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Su Guido Gozzano

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Quando un uomo nasce alla poesia, non sceglie il suo contesto di riferimento, cioè quel bagno culturale che gli snob della lingua inglese chiamano background.

Guido Gozzano articola i suoi primi versi in un contesto, appunto, in cui il poeta ideale è condensatore e amplificatore di atteggiamenti e valori che l’alta cultura di quel certo spazio/tempo ha fatto suoi e indica come modelli da inverare. La cultura imperante tra fine ‘800 e inizio ‘900 è quella del nazionalismo italico che vorrebbe celebrare i suoi fasti nel mondo. Ma l’Italia reale del dopo Risorgimento (crisi economica, pauperismo, analfabetismo, banditismo, tensioni e rivolte sociali, anche per il modo con cui l’unificazione era avvenuta e si stava confermando), non somiglia all’Italia ideale che i sacerdoti dell’Olimpo intellettuale italiano continuano a  sognare e a pretendere di indicare come un “dover essere” cui le masse dei cittadini sudditi devono corrispondere. L’alta cultura ha assunto un atteggiamento autoritario e paternalistico oltre che repressivo e si smarca rispetto al compito storico di elaborare corretti canali di raccordo tra governanti e governati, tra colti e incolti, tra ricchi e poveri. Sul piano letterario s’è imposto il superomismo dannunziano che concepisce il poeta come vessillifero e sacerdote dei valori dominanti, in quanto incarna, nella parola come nel gesto (poeta-vate; poeta-soldato), il presagio di superlativi, ma fumosi ed ambigui destini nazionali. Inseguendo questa e altre meno innocenti chimere, ciecamente, le classi di potere (economico, politico e culturale) avviano l’Europa e il mondo  alla Prima Guerra Mondiale

Gozzano sottrae la propria attività letteraria a tale compito, non in virtù di un’ideologia alternativa che rappresenti le istanze dei subordinati e degli oppressi. Ciò che sarebbe ancora un accettare il modello dannunziano di segno rovesciato, posto al servizio di classi e categorie sociali antagoniste, per le quali, peraltro, il pensiero letterario gozzaniano non prevede alcuna cittadinanza.

L’ideale del poeta Gozzano era il supremo godimento estetico e intellettuale dell’uomo di lettere, sottratto al meretricio ideale e/o reale della propria parola. Oggi noi chiameremmo “disimpegno dell’intellettuale” il suo ritrarsi nella sfera della propria individualità, tuttavia socialmente privilegiata. Nella poesia L’altro egli sostiene di essere, costituzionalmente e per casuale sorte, inadeguato a un “servizio” sia pure ideale. Col tono scanzonato di colui che si professa ateo e nihilista, sostiene  che, se un dio l’ avesse voluto, Guido avrebbe pure cantato la fede, posto che l’avversione per l’odore dell’incenso gliel’avesse consentito. Ma se lo stesso dio l’avesse fatto dannunziano, invece che un beota genuino e innocuo, avrebbe prodotto un vero mostro pericoloso. E ancora il poeta  Guido insiste più o meno così: dato che sono pieno di guai e malanni, che il dio conservi per la mia gioia, almeno questo mio stile un po’ plebeo (rispetto a quello di D’Annunzio) e conservi l’altro Guido, il mio me fanciullo che mi dà dolcezza e letizia. Per continuare  ad averlo faccio tranquillamente a meno dell’immensa  gloria che mi deriverebbe dalla scrittura delle più eccelse opere di D’Annunzio. Io, per mia condizione psico-fisica e sociale, sono uno che guarda e prende gusto a significare al mio me fanciullo ciò che si dice mondo e ciò che si dice vita. E sono convinto che questo sia già tanto.

Così in molte sue composizioni, peraltro tecnicamente innovative e perfette nell’eleganza dello stile, sviluppa giocosamente il concetto che il morir giovani senza subire l’oltraggio della vecchiaia è una vera fortuna; e in altri componimenti si effonde in lodi per la “Signora vestita di nulla” che “Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma”.

Il così detto disimpegno gozzaniano ci porta, per sua lirica interposizione  e guida, a scoprire nel chiuso delle case signorili e borghesi il sentore pretenzioso e stantio di una umanità molle e sazia del suo destino mediocre, creduto intramontabile. Nel suo limbo curato, tra piccinerie  spirituali e agi che sembrano e sono spacciati per spontaneo frutto di natura (e non lo sono),  circola una beneducata ipocrisia dei sentimenti, un’inerzia che sconfina nell’indifferenza, nel non voler sapere ciò che si è dietro o sotto questa curata superficie. O comunque, Gozzano riserva a sé questa consapevolezza, questo guardare e guardarsi con elegante distacco, anche impegnato a ricavare gioie estetiche e sessuali dalla frequentazione di avvenenti cameriere che non si aspettano proposte e legami di sentimento.

Nell’universo gozzaniano ci s’imbeve quietamente di una raffinazione della bellezza, già redenta  o distante da ogni sua commistione con la rozzezza e il sudore della fatica. Si sta distanti da ogni pericoloso coinvolgimento coscienziale col mondo di fuori – quello invisibile delle baraccopoli periferiche, degli opifici, delle miniere, delle campagne infeudate. Di tutto ciò si percepisce l’elisione solo per una ben dissimulata tensione a evitarne, ancor prima che il contatto, il richiamo nominale. Semplicemente assente. Anche l’amore, o meglio l’erotismo praticato nel terso perimetro della lindura ottenuta per procura (cameriere, fantesche, già in qualche modo avvezzate ai gusti padronali e perciò fruibili come donne di piacere)  sembra tuttavia avere lo stesso calore e colore innaturale della febbricola  da batterio.

Il batterio! Ecco l’incrocio inquietante col mondo altro e con la morte. La morte, invece che astrattamente costitutiva, diviene elemento immanente e incombente nella poetica e nella quotidianità del poeta Gozzano. Le piccole terse e squisite inezie, di cui è intessuta anche la sua vita, peraltro  esente da ogni degradante fatica e agiata, si rivelano però non apotropaiche. Non si dà differimento al morire sia pure fra arabeschi di tendaggi e baluginante eleganza di versi. Dunque è della stessa vita il fluire precario, il mancare di scopo, l’essere priva di un senso che sopravanzi e sopravviva all’inarrestabile degrado dei corpi. Allora tanto vale che ci si dedichi a ricavare la maggior dolcezza possibile all’assenza di preoccupazioni  e quelle attività gratuite e raffinate che danno godimento allo spirito (letteratura e poesia), senza altro scopo che non sia il viverle e vedersi momentaneamente rispecchiati e moltiplicati nel loro prezioso decoro. Esse sono il solo dolce estraibile dal suo (di Guido) e nostro inarrestabile andare  incontro alla dissoluzione.

 Bianca Mannu

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