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il ballo in maschera

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Erano le cinque e dieci del pomeriggio quando squillò il telefono sulla scrivania del medico di guardia. Il dott. Alberti sollevò il capo dal primo tomo del Trattato Universale delle malattie mentali. Era convocato d’urgenza al Pronto Soccorso. Sapeva che i colleghi internisti avevano una specie di timore panico di fronte ai deliri di quelli che chiamavano pazzi furiosi. Il collega lo aspettava sulla porta del quinto ambulatorio. “Vieni dentro. Ora ti spiego” Sdraiato sul lettino un uomo, o meglio un gigante che si dimenava urlando: “Toglietemi la maschera, toglietemi la maschera!” Il viso imbrattato di sangue dai solchi profondi che s’era procurato con le unghie nel vano tentativo di togliere quella maschera che non esisteva, e che quindi nessuno sarebbe stato in grado di togliere. Lo immobilizzavano per le braccia e per le gambe due infermieri, Mauro Salerno e Gino Pizzalunga, che Alberti considerava una sicurezza per la  notevole forza fisica di cui erano dotati.  Li avrebbe portati con sé quando avrebbe aperto il Day hospital psichiatrico. Tutti lo davano per vincitore del concorso. Il padre era lo stimatissimo e temutissimo rettore dell’Università, amico dei politici più influenti della Regione. Una famiglia di geni, a considerare le carriere fulminee, i brillanti curricula, la ricchezza che si ammassava grazie a mirati imparentamenti. Mentre si avvicinava al lettino, al dottor Alberti non era sfuggita l’aura rarefatta d’imbarazzo che regnava nell’ambulatorio.

Il collega sorrideva tacendo, così pure i due infermieri che di solito tranquillizzavano lo scalmanato di turno con appellativi non proprio rispettosi. A guardar bene in viso quel gigante che ora urlava schiumando, ora piangeva a calde lacrime supplicando che gli togliessero dal viso la maschera, non ebbe difficoltà a riconoscere “La Montagna Incantata”, Giannelli, il direttore dell’ospedale. Il gigante buono, come si vantava di essere, il buon padre di famiglia.  E la sua famiglia, diceva, erano tutti i dipendenti dell’ospedale. Lo avevano soprannominato “La montagna incantata” non tanto per le sue dimensioni, ma soprattutto per l’immobilismo della sua opera, anzi, non opera. Egli era capace di sorridere sempre e promettere che avrebbe facilmente risolto il problema, qualsiasi esso fosse, ma tutti erano ormai consapevoli che nulla avrebbe fatto, che non sarebbe stato di nessun aiuto o utilità. Nessuno sapeva come trascorresse le otto ore giornaliere seduto alla scrivania: forse con gli occhi persi nel vuoto, a pensare, a dormicchiare, oppure a leggere il giornale. Aveva l’immobilismo di una montagna granitica, ma il suo faccione non aveva nulla del mondo minerale, semmai somigliava a una pagnotta soffice con due piccoli occhi acquosi, il naso schiacciato e due labbra grigie e sottili. All’arrivo dello psichiatra, i due infermieri immobilizzarono ancora più strettamente il paziente. Erano due bravi infermieri: Salerno proveniva da un periodo di facchinaggio in stazione, Pizzalunga aveva tentato la fortuna nel pugilato, ma una frattura alla mano destra aveva bruscamente interrotto quella carriera. “Saranno le colonne del mio Day Hospital, pensò Alberti ammirato, ne assumerò degli altri così fisicamente prestanti. Avrò un manipolo di granatieri da fare invidia al Presidente della Repubblica”. Preparata la siringa con consumata perizia, iniettò il barbiturico nella vena del povero Direttore.

Erano le dieci di sera quando lasciò l’ospedale. Minacciava di piovere, nel cielo cinereo ogni tanto guizzava un fulmine. I pedoni si affrettavano sui marciapiedi. Non aveva fame e si accontentò di un tramezzino al bar. Tornato a casa indossò il pigiama, accese la televisione e si sdraiò sul divano. Aveva detto a Mirella che doveva preparare la relazione per il congresso, in verità era stanco! Gli tornava in mente il viso imbrattato di sangue del dottor Giannelli, mentre la voce del notiziario si faceva più lenta e lontana. Mirella avrebbe voluto uscire. Era davvero tanto innamorata, o fingeva? A volte pensava che vedesse in lui, psichiatra, uno scudo, una protezione  dalle insidie della vita. Oppure si prestava a quella pantomima lei pure per non scontentare la famiglia. I loro genitori erano soddisfatti. In un certo senso avevano manovrato perché uno cadesse tra le braccia dell’altro. I cospicui patrimoni si sarebbero uniti. E forse questo importava più della loro unione, che sarebbe potuta essere un inferno, come se ne sentono tante.  Invece Carmela, focosa amante dal sangue meridionale, non domandava altro che quella mezz’ora di sesso nel suo studio. Lei era un vero ristoro, ma quella relazione non poteva continuare dopo il matrimonio. Se si fosse saputo…la sua fama di personaggio integerrimo sarebbe caduta a pezzi! Come la faccia della Montagna incantata, gli venne da sorridere, incantata! Perché aveva la prodigiosa capacità d’incantare chi gli stava davanti, almeno chi ancora non lo conosceva, quel furbacchione. Chi non si era sentito ingenuamente felice, perfino commosso, nella convinzione di trovarsi di fronte a un padre che si sarebbe preso cura di lui, delle sue necessità? Creava l’illusione che fosse veramente interessato, invece gli importava solo di se stesso. Così bisogna essere per farsi strada nella foresta di simboli che è la Società! Lui era al primo gradino e presto sarebbe stato direttore del Day Hospital, ed era la partenza per un viaggio ideale che lo avrebbe portato a essere direttore della Clinica Psichiatrica e poi presidente della Società Internazionale della Psichiatria. Quei traguardi erano così a portata di mano che gli pareva di poterli toccare. Era il rampollo di una famiglia potente, sarebbero stati orgogliosi di lui. Il sonno s’impossessò della sua mente conciliando tutti questi pensieri sconnessi.

Se è vero che si ricordano i sogni fatti in prossimità del risveglio, questo sogno fu fatto dal dott. Alberti tra le due e le due e mezzo di notte. Si trovava in un salone immenso, dalle pareti indefinite, forse inesistenti, perché lo sguardo si perdeva in un chiarore azzurrino dove non si distingueva altro che un lento movimento di ombre. Numerosi divani erano posti così lontano uno dall’altro che gli occupanti potevano dialogare tra loro, ma non con quelli degli altri divani. Seduti o in piedi individui nei costumi più stravaganti: alcuni ricordavano i nobili che aveva ammirato nei quadri seicenteschi della Galleria Nazionale, altri si richiamavano al mondo delle fiabe, altri ancora portavano i costumi da pretoriani romani di Cinecittà. Tutti avevano sul viso una maschera dall’espressione indecifrabile. A un tratto cominciò un canto, una dolce nenia accompagnata dal suono di liuti. I personaggi si levarono inscenando un ballo, una specie di serpentina che sfilava per la sala. Quello che colpì il sognatore fu la completa assenza di allegria e l’assoluta mancanza di concordia nei passi. Pareva che nessuno udisse la musica e ne seguisse il ritmo. Quando il ballo ebbe termine e le maschere ritornarono ai divani, riconobbe (nel sonno non ci sono dubbi o incertezze) la sua fidanzata vestita da Cappuccetto rosso che scambiava effusioni amorose con un soldato romano. Da prima si sentì umiliato, ma poi ebbe un moto di soddisfazione considerando che, se fosse stata lei a rompere il fidanzamento, non avrebbe dovuto scontentare i genitori facendo la parte del figlio egoista e disobbediente. Perché di sicuro non l’avrebbe sposata, era spiacente, non provava per lei che affetto e stima e questi sentimenti non potevano bastare a benedire un’unione per sempre. Anzi, il tempo trascorso con lei era divenuto insopportabilmente tedioso e gli scambi di tenerezze non erano meno delle maschere di quel ballo dietro le quali ognuno nascondeva l’autentico se stesso. A un tratto, guardandosi attorno, vide la sua immagine riflessa in uno specchio sopra una consolle dorata: era in mutande! Si era dimenticato d’indossare il costume. Ora tutti ridevano di lui…alcuni invece lo guardavano indignati e gli indicavano perentoriamente la porta d’uscita. Tra questi riconobbe suo padre che lo osservava con un’espressione di pena e vergogna dietro la maschera blu che gli copriva il viso. Quando si svegliò erano quasi le tre. Alla televisione spiegavano le equazioni differenziali. Andò a letto sperando di riprendere sonno, ma l’agitazione prodotta da quel sogno gli impediva di addormentarsi, così lesse le carte della sua relazione fino all’alba e ne corresse gran parte.

Alle otto del mattino era già al bar di fronte all’ospedale. Di fianco a lui Giolitti, il collega tisiologo, gli parlava con voce rauca e imprecisa di chi beve superalcolici da mattina presto.

Mentre prestava scarsa attenzione alla conversazione, un formicolio, come d’innumerevoli punture di spillo, gli invase il viso. Un fenomeno del genere accade quando ci si espone a temperature bassissime, ma il bar era ben riscaldato, fuori la giornata non era freddissima e prometteva delle belle ore di sole. I rumori attorno e le voci dei frequentatori gli giungevano da lontano. Gli pareva di essere un estraneo che spia da una porta socchiusa. Salutò il collega e uscì dal bar. Ora il viso era divenuto insensibile e un peso gli gravava sulla faccia.  La luce del giorno gli era insopportabile e mentre procedeva verso l’ospedale a occhi chiusi: “Toglietemi la maschera” gridava graffiandosi selvaggiamente il viso. Fu soccorso dai portinai richiamati dalle urla. Visto il sangue che gli imbrattava le mani e il viso, chiamarono il pronto soccorso. Il dottor Alberti fu caricato su un’ambulanza e trasportato cinghiato per il breve tratto che lo separava dall’ambulatorio delle emergenze. Quando aprì gli occhi, quattro mani robuste gli immobilizzavano le braccia e le gambe.

A stento riusciva a respirare a causa della disperazione che si era impossessata di lui. Riconobbe la stanza numero cinque: “Ancora Salerno e Pizzalunga” pensò mentre la mente sprofondava nel sonno dei barbiturici.

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