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al testo proposto da Franca Alaimo
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La lingua è ospitale. Appartiene, certo, a tutti quelli che l’hanno abitata e la abitano con la parola e la scrittura, appartiene a tutti quelli che l’hanno edificata e la edificano con l’esercizio e l’invenzione. Ma, allo stesso tempo, essa è transitabile, aperta a ogni approdo, a ogni interrogazione, a ogni appropriazione. Gli uomini e le istituzioni, che hanno disseminato sulla terra linee di confine, muri divisori, recinti e staccati, hanno per fortuna lasciato la lingua libera da difese, da divieti di transito, da reti di recinzione. Chiunque può attraversare le sue regioni, soggiornare nelle sue sale, attingere al suo tesoro. Una lingue è di chi la condivide, dunque anche dello straniero che l’apprende, che se ne appropria per la sua comunicazione, o per la sua narrazione, o per i suoi pensieri. Regole, forme, testi letterari e scientifici che l’hanno alimentata e tenuta in vita e reinventata, tutto quel che appartiene a una lingue può essere attraversato. E’ nella lingua – qualche volta purtroppo soltanto nella lingua – che un paese mostra la sua disposizione all’accoglienza. Perché la lingua per natura è ospitale. Questo lo sanno soprattutto i poeti: la loro lingua è la terra di un’avventurosa e arrischiata esplorazione tesa fino all’impossibilità e all’invisibile, ed è anche la casa dove tutto quello che è escluso e abbandonato è invece accolto, sottratto alla polvere dell’oblio, restituito a una nuova presenza: presenza di suono, di immagine, di ritmo, di figura. Baudelaire nel poème intitolato Le Cygne ha messo in scena questa disposizione propria della poesia: quel che la civiltà condanna all’assenza di nome, e di vita, il poeta chiama alla vita della lingua, alla vita della poesia.
(da: Antonio Prete, All'ombra dell'altra lingua. Per una poetica della traduzione, Bollati Boringhieri)
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