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La compagna di scuola

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Aspettavamo la campana del secondo orario, tra undici e mezzogiorno, pigramente raccolti, sbadigliando, intorno ai tavolini del caffè Pascoli & Giglio, che era il caffè nostro, del Ginnasio-Liceo, sull’angolo di quella strada, anch’essa nostra, con la via principale della città, dai borghesi detta Corso e da noi Parasanghea.
I più fortunati mandavano giù l’una dietro l’altra granite di mandorla, la più buona cosa da mandar giù ch’io ricordi della mia infanzia: e c’era la tenda rosso-marrone che bruciava di sole come un sospeso velo di sabbia sopra i tavolini. C’erano discorsi di grandi parole, di grandi speranze, e c’erano i pettegolezzi scolari sulle medie, i temi in classe, i professori e i compagni sgobboni.
I piccoli delle classi ginnasiali si rincorrevano da marciapiede a marciapiede, urlando, fin su allo sbocco di Piazza del Duomo che chiamavano Ponto Eusino, e là subito le loro urla selvagge risuonavano più larghe e cantanti quasi come su un’aperta campagna. Là era, difatti, una campagna di sole: Piazza Duomo, amplissima nel suo asfalto ancora fresco, con le sue palazzine rosse settecentesche a semicerchio e la gradinata del Duomo dal sommo della quale si scorgeva, oltre tetti e tetti, una striscia abbagliante di mare canuto.
Avevo sedici anni, quasi diciassette; mi piaceva ormai “fare il grande” e stare coi grandi veri, tutti dai diciotto in su, della seconda e terza liceale, a discutere, a fumare sotto la tenda color ruggine del caffè; ma ogni volta che l’urlo di uno dei piccoli andava lontano oltre la strada sulla prateria della piazza mi sentivo nitrire dentro e ritornare cavallino com’ero stato quando anche io dai gradini della cattedrale spiccavo il volo radente sopra l’asfalto.
Un pezzo era che non osavo più giocare a quel modo scalpitante. Una signorina della “seconda” mi aveva guardato; e avevo smesso senz’altro.
Era figlia di colonnello. Mi pareva bellissima, sebbene portasse un cappellino che le nascondeva metà della faccia. Andava da casa a scuola, da scuola a casa con una ragazzona dai grossi fianchi della sua classe, che le dava sempre la destra e pareva la sua serva.
Appena mi sentii guardato non esitai; mi misi dietro a lei tenendo dieci passi di distanza, e a tutte le uscite l’accompagnavo. Essa si voltava in tutto il percorso una volta sola; quando giungeva sull’angolo della strada di casa sua. Verso sera io ripassavo sotto le sue finestre in bicicletta più volte, e la musica di un pianoforte scorreva sotterranea dentro alla lunga fila di alte mura fiorite. Le scrissi anche: ma lei non mi rispose; solo perché in quella mia unica lettera l’avevo chiamata Diana, spesso mi faceva misteriosamente dire da qualche ragazza della mia classe che Diana mi salutava.
Un giorno mi mandò un garofano rosso chiuso dentro una busta.
Mi trovavo in classe mentre la professoressa di lingue moderne scandiva parole cantate di La Fontaine. Mi ama, pensai scattando, e la professoressa mi gridò di ripetere l’ultimo verso, e io dissi, pensando mi vuol bene, “Ma neanche per sogno!”.
Fui cacciato dall’aula per tutto il resto della lezione; e andai a mettermi dietro la porta della “seconda” dove abitava lei. Speravo di udire la sua voce, non la conoscevo ma credevo di poterla riconoscere. Mi ama, pensavo. E la voce di “lei” si alzò, mentre quella dolente del prete che insegnava greco a tutto il Liceo interrogava. Era una voce come di bambina che si sveglia, con un lungo “oh” di meravigliato raccoglimento al principio di ogni risposta. C’era un gran caldo, sebbene fosse solo maggio, o giugno, e dalle finestre spalancate del corridoio veniva odore di fieno.
Mi staccai dalla porta, la voce era diventata un’altra dentro all’aula, e mi affacciai alla finestra, mi misi a guardare giù in un cortiletto mai visto prima, ad osservare le foglie di un fico muoversi nel sole come lucertole, al di là di un muricciolo.
Poi l’uscio dirimpetto si aprì e in una ventata di voci uscì lei, quella giovane che mi voleva bene, vestita di verde e di azzurro sugli alti tacchi. La vidi, nei vetri della finestra, esitare come pensasse di tornare in classe.
Sentii che arrossiva. E tremai per il bene che mi voleva che un nulla sarebbe bastato, credevo, a cancellare via dal suo cuore. Volevo far finta di continuare a guardar fuori, ma appena lei svoltò l’angolo del corridoio le corsi dietro.
Mi guardò quando la raggiunsi e nient’affatto era rossa come avevo supposto. Era tranquilla e sorridente. Vidi che aveva gli occhi chiari, fieramente grigi nel viso di bruna.
“Oh”, mi disse: “Vado a prendere il fazzoletto che ho dimenticato. Giù. In guardaroba”.
Pensai: “E se la baciassi?”.
E subito cominciò un terrore di farle male, di distruggere il bene, di perdere per sempre la felicità di avere il garofano rosso donato da lei.
Con timida civetteria lei disse: “Dunque?”. E appena sorrise era già incamminata per andar via. Ma la fermai, la chiamai col suo nome: “Giovanna!”. Pure non trovavo parole e non sentivo che un’acqua di mulino farmi dentro io-io-io e diventare calda entro di me, un turbine di io-io-io, al cui confronto ogni cosa pareva non essere vera.


(testo della prova Invalsi di Italiano per l'esame di terza media, tratto e adattato da Elio Vittorini, Il garofano rosso, A. Mondadori, 1972)

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