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al testo di Teresa Nastri
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Il giorno le si annunciò con piccole lame orizzontali di luce, che filtravano di tra le sconnessure delle tapparelle di plastica bianca, già da qualche tempo. Lei non poteva saperlo, ma le palpebre proteggevano le sue pupille chiare molto meglio di quanto credesse. E in realtà non era la luce che le impediva di dormire più a lungo la mattina, ma il fatto che le inquietudini di sempre verso l’alba trovavano una resistenza più debole nel loro percorso di emersione verso la superficie della coscienza. Così il quotidiano le si rovesciava addosso all’improvviso con tutto il suo gravame inutile di rituali scaramantici, di cose da fare, di cui solo una parte molto piccola era veramente necessaria al vivere in conformità equilibrata con le regole di civile convivenza fra cittadini di uno stesso territorio. Il resto era solo una pletorica ripetizione di gesti consuetudinari che servivano a scandire il tempo, come se questo non passasse egualmente anche in assenza di tanto trambusto. Perché era così difficile tagliare fuori dalla propria esistenza tutto ciò che la congestionava? Quel tempo vuoto di senso, scandito dall’eterno ripetersi dell’inutile era la più scandalosa necessità inflitta alla coscienza.
(da appunti ritrovati in una vecchia borsetta)
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