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Eclissi

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Tra le ultime frasi di Proust, al termine de “Il tempo ritrovato”, troviamo “Se mi fosse stata lasciata, quella forza, per il tempo sufficiente a compiere la mia opera, non avrei dunque mancato di descrivervi innanzitutto gli uomini” e qualche riga più avanti “esseri che occupano un posto considerevole accanto a quello così angusto che è riservato loro nello spazio” e per chiudere “come giganti immersi negli anni, periodi vissuti da loro a tanta distanza e fra cui tanti giorni si sono depositati – nel Tempo.” Ed è di tempo passato, ma anche in qualche modo ormai perduto, che narra Sinigaglia in questo suo “Eclissi”. Il protagonista, nel momento in cui avverte il suo di tempo battere gli ultimi rintocchi, intraprende un viaggio verso nord, verso l’Iperbòreo, per ammirare un’ultima volta una eclissi di sole. L’uomo, un triestino di nome Akron, è solo, la sua solitudine densa, magmatica, lo tiene ancorato a un sé non immediatamente percorribile e, nell’oscurità fuori posto dell’eclisse, dovrà trovare l’ordine perduto che lo sigilla nel suo essere solo. Durante il soggiorno sull’isola la solitudine esteriore di Akron si lega a quella di una signora americana dal buffo accento, sola come lui. I tentennamenti dei dialoghi, in un misto cangiante di italiano, inglese e italiese, ben rappresentano la corazza ideologica entro la quale i due stanno rinchiusi, fatta di chiavi e linguaggi difficilmente decodificabili per quel preciso momento. In vista del fatto quasi prodigioso della completa eclissi, i due tentano di aprirsi, esporsi, l’uno all’altro. Lo fanno, ma con un misto di slancio e riluttanza, ciascuno mostra all’altro, però tenendo sempre qualcosa celato, soprattutto Akron, alimentando l’idea che quei pezzi oscuri ci sono, sono ben conservati, magari stentano a trovare una collocazione, nell’intima speranza che l’improvvisa oscurità, in ore diurne, renderà i frammenti bui uguali a tutto ciò che li circonda e quindi perfettamente integrati, visibili e leggibili. Per non sciupare l’attesa del lettore, mentre veleggia verso il finale, lungo i sentieri ventosi dell’isola dove si svolgono i fatti, che Sinigaglia racconta in modo sensibile e molto efficace, non farò ulteriori cenni alla trama, e terrò ben celato nel mio segreto il finale, bellissimo e spiazzante. Farò come Akron, quasi incapace di leggere la rivelazione, anche a sé stesso, mentre sembra ricacciare indietro il vero motivo che l’ha spinto in un luogo tanto remoto. Tuttavia la rivelazione si creerà di fronte ai suoi occhi, mano a mano che il fatidico incontro con l’oscurità si avvicina. L’oscurità che l’ha avvolto nel corso degli anni si diraderà in vista dell’eclissi, rendendola epifania di luce. La repentina tenebra si riallaccia a una tenebra antica e sepolta, vi si congiunge e il cerchio si chiude. Una stella si aggiunge alla costellazione che, “secondo un’antica leggenda babilonese, in una notte così le stelle visibili in cielo sono tanto numerose che chiunque potrebbe, congiungendo punto a punto, brillante a brillante, disegnare la sua costellazione personale…”

Un libro sulla memoria, come accennavo all’inizio, un uomo che sentendo finire il suo tempo vuole descrivere quegli uomini che hanno davvero significato tanto nella sua vita, quelli per cui si è trascinato su di un’isola del mare del nord. E per descriverli deve compiere il passo più doloroso, ri-incontrarli, ritrovare i momenti che hanno un posto tanto considerevole per lui, sebbene siano sepolti, dimenticati, e abbiano quasi completamente perso il peso sia delle notizie che dei fatti memorabili. Frammenti quasi diafani, stille, ma stille – sempre con Proust – sulle quali si regge l’immenso edificio del ricordo per Akron. Edificio immenso ma ctonio, sul quale il sole difficilmente ha posato i suoi raggi, e lo dovrà fare proprio nel momento in cui la luna lo occulta alla vista, nel doppio significato di celare quel che è visibile, e per questo avendo la forza di palesare quel che è sempre stato nascosto. L’eclissi acquista questo duplice significato di occultare, Akron eclissa dentro altre urgenze il solo fatto per cui vive, e lo porta alla visione interiore nel momento in cui la sua vita stessa perde significato e prospettiva rendendo tutto tenebra sulla quale la tenebra più fitta spicca in modo quasi doloroso per la vista. E Akron, gigante immerso nella deriva del tempo, che a lungo è giaciuto sotto la superficie dei suoi ricordi, deformando ogni presente che vi è trascorso, appena sente che i giorni si fanno sottili, lascia che il ricordo di un giorno tanto ponderoso, da aver reso tutti gli altri volatili come sabbia su uno scoglio esposto al vento, torni alla luce e così fa suo il tempo, lo rende Tempo, lo riporta nella sua vita rendendola improvvisamente degna di essere stata vissuta e così risolta, al punto da sentire di poterla lasciare andare nell’effimera notte di una eclissi.

Fanno da cornice e sfondo le bellissime descrizioni dei panorami nordici, la lingua, perfettamente cesellata, e che si può permettere di saltellare anche su vezzi, dialetti e traduzioni estemporanee, senza perdere malìa, incisività e la musicale perfezione che accompagna la narrazione.

 

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