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Siesta

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È l’ora di lucidità spietata
quando non interrompe anima viva
il filo delle vie tagliate a squadra
per tutto l’entroterra fino ai moli
E un lampo come d’ali che saetta
nell’aria e scherza lungo le cornici
mette in croce chi regge a occhi sbarrati
nel tempo della siesta questo assedio
dell’acqua dalle darsene e i canali:
quei pochi che la vigilanza esige
lungo i muri della dogana o fermi
nelle garitte, privi anche del filo
di sonno sotto fogli di giornale
o sacchi di juta presso le gru e i ponti.

Da dietro queste sbarre di serranda
vivo tutta minuto per minuto
da sveglio questa esitazione atroce
tra il mio mattino e la mia notte; al più
fo come fa il ragazzo irriducibile
che va e viene nel suo andito buio,
smania, pilucca l’uva ancora verde
dalla pergola dietro casa, affretta
l’ora della sortita e del declino.

Mia madre, mia eterna margherita
che piangi e mi sorridi
viva ora più di prima,
lo so, lo so quel che dovrei, pazienza
di forte non è questa ostinazione
d’uomo che teme la sua resa. Forza
è pace. Il sopore che s’insinua
nell’ora giusta fra due giuste veglie
è forza anch’esso, non viltà. Ma ormai
che i tuoi occhi mi s’aprono
solamente nell’anima, due punti
tenaci al fondo del braciere
con cui guardare tutto il resto, o santa,
non è il taglio a fil di lama
che partisce ombra e sole in queste vie
puntate contro il fuoco
del mare all’orizzonte, è un altro il segno
a cui dovrò tener fronte, segno
che ferisce, passa da parte a parte.

(da Dal fondo delle campagne, Einaudi, 1965)

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