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al testo di Alessio Tesi
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Erano le 21.59 e Filippo stava salendo l'ultimo gradino che lo separava dalla porta che sanciva il confine tra il suo mondo e quello degli altri. Un'altra giornata era volta a termine ed aveva lasciato ulteriori indelebili segni sul suo volto, di quei segni che non si vedono dall'esterno facendo colazione insieme, ma che forse emergono dopo una cena e qualche centilitro di vino. Girò la chiave della porta, entrò in casa e lasciò la borsa sul mobile alla sua sinistra; la polvere ricopriva ormai molti anfratti di quel posto, ma aveva risparmiato quei piccoli spazi rivolti alle consuetudini. A piccoli passi avanzò verso la cucina togliendosi il cappotto, si passò una mano sulla fronte strusciandosi ruvidamente e, nel gesto successivo, strinse il pollice e l'indice della mano destra sui suoi occhi, non prima di averli strizzati a dovere. Dopo qualche secondo di nebbia tornò a vedere e gli sembrò di notare strane luci splendenti davanti a sé. Era vestito di tutto punto con un gessato grigio e una camicia bianca, come si addiceva al suo lavoro dove l'eleganza non è una consuetudine ma un obbligo. Prese un bicchiere d'acqua e il suo sguardo cadde in basso sulle sue scarpe nere che lucidava accuratamente ogni sera e che tornavano la sera successiva sempre un po' più sporche, un po' più sbiadite. Aprì il frigo e addentò un avanzo di pizza di non si sa quando; nel frattempo arrivò Grisù, il suo gatto (forse allertato dal rumore dei suoi passi) e in maniera un po' ruffiana drizzò la coda e cominciò a strusciarsi ai suoi pantaloni; Filippo quasi impietosito gli offrì un po' della sua cena. Lo osservò mentre masticava avidamente rannicchiato sulle zampe; di tanto in tanto oscillava leggermente il capo mentre deglutiva, prima da una parte poi dall'altra come se volesse dirgli che si meritava qualcosa di meglio di un pezzo di pizza rancido; una volta finito il boccone Grisù lo guardò nuovamente per assicurarsi che il pasto fosse terminato e tornò di nuovo alle sue faccende. Era un gatto molto pigro ma sembrava essere indifferente al tempo, Filippo gli voleva un gran bene ma lo invidiava per questa sua aria rilassata, pacata, dolce e indifferente che ogni sera gli sbatteva in faccia. Sorrise amaramente e si diresse verso il salotto, si gettò a peso morto sul divano e appoggiò la testa sulla spalliera chiudendo gli occhi per un attimo; sentì subito qualcosa di rigido che premeva sulla sua schiena, era talmente scomodo da indurlo a rinvenirsi, allora accese la luce posta sul tavolino davanti e frugò dietro di sé trovando un quaderno, ci passò una mano sopra per accarezzare la copertina e lo sfogliò incuriosito: la calligrafia era inconfondibile, si accorse quasi subito che era quello del suo ex-compagno, Michele. Se n'era andato ormai da tre giorni, dopo quasi dieci anni di convivenza avevano deciso insieme di troncare questa storia, troppi litigi, troppi sotterfugi per tenere la cosa nascosta agli occhi dei vicini, agli occhi di tutti. Due amici non convivono per tutto questo tempo e non si salutano così dolcemente davanti alla porta di casa. Secondo Filippo nessuno doveva sapere niente della loro storia, comprese le rispettive famiglie; Michele ha sempre lottato contro questa rigida convinzione del compagno, ma alla fine è sempre finito col sottomettervisi...fino a qualche giorno fa, fino all'ennesimo litigio sull'importanza della “discrezione” che Michele avrebbe dovuto tenere durante la prossima cena con i colleghi di Filippo: “non devi farli sospettare” gli diceva, “ti prego è importante” proseguiva. Tutte espressioni che lo facevano bollire dalla rabbia. Volarono parole grosse, ricordi e rancori passati, il bicchiere era colmo e mancava solo l'ultima goccia che arrivò inesorabile quando tutte e quattro le labbra schioccarono sentenziando la medesima parola: “basta”. Filippo cercò di scacciare questi ricordi e si spostò in avanti per trovare le sigarette, allungò la mano per prenderne una ma inciampò su un vecchio soprammobile che cadde alla sua sinistra. Quest'incidente destò la sua attenzione, allora rialzò l'oggetto, estrasse una sigaretta dal pacchetto, la accese e si mise ad osservarlo aggrottando la fronte: non ricordava né come, né quando era stato messo lì, ma grazie alla sua particolarità si legò prepotentemente ai suoi pensieri. Era una statuetta che rappresentava un giovane ragazzo seduto su uno sgabello con fare pensieroso; l'oggetto presentava un dettaglio macroscopico che attirava il suo interesse: gran parte del corpo di quella figura era assente, presentava un buco, un vuoto che andava dalle spalle fino alle gambe; era come se fosse caduto e la parte centrale si fosse frantumata. Solo la testa, la parte superiore e quella inferiore del tronco erano visibili, il resto era trasparente o meglio assente; la parte superiore si reggeva solo sul braccio destro che era a sua volta appoggiato sul ginocchio della gamba destra facendo perno sul gomito. Il braccio, piegandosi verso l'interno, assumeva una forma di “V” e si slanciava verso il viso con il polso piegato che lasciava il dorso della mano in una posizione che sembrava appoggiarsi e sorreggere il mento, donando alla figura un'aria vagamente misteriosa. Il volto era fresco, comune, accennava ad un sorriso ed era leggermente rivolto verso destra. Dopo averlo osservato per un po' di tempo Filippo lo adagiò nuovamente sul tavolino in vetro, proprio sotto la luce, e si fermò ancora per qualche istante facendo lampeggiare la cenere della sigaretta: prese il diario, non lesse niente ma lo aprì fino a trovare la prima pagina bianca sulla quale potesse scrivere qualcosa. Fece un bel respiro e si prese ancora del tempo per riorganizzare i pensieri e renderli vividi. Poi, come un fiume in piena che rompe impetuosamente gli argini, si abbandonò al flusso di coscienza...
Con queste righe chiuse il quaderno, si accasciò rovinosamente sul divano approfittando della sua offerta di comodità; nel frattempo arrivò Grisù che si appallottolò vicino a lui appoggiando il musetto sul suo ginocchio alla ricerca di qualche coccola che non tardò ad arrivare; soddisfatto lo guardò ancora per un istante prima di chiudere delicatamente i suoi occhi lucidi e assonnati. “Tu sì che sei un gatto fortunato” esclamò Filippo mentre spense l'ennesima sigaretta nel portacenere ricolmo. Adesso stava assaporando la vita, la sue sfaccettature, i suoi dolori, la sua intimità, il suo scorrere così pesante e così leggero come fosse un fiume di metalli impazziti; si rese ben presto conto che non era pronto a ricucire quelle pieghe con qualche parola e qualche carezza. Si era fatto tardi e stremato non fece in tempo a scollegarsi dal suo mondo che si dovette celermente concedere ai suoi sogni, mai così vividi, in attesa del domani. |
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