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al testo di Emilia Filocamo
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Papà, una domenica volevi mettermi al trotto: in salotto il maneggio, l'argenteria luccicante la chiostra fredda del drago, la faccia del coccodrillo. Per staccionata una sola ringhiera. Sulla sella superba, duna di plastica e senza pelo, una banda color saraceno uguale uguale alla pelle di Ken, salivo insicura. I piedi, cuccioli tra il feltrino e la ciappa azzurra, tremavano a turno. Ero a qualche centimetro dal tappeto color bocca di donna eppure tremavo, con te che mi incitavi a tenere il passo, a dondolarmi: così facevano in cento altre stanze altri cento bambini. Papà, tutti ci stavano intorno ed io nel mezzo, meridiana non alta un metro, orologio con le lancette blu di blu e le unghiette brevi. Al centro, si. Come la ballerina del carillon, il buco della ciambella e tu con i tuoi " Oop!" mi davi il tempo, metronomo di un metro e novanta, tutto negozio ed Alfa sud bianca, squalo bianco col muso prominente e le interiora calde, tu dentro pilota e nocchiero, sub e cacciatore, le ray ban pulite ed i baffi inquadrati, due parentesi in grassetto sulle labbra signore da Vomero. Papà tu mi volevi ambiziosa ed impettita sulla schiena toffee del nuovo inquilino comprato, ricordo, nella Napoli che ci piaceva, la Napoli dei venerdì e del pesce impiattato in silenzio al Sarago vip. Ma io scivolavo, poi rimbrottavo l'alieno e piangevo, volevo la terra e la terra già mi chiamava con il suo profumo di acqua e di pace, di orizzontale, di vermetti tra le anse scure. Così mi prendesti in braccio e giù sul tappeto con i piedi felici e la gola finalmente asciugata dal pianto. Mi accarezzasti e punisti nell'angolo a nord, fra la porta ed il comò, il cavallino mostruoso, lui che mi aveva nitrito spaventoso il suo bu. Quel bu adesso non ha più criniera, speroni, sellai, le stalle sono vestite di jeans e rassicuranti quanto lo sguardo del lupo. Ed io piantata ancora sul pavimento, avvitata radice più buia che alta, aspetto sempre ed aspetto un po' di vento per dirmi finalmente spuntata.
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