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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

Acqua/Agua

di Carmen Boullosa 

Proposta di Loredana Savelli »

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Pubblicato il 08/07/2012 09:15:26

Quei due lontani, quei due separati vanno verso l'acqua guidati dalla loro sete.
Questa è acqua scompigliata.
Le sue molecole specchio portano il peso dei corpi allontanati,
l'occhio caldo del filo che tronca,
acqua spezzata nella sua costituzione.
Acqua rotta, mozzata.
Acqua che finge il piacere liquido che non ha.
Acqua ipocrita.
Acqua esplosiva, trattenuta dalla pura parvenza.
Acqua dove si abbeverano il nero cane insensibile e loro due, i disgiunti.
Acqua che brucerebbe andando di traverso nelle gole di altri innocenti.
Acqua stagnante che scorre, che si sposta come un blocco di furia, è Notte, inghiotte luce, è acqua divorante,
ha tanta fame come può avere un quattordicenne.
Vuole mangiare unicamente il vuoto.
È furia da coltello.
Acqua maledetta, dannata,
ispida truffa.
Lui, dove si trova?
La tempesta cade ai suoi piedi per cullarlo.
Lei, la seconda di quei due, è resa fertile dal riso idiota della iena,
sopra il suo tavolo si librano gli uccelli da preda, vogliono essere i suoi consorti.
I due si dispongono a bere.
L'acqua cui ricorrono è muraglia.
In essa le navi vanno a picco,
sopra di essa l'uragano si accanisce,
il gabbiano è cibo,
l'usignolo esca,
il frumento polvere di vaniglia che soffoca,
l'onda è la pietra della fionda.
Quest'acqua è cecità.
Riscalda la bocca che agogna il bacio.
Quest'acqua beve, si sazia con la separazione,
mastica lo spazio senza abbraccio,
deglutisce la pelle senza pelle, si abbuffa con la distanza tra quei due.
È acqua bevitrice ed è lì per confondere la rottura, la lontananza.
Se i gatti si abbeverassero alla sua fonte, canterebbero e chioccerebbero con la luce dell'alba.
Se fossero cammelli, azzarderebbero le proprie forme nella selva.
Se fossero castori, si adagerebbero sulle poltrone.
Se fossero uccelli, pianterebbero il becco nel lago, il collo, il corpo, le zampe, comincerebbero a battere le pinne come i pesci.
Boccheggerebbero simulando vita nel cammino verso la morte.
Se Huitzilopochtli la bevesse, con il suo casco da colibrì in testa e ai suoi piedi la xiuhcoatl, serpente di fuoco,
anziché guidarci da Aztlán verso Tenochtitlan, si pianterebbe nel primo stagno per boccheggiare pure lui, agitando le sue braccia, inoperose ali.
Quell'acqua è inganno, è il disordine, è la fine dell'istinto,
essa è la ghigliottina dell'amore,
dinamite sui ponti e sulle strade,
verso di lei li conduce la loro sete da disgiunti.
La donna che qui scrive, muta la sua sete in parole, lascia la bocca secca.
Ed è anche come l'uccello-pesce, che agonizza a modo suo.
Non può bere nient'altro, la separazione è il deserto.
Il suo corpo suona prima che esca il sole,
è un puro lamento,
tuonare di lingue metalliche dei fili delle spade dell'assenza,
duna che si muove cercando di seppellire e travisare le radici, incapace di toccare ancora terra.
Duna di cattiva memoria, duna volata via, senza ritorno.
Il suo corpo è puro viaggio, è biglietto di andata,
l'hanno cacciato dalla sala d'attesa perché faceva suonare la sua qualità di disgiunto.
Non apriva la bocca.
Ogni suo poro ripeteva il suono del dolore, era il latrato che non esce dal muso, e lei era già fetida come un corpo che inizia a decomporsi, impaziente, senza attendere la tomba.
Tornando all'acqua dove la sete porta i due disgiunti,
quell'acqua disseta nel bruciare.
Avanza come la fiamma sulle foglie secche, cancellando le orme della preda.
Non è chiara né pulita come il liquido riparatore.
È ciò che nacque dal nido dello stagno,
è l'acqua che si lanciò a volare dopo un paio di quinquenni nell'isolamento.
Acqua senza memoria della grotta né delle viscere della terra.
Senza ricordi del vento né del sole.
Ignorata dalla purezza.
Acqua che irrigata sulla terra brucia l'erba,
fa sputare al roseto petunie marce
e al pino pinoli deformi, avvelenati e acquosi come polpa di guanabana.
Tutto quello che sui lenzuoli avevano quei due quando erano gemma di letto
in fiore, quando il loro silenzio nell'amplesso balbettava,
quando si stringevano come anime perseguitate dal demonio
cercando rifugio nella lingua e nella bocca dell'altro,
quando non potevano interrompersi malgrado i loro corpi indolenziti chiedessero una pausa,
bagnati di gemiti e sudore,
quando lei viveva la gioia di essere posseduta,
tutto quanto sarà spazzato via dall'acqua candeggina,
l'acqua acido,
l'acqua temibile della separazione,
l'acqua che è come il mantello del rito che vuole cancellare il potere dei corpi,
come un sacchetto di plastica in testa,
la corda al collo,
il pugnale nella bocca che aspetta il bacio.
L'acqua che beve il cane che non conosce la propria condizione,
e si comporta come un docile mobile, dimentico delle proprie zampe e del proprio abbaio,
poiché apre e chiude il muso solo per mangiare e sbadigliare.
Il cane addomesticato fino all'esasperazione, che se smettesse di bere correrebbe nella sua sete dietro agli scoiattoli e dietro al sedere di altri cani.
Non piscerebbe più come una signorina, bensì come cagnaccio sui tronchi degli alberi e contro le pareti.
Eppure beve.
Loro due,
morti di sete, separati,
nel mandare giù un sorso possono cancellare la luce che avevano dipinto reclinati su tre cuscini
e anche la città inventata per puro piacere.
La sete che li ha benedetti stando insieme, li condanna a distruggere ciò che avevano illuminato quando solerti, leali,
applicarono il giorno alla notte e anche la notte al letto,
ed era lui quello che partoriva per tutti e due i viali, i parchi e i palazzi,
le case, i grattacieli, il treno sotterraneo e il ricordo di quella dura città di immigranti,
lui era la madre gitana che tirava fuori tesori dalle sue gonne
dove Quetzalcóatl e il Dio invisibile conversano con Maometto e Buddha, senza scontri,
mentre andavano attraverso gli abbracci verso la collera, verso la disperazione, verso il lamento come unica parola e verso la lingua muta in cui esprimevano quanto volevano dirsi con tenerezza, in lingue di paesi nemici, nella loro guerra privata.
L'acqua li farà cancellare, attraversando la loro gola,
dimenticare,
uccidere.
Sarà quella dello stagno dove si butteranno i figli.
Prima avevano sconfitto l'orologio:
ora saranno schiavi della lancetta dei secondi e della ruga.
Prima avevano riconosciuto la legge:
ora saranno comandati dal falso padrone del costume.
Prima hanno svegliato i dormienti e loro stessi sono stati il mistero del colore che si vede, allegri come un'arancia, unite le due metà, belli:
ora saranno suicidi e assassini dalle mani pulite per via dell'arte di bere dal liquido al quale sono condannati dalla separazione, troncati.
Sono stati corpi, montoni, leoni itifallici i due coricati:
ora saranno nuvola, occultamento, schermo, i due in piedi, i due lontani.
Hanno giocato a dadi con gli dei di diverse latitudini:
ora vedranno il grilletto premuto dal dito del bambino irresponsabile.
Che li prendano due colpi:
nel cadere nel sonno, i loro corpi aperti
che si vanno svuotando ridaranno all'acqua la purezza naturale.
Che li prendano due colpi:
le loro spoglie sapranno inserirsi nel lavoro misterioso dei semi
e saranno memoria nel fogliame e nei frutteti.
Prima che mandino giù il sorso di acqua,
che li prendano due colpi.
Perché non percorrano il rosario della ripetizione
che li farebbe diventare la pannocchia generata dall'abete,
o la petunia che avvizzita sputa lo stelo del roseto,
o il leone castrato ai piedi della poltrona,
o il latrato che nessun grugno ha emesso,
lei sarebbe il corpo senza diritto all'amplesso,
lui sarebbe l'amplesso senza la porta dell'amore,
che li prendano due colpi.




(Il poemetto Agua è stato pubblicato nel 2000. Traduzione dallo spagnolo di Martha Canfield. Vedi: http://www.filidaquilone.it/num010canfield.html)



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