avere un’anima dolente con tutta la vergogna di possederla. Sono tornato alla scrittura in tempi prossimi all’acquisizione dell’età della ragione, quando ho inteso l’ammonimento Borgesiano che le più chiare prodezze perdono lustro se non vengono coniate in parole. Cosa mi spinge a scrivere? Cosa mi/ci spinge a vivere? Cosa ci spinge a sperare? Cosa ci spinge ad amare? Per dar conto dell’altra linea germinale che non sono i geni con cui si perpetua l’uomo al di là dell’uomo? Per dar conto delle strategie che usa il destino, che sono strategie quantistiche, seppure sembrino deterministiche, per far incontrare gli uomini, corrompersi reciprocamente, magnificarsi reciprocamente, assurgere a verità transeunti ad interrogazioni irrisolvibili, scontare e dar, quotidianamente conto, della perdita, o dello scampo del paradiso, tutto perpetuato per l’incontro degli uomini che è soggetto a volontà rette da probabilità binomiali o poissoniane di tipo et-et dove alla composizione di un evento concorrono tutte le microprobabilità che ci fanno continuare a desiderare di essere uomini e a rifuggirla, allo stesso tempo, questa natura con le sue strettezze termodinamiche, e tutta la ineluttabile corruzione entropica?

 

 

Secondo il tuo punto di vista, o anche secondo quello di altri, che cos’ha di caratteristico la tua scrittura, rispetto a quella dei tuoi contemporanei?

 

Posso esprimere desideri e volontà, non affermarne la conquista. Nella scrittura io cerco, non solo le solleticazioni sensitive ma anche quelle edificatorie, intese nella duplice valenza: di ricercata edificazione pittorico-architettonica e d’edificazione, morale. La forma può essere già informazione. Per me l’avventura semantica è quasi imprescindibile. Forse, come rilevato da Montale “non v’è arte senza artificio”? Però sincero, in buona fede. Tutto perseguito con stoica umiltà. Perseguire l’avventura delle emozioni anche formali e solleticazioni che provocano pruriti al cervello e al cuore, che quand’anche inafferrabili, pizzicano lo strumento che siamo, evocandone, per simpatetìa echi emozionali. Cerco di rifuggire la non peculiarità, la assoluta sovrapponibilità e non riconoscibilità, la convenzionalità del linguaggio, per predilezione solo della trama, per pochezze congenite ed altro che sommariamente possono essere definite pochezze, che purtroppo sono spesso osannate dalle pubblicità che lavorano perché la massa resti in un pressappochismo povero, una mediocrità ben dominabile, affinché sia più facile accaparrarsi redditizi consensi.

 

Si dice che ogni scrittore abbia le sue “ossessioni”, temi intorno ai quali scriverà per tutta la vita, quali sono le tue?

 

Benché, le mie “ossessioni” non riguardino in modo stringente la contingenza, non necessariamente il dove e il quando, comunque sono assillato dal sentimento del tempo. Il tempo, per dominare il quale, l’uomo gli ha dato la libertà condizionata degli orologi e, senza tempo, non v’è dolore, senza dolore, non v’è tempo, senza dolore e tempo, non v’è uomo; senza uomo non v’è perpetuazione del tempo. Però, nonostante la freccia del tempo, le pseudo nuove acquisizioni esistenziali, il cuore è sempre lo stesso. Forse l’uomo è sempre lo stesso: sempre più libero e assoggettato, rivoluzionario e troglodita, sempre più ad olfare sentore di trascendenza e terrena istintività ferina. In fondo nulla può affrancarci dalle anidridi dell’anima e dagli ossidi della carne, che bruciano come calcare, sulle ferite, o si depositano a strati, come madreperla su difetti originali, che ci faranno preziosi? Se non preziosi, materia cretosa da modellare. Inseguo le rivelazioni della perpetuazione dell’animo umano e i segni che ci doniamo come semi per la condivisione di un pane salso di lacrime? Cerco di dare ragione del dolore che è il figlio impuro della diacronia? Senza tempo non v’è dolore, senza dolore non v’è tempo, senza dolore e tempo non v’è uomo, senza uomo non v’è perpetuazione con la scrittura: questo filo invisibile eppure tenace con cui teniamo il ciclotimico palloncino dei sogni e delle speranze, ancorato ad una qualche inesprimibile eternità? È l’uomo un Dio impuro che può assurgere a giudicare Dio? E per farlo ha usato e usa i neumi eterni che, con non affrancabile inadeguatezza, sono a testimoniare la dipendenza dalla terra e l’adescamento naupatico del cielo. Avere contezza consolatoria che pure un Dio può provare l’orgoglio d’essere giudicato dal figlio uomo, impastato con materia infantile di gioco: terra e sputo, al pari della prestevole e duttile materia delle Parole? Schiavo io, schiavi tutti della precaria consanguineità telepatica vera? Forse è soggiacere all’inebriamento di essere partecipi di uno dei pochi atti divini: sporcarmi le mani di creazione? Eppure ogni parola che è scritta è salma d’avvenuta crocifissione. Bufalino ha detto che se non avessimo memoria saremmo immortali. La memoria, con la scrittura, ci affranca dalla ripetizione di errori compiuti, eppure ci avoca la morte? Questa aritmetica aerina del ricordo, che usa tempere, pennelli e aria colorata è la nostra salvezza o la nostra condanna? Anche io schiavo di avere sempre misura di un prima e di un dopo, per patirne il dolore e l’orgoglio del raccontarlo, come dice Mallarmé che il mondo esiste per approdare ad un libro, o Omero che i dei tramano sventure perché i poeti possano cantarle? Per dar conto che nonostante l’incontrovertibile unidirezionalità del tempo, il cuore è sempre lo stesso? Che un dio probabile ci abbia dato la memoria perché non attentassimo la sua deità? Non si scoprirà in un futuro che la costante che discrimina non è la velocità della luce ma chissà quale componente che possiamo domare con il cuore con l’anima o chissà diavolo cosa, così da restare ancorati alle visioni Agostiane? Che lo spazio-tempo si distorce, come biglie su un telo, non in virtù della velocità della luce con cui ci si muove, ma con qualche qualità universale che possiede l’uomo con cui, inconsapevolmente partecipa all’equilibrio architettonico del mondo. Tutti figli di un quantismo vero e del corollario inespugnabile dell’indeterminabilità, descritta da Heisenberg, che può essere trasposta utilmente in questo modo: Se l’uomo sa chi è non può sapere dov’è e cosa fa, se sa dov’è non può sapere chi è e che fa e se sa che fa non sa chi è e dov’è. A dar misura dello sconforto di tale insufficienza e, quando l’arcano fosse penetrabile, darne conto o rinnegarlo con l’atto avallante e perpetuativo della scrittura?

Scrivo e scriviamo per attestare la forma di un’empiria esistenziale, per rendere conto della nostra incomprensibile sorpresa di esserci.

 

 

Nel corso degli anni hai notato una evoluzione nella tua scrittura?

 

Sì inevitabilmente, benché non sempre, le mani che ghermiscono il timone, sono consapevoli dei ciclotimici beccheggi del mare. Come non essere schiavi dei naufragi, aggrapparsi ai relitti, con consapevolezza che i naufragi si scontano a terra, entro il gheriglio insondabile della coscienza.

 

 

Hai partecipato al Premio Babuk nella sezione Racconto breve, scrivi anche in versi? Se no, pensi che proverai?

 

Sì ho pubblicato due sillogi: “I labirinti relativi di Zenone” e “Ossidi”.

 

 

Quanto della tua terra di origine vive nella tua scrittura?

 

Forse siamo figli più dei luoghi che del tempo: I luoghi che ci informano, ovvero che ci conferiscono forma e plasticità. Ognuno ha un suo luogo, dalla cui creta si incarnò. Un fiume che ci offrì letto, bonacce e gorghi che ci levigano. Facile il rimando ai fiumi di Ungaretti. Ogni fiume, ogni luogo, ogni sentimento, perché ne venga definita in modo esatto la valenza propria e i confini, soggiace al naturale confronto con l’archetipo fiume, luogo e volti visti in tempi precoci, quando si impressiona la sindole della nostra coscienza ancora intonsa e si costituiscono le prime terne cartesiane e unità di misura. Dopo, in tempi successivi tutto è nuovo accatastamento, nuova voltura, nuovi confronti. Per restare nella metafora dell’acqua, come non perdersi nell’alfabeto delle sue riflessioni, nelle dissonanze delle rifrazioni, nelle verità effimere e transfughe dei miraggi. Acqua che ci consegna, il rovello dolente della gravità. Che come nella gioventù dell’uomo è rovinosa, nel tempo, dove si abbeverano gli uomini, teme il nodo che intorbida, e nascono le storie. Inizia la sua musica modulando i vagiti sorgivi in uno scherzo appagato, imprigiona, con il suo orgoglio atomistico, la luce negli arcobaleni, sogna nei notturni. A valle al mulino l’attende il mugnaio che corregge le sue note nel pentagramma doganale. Acqua, note e vita s’incupiscono e s’ingrossarono nei nodi sacrificali e dolorosi, o al presagio di tortura dopo il requiare sospeso della raffota o negli innumerevoli stertori di vita. Il tempo con il suo fiume imperterrito può, a volte offrire rinascenze, così come nella scrittura, disacerbare o rivangare toni amari. Come l’acqua dopo la scarcerazione dalla raffota il canto si può inflettere ad una legatura nei crescendi, in una smania di fuga. Lontano forse si potranno dimenticare gli accidenti, rimeditare uno scherzo musicale, comprendere il pathos dei notturni. Tutto cambia tutto si trasforma, così la scrittura. Si tema chi ha certezze incoercibili sulla punta delle dita, si abbia affinità con chi è ramengo nell’incertezza del dubbio metodico. Come non essere schiavi del caso, delle occasioni, dei luoghi non facilmente rideterminabili dalle volontà, vulnerabilmente schiave della soverchieria entropica e dell’alterigia del tempo che con le sue sgorbie ci forma, incide, scava e rimpasta prolissamente.

 

 

Qual è il rapporto tra immaginazione e realtà? Lo scrittore si trova a cavallo di due mondi?

 

Ogni scritto è frutto di propri o anche non propri vissuti, comunque filtrati dalla propria autocoscienza e autobiografia. La fantasia può avere o essere forma artificiosa, la pregnanza introspettiva, sempre auto contaminata. Le subalternità umane, possono passare per le parole. Si può essere schiavi delle parole. Si può arrivare ad essere un personaggio di cartone, una persona che agisce in funzione di un artificio letterario che non ha più relazione con la realtà, come Don Chisciotte che, benché personaggio letterario, condizionato da artificio letterario, è tanto reale quanto lo sono quell che soffrono per irrealtà credute reali, che definiamo malati mentali e Tobino malati della magnifica libertà dagli schemi. Quindi la irreale realtà può rendere l’uomo informabile, ovvero passibile di forma, come e più della realtà stessa? Allora cos’è la realtà? E l’illusione di credere reale l’irreale o l’illusione di credere irreale la realtà, o…adesso basta perché possiamo farci male. Però cos’è la realtà? È la realtà Newtoniana, o quella che come una ennesima matriòsca che la comprende e la relativizza o ulteriori matriòske non ancora rivelate dalla scienza, solo subdorate per vertigini escatologiche, ratificate dalla scrittura? Forse è la vita è, per sua natura metaforica? di una irrealtà sconfortantemente reale, che sia la vita fittizia, un gioco nelle mani di tante suscettibilità e di chi può terne i fili. Solo il dolore è vero: la causa per cui si dolora, può essere fittizia, non reale? Ci ammaliamo d’irrealtà, in fondo. Anche la storia allora, a ben vedere, è una tra le tante metafore: quella condensatasi per chissà quale sconosciuta artefazione, in uno dei possibili mondi paralleli. La realtà è quella che ci giustifica nel mondo parallelo in cui siamo relegati per giustificarlo? Per tornare a un nucleo virtuoso, senza doversi perdere per forza, è bene dire che sono importanti i sentimenti non perché si provano, è fondamentale la strada non la meta.

 

 

Chi sono i tuoi lettori? Che rapporto hai con loro?

 

I miei amici e una piccola cerchia di relazioni umane, che mi spronano e mi redarguiscono, qualora gli artifici cromofori non albergano in tavolozze condivise.

 

 

“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”. Che cosa pensi di questa frase di Marcel Proust, tratta da “Il tempo ritrovato”?

 

Tutto è filtrato dalla propria coscienza personale, o come in una accezione di nuova frontiera: “proprio contattoma”, ovvero insieme del bagaglio geneticoambientale e patrimonio esperienziale, iscritto progressivamente nella rete dendritica del nostro gheriglio cerebrale. Reale, non metaforica questa tipologia di scrittura.

Anche un poeta non è poeta se non ci sono sensibilità allineate sulla stessa lunghezza d’onda di risonanza emozionale.

Lo scrittore propone uno specchio, atarassico, metempirico, più o meno deformato, abbrunato come quelli dell’Ottocento, concavo che rimpicciolisce, convesso che deforma, incrinato, rotto in mille schegge, poi la volontà di usufruirne appieno o meno è dettato dal grado di immedesimazione, dipendente da mille variabili, addebitabili sia al lettore che allo scrittore. La sensibilità personale spalanca o no le infinite porte dell’introiezione e investigazione, disacerba cataratte, ripristina cristallini autocoscienziali, immette in mondi altri. Come dice Eco che chi non legge vive solo gli anni che gli sono concessi, chi legge ha vite quasi immortali. Ho piacere di fare altre citazioni: Marquez “Ho sempre creduto che la buona scrittura sia l’unica felicità che basta”

Chinu Achebe: “Gli scrittori non prescrivono ricette mediche... ma provocano dolori alla testa”

Franz Kafka: “Di una cosa sono convinto, un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”

Gustave Flaubert: “Non leggete come fanno i bambini, per divertirvi o, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere”

Anonimo: “I libri sono i compassi, i telescopi, i sestanti e le cartine che altri uomini hanno preparato per aiutarci a navigare nei pericolosi oceani della vita umana”

Petrarca: “I libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di familiarità attiva e penetrante”

Emily Dickinson: Non esiste un vascello veloce come un libro, per portarci in terre lontane, né corsieri come una pagina di poesia che si impenna”

Margherite Yourcenar: “Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici. Ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”

Karl Kraus: “Quando il sole della cultura è basso, i nani hanno l’aspetto di giganti”

Henry Brougham: “La cultura rende un popolo facile da guidare, ma difficile da trascinare: facile da governare, ma impossibile a ridursi in schiavitù”

Henry David Thoreau: “Quanti uomini hanno datato l’inizio d’una nuova era della loro vita dalla lettura di un libro.

Emil Cioran: “Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle”

G. Bufalino: “Un libro deve essere un pericolo. Una biblioteca potrebbe essere una polveriera”

 

 

Quali sono gli indicatori che utilizzi nel valutare, se così ci è permesso dire, un testo?

 

Il coinvolgimento riguardo molte prospettive. Che sono quelle generiche per cui qualcosa ci coinvolge o no, che non sempre sono oggettivabili con ortogonalità scientifica. Argomentazioni, sensibilità che ha simpatetìa con la cultura, storia personale, momento temporale che si sta vivendo. Come già detto, non potrei prescindere dal coinvolgimento di ricercatezza semantica e profondità di argomentazioni, prospettive e vedute altre, anche scomposte e ricostruite caleidoscopicamente. Un libro è bello quando è bello. Oh bella!

 

 

Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche di una buona scrittura?

 

Per rispondere alla domanda posso dire quale è un libro bello, per me. Per me una delle bellezze di un libro è la scrittura, lo stile. L’avventura semantica è quasi imprescindibile. L’avventura nelle emozioni anche formali. Le solleticazioni che provocano pruriti al cervello e al cuore, che anche se inafferrabili, comunque pizzicano lo strumento che siamo, evocandone, per simpatetia gli echi emozionali.

Molto in sintesi, l’affascinazione del barocchismo gaddiano, bufaliniano, la metafisicità e infinito umanesimo di Borges, il realismo fantastico di Marquez, l’insondabile pathostemia di Dostoevskij, la chirurgica scrittura di Primo Levi, l’impurezza di assurgere alla giustizia divina di Kafka. Per contraltare il divulgazionismo ispirato del mondo fisico di Davies o il rigore matematico-logico di Russel e tant’altro ancora. Sono come il topo Firmino di Savage che ha prestato il palato per sconfinate terre cartacee e di fantasia letteraria. Con ripetizione, per me, il terrore è la non peculiarità d’alcuni scrittori contemporanei, la loro assoluta sovrapponibilità e non riconoscibilità, la convenzionalità del linguaggio, per predilezione solo della trama, per pochezze congenite ed altro che sommariamente possono essere definite pochezze.

 

 

Hai mai fatto interventi critici, hai scritto recensioni di opere di altri autori?

 

Raramente.

 

 

In relazione alla tua scrittura, qual è la critica più bella che hai ricevuto?

 

Che è molto pittorica, olfattiva e ricercata.

 

 

C’è una critica “negativa” che ti ha spronato a fare meglio, a modificare qualcosa nella tua scrittura al fine di “migliorare”?

 

Ogni giudizio è da parte mia degno di valutazione e sollecitazione a ripensamenti che mi inducono a riflettere e ad assestare la rotta. Come quella di essere troppo ermeticamente complesso, infatti in queste note è patente che sono molto leggibile.

O no?

 

 

A cosa stai lavorando? C’è qualche tua pubblicazione in arrivo?

 

Ho una serie di racconti che potrei concedere alla corrosione delle intemperie del tempo e un romanzo storico che non ha ancora avuto la debita concrezione della parte finale.

 

 

Quali altre passioni coltivi, oltre la scrittura?

 

Lettura, Pittura e ricerca delle premeditazioni anfotere della natura e del sole, come gli uomini primitivi

 

 

Hai qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su La Recherche.it?

 

Benvenuti in questo convivio.

 

 

Che cosa pensi, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?

 

Sono figlio della carta. Quando mi appresto a leggere un libro, con una prassi consolidata, anzi sclerotizzata, forse nevrotica, vergo il libro al sommo della prima pagina, con data e nome, quasi a rogitare il possesso del libro, e con esso il possesso fuggevole ed effimero di quello stazzo di tempo ed emozioni, sempre rivendicabili. Credo, in fondo che non delle piramidi o dei megaliti ha forma l’uomo ma dell’effemerità e della più o meno consapevole padronanza della genealogia dei suoi crucci, che il sole è lo stesso che desiderò l’ombra dei megaliti e solo la notte è invenzione dell’uomo. Poi apro, con atto stuprante il libro, quasi da sverginatore, in preda alle prurigini promissive, rompendone la costa, con una maestria assoluta, quasi da fisiatra dell’osteologia letteraria. Da ciò si evince che non sono un fruitore del testo elettronico, Anche quando scrivo e scrivo in formato elettronico, se non stampo non riesco a definire a fondo i contorni esatti della produzione, se non trasposto su carta. Mi è pienamente comprensibile solo sulla carta. A mia parziale discolpa dall’accusa di attentato all’integrità del patrimonio boschivo, per questa mia predisposizione congenita, mi piace riferire che, nella mia vita mi sono abbondantemente adoperato, in forma preponderale per un decennio, a mettere a dimora un numero rilevantissimo di piante, in ogni dove, direttamente con le mie mani e, ancora ora, mi diletto a coccolare le mie piante, frequentare la natura e piangere la moritura degli alberi pubblici. Per scongiurare questa assediante alterazione della natura dovuta all’effetto serra, si può ovviare con alcuni presidi, tra i primi quello di predisporre rimboschimenti di aree rilevanti del mondo, perché la clorofilla con la fotosintesi e l’organicazione del carbonio che cattura l’anidride carbonica mediante il ciclo di Calvin, è il metodo più semplice di produrre ossigeno ed eliminare anidride carbonica. Amerei che almeno in Italia si legiferasse affinché per ogni albero abbattuto dalle intemperie o, per ogni nuovo nascituro si piantumassero in aree definite, nei vari comuni, due piante per evento.

 

 

Grazie.

 


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