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Artigianato sentimentale di Gabriele Borgna

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Gabriele Borgna, Artigianato sentimentale, puntoacapo Editrice, 2017

Prefazione di Giuseppe Conte

 

Scorrete questa prima serie di lemmi: amore, labbra, corpo, cuore, baci, sguardi complici, passione inusitata, abbraccio. Poi questa seconda: sabbia, salsedine, vela, mare, oceano, agave, rosmarino, palme, scogli.

Tornate al titolo, originale, e non faticherete, con la prima serie, a declinarne l’aggettivazione sentimentale.

Per collegare la seconda, nitida e inequivocabile serie di vocaboli del poeta ligure, al sostantivo Artigianato devo fare un giro appena un po’ più largo, ed evidenziare quel “lavoro di intaglio e cesello sulla parola” che pertinentemente usa Michele Paoletti per descrivere la scrittura di Gabriele Borgna (Laboratoripoesia.it del 17 ottobre 2017). Un lavoro materico, fatto di gesti precisi, di materie prime, un lavoro di bottega, di “stanza sulla pubblica strada”, di deposito e manifattura delle merci del luogo. E il luogo, nella poetica agli esordi del poeta di San Maurizio, oltre che essere chiaramente nominato, funge da corridoio spaziotemporale per la sua poesia, da cordone con la tradizione, da voce del nume. Dalla Prefazione di Giuseppe Conte alle già numerose note critiche che il giovane poeta si è guadagnato, sono plurinominali i padri della tradizione ligustica (dai concittadini Giovanni Boine, Cesare Vivaldi, lo stesso Conte, agli imprenscidibili Novaro, Sbarbaro, Montale), per cui ritengo non vi sia, per ora, molto da aggiungere su tale aspetto, una volta che gli si sia data la giusta importanza che merita e che spinge Elio Grasso a dirne come di “un autore che fa della sopravvivenza linguistica la misura del suo scrivere.” (Blanc de ta nuque, 17 ottobre 2018).

La raccolta si struttura in due sezioni Amori in rilievo e Solitudini da piombo, (anche i titoli delle sezioni sono alquanto indicativi), nelle quali sono equamente ripartiti i trenta testi complessivi della esile raccolta, i quali, per la gran parte, hanno vita e autonomia propria, pur partecipando armonicamente a un discorso ampio che riconosce due tempi o, almeno, due territori.

 

Il testo di apertura merita una citazione integrale, perché – come un seme – contiene già tutti gli ingredienti dello sviluppo poetico dell’Autore: il luogo, la nominazione dei suoi essenziali, la tensione musicale, l’afflato emotivo, una certa distanza dalla contemporaneità. Mi colpisce, tra l’altro, quel distico centrale (Attraverso nuvole/ cariche d’incognite la natura ci parla) che pare, in questo contesto, una versione locale, detto in senso valoriale, dell’universale e baudelairiano La Nature est un temple où de vivants piliers/ laissent parfois sortir de confuses paroles di (non a caso) Correspondances

 

A Ca’ de Jose

(au port)

 

Sdraiamoci nel ventre di questa cesta

d’aspra terra, dove i nostri amori

in bianco e nero dormono ancora

senza respiro, senza passare.

Lo senti l’odore del silenzio?

Esso ti ascolta. E tutto di te

scopre ed impara accovacciato,

baro nascosto

tra l’agave e il rosmarino.

Attraverso nuvole

cariche d’incognite la natura ci parla

dentro agli occhi, scrivendo il cielo

con rondini e ideogrammi.

Aiutami a impiccare ogni

singola afflizione ai fili

delle stese, educate all’inchino

duro dalla tramontana.

Riportami per mano

agli albori dei sogni di sabbia

quando respirando con lentezza il mare

ci promettemmo salsedine a vita…

 

Nella prima sezione gli amori vengono posti in rilievo con differente luce, con vario sentimento, che oscilla tra speranza di ciò che si vorrebbe che sia e quanto poi in realtà è.

Due polarità sembrano illuminarsi più d’altre: la speranza d’eternità (checché se ne dica importante ingrediente dei grandi amori) e le dilagate incomunicabilità e insincerità (checché se ne dica ingredienti base degli ex grandi amori).

Così a versi come:

 «Albero del pane [antico, miracoloso pane – p. 12], acqua pura […] vela per il viaggio/ che ha rotta nel tuo nome» (p. 10),

«Io per te sarò un oceano, un eterno/ flusso senza fine» (p. 13)

«foglio/ non ancora scritto dove tutto/ può ricominciare» (p. 22)

fanno da contraltare (conseguenza?), presagiti da un’ambigua illusione, toni ben differenti:

«Amore sconosciuto e bugiardo il nostro» (p. 18)

«Mentiremo/ per non sentirci bugiardi» (p. 19)

«E tu […]/ inganni con giaculatorie e litanie» (p. 21)

«E allora adesso/ mentimi amore, mentimi ad oltranza. Dimmi un’altra volta – t’amerò per sempre -/ dillo eternamente» (p. 23).

 

La sezione si chiude con due testi significativi, Al figlio che verrà, grandiosamente definito «il rovescio del nulla» (p. 25) e Piazza chiesa vecchia (au Port) dove, quasi riassumendo, le eco esteriori del luogo e quelle interiori si fondono.

 

Non mi è dato con certezza sapere se le due sezioni sono state composte in (o solo narrano di) stagioni diverse. Credo e spero di sì. Infatti, se nella prima sezione alcuni testi, o meglio: qualche verso in essi, risentono ancora di un lieve sbilanciamento tra intensità del vissuto e resa letteraria (sono certo che il giovane poeta artigiano, umile e appassionato, valuterebbe le imperfezioni del manufatto più interessanti delle parti riuscite) nei testi di Solitudini di piombo il verso si fa ancora più incisivo, le scelte lessicali e le figurae (usate a lampeggii, più che ad ampi panneggi) più dense e originali.

Ricordate le due serie di nomina? Quelli “liguri” e quelli “sentimentali”? Bene, ve ne offro una terza, magari più aggettivata: burrasca, tempesta, naufragi, dolore, baratro vertiginoso del rimorso, infernale abisso, campo di croci, pianti tra i denti, atroce solitudine, smisurato orrore. Questi tinte plumbee, prevalentemente repertate nella seconda sezione, mi pare aiutino a definire bene, in sintesi, il palinsesto della narrazione del poeta, tra amori - coinvolgenti, illusori, conflittuali – e la loro assenza, tradotta in una sofferta, a tratti incredula, solitudine che, negli ultimi testi Razza e Safari, raggiunge l’acme dell’amarezza, di un dolente pessimismo, dilagante fin verso i confini della stessa umana natura. Molti sono le situazioni e i testi interessanti di questo secondo gruppo. Ne scelgo uno, vivido, nel quale bene si rappresenta, inoltre, una delle metafore più affioranti ed efficaci della raccolta del giovane poeta ligure, il deserto (p. 40):

 

Non ci indurre

 

Com’è difficile mio Dio,

la prova a cui mi sottoponi

nel Sahara di questo isolamento.

Con quanti miraggi di repulsione

mi spingi a urlare, rendendomi pazzo,

e quanto sale mi metti sui nervi scoperti!

Una borraccia piena di sete mi dai,

ed è un bere crudele

alla mia gola già ulcerata.

Vuoi che liberi e mi fai catena

vuoi che lenisca e mi fai tenaglia

vuoi che punisca e mi lasci il cuore…

 

Ma tutto ciò – poi – per quale amore?

 

 

Alfredo Rienzi,

giugno 2019

 

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