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"La formula di Twitter e Facebook
Nel cervello si attivano le stesse aree di cibo, denaro e sesso"

Se parlo di me godo. Quale magia del piacere si annida nelle parole? Cosa c'è nel raccontare di sé che mi fa stare così bene, dal volerne ancora e ancora, e dal costringermi a sproloquiare con esternazioni sterminate decisamente poco ecosostenibili in un ambiente già troppo affollato di tribuni sprovvisti di orecchi? Ora lo sappiamo. Due neuroscienziati di Harward, Diana Tamir e Jason Mitchell, hanno scoperto che nel dare sfogo alle nostre confidenze stimoliamo le stesse zone del cervello che si attivano per il piacere del cibo, del denaro e del sesso. L'aumento della dopamina nelle aree mesolimbiche è il medesimo. Nello studio, rivelato venerdì al Wall Street Journal, si dimostra (con tanto di test collettivi e risonanze magnetiche), che il quaranta per cento dei discorsi quotidiani di un individuo è dedicato all'espressione di pensieri e sentimenti privati.

La notizia è interessante perché ci dice qualcosa che avevamo già avvertito coi nostri modesti mezzi introspettivi, qualcosa che non sapevamo di sapere e che dà conto di una vera e propria isteria di massa: ovvero, tanto insisto per mettermi in luce, quanto vivo nella costante angoscia di non essere amato abbastanza. L'attenzione degli altri mi gratifica senza riuscire mai a saziarmi, né più né meno degli altri piaceri materiali. Il che crea un paradosso: l'aumento costante di spazi di comunicazione, soprattutto nell'universo della Rete, ha lo scopo primario di nutrire il mio egocentrismo. Penso ovviamente ai social-network. Non occorre interrogarsi troppo in profondità per scoprire che la socializzazione di Facebook e Twitter è per buona parte illusoria. A dispetto di un aumento di informazioni, sia in termini di numero che di frequenza, a dispetto di un allargamento del campo degli interlocutori (le nuove «amicizie»), l'intento comunicativo tradisce il mio bisogno di luce. In teoria dovrei parlare solo quando ho qualcosa da dire, in pratica dico sempre qualcosa. Mi esprimo, dichiaro, chioso, intervengo, posto, riposto, compio una serie infinita e inevitabilmente inflattiva di atti linguistici, perché questo mi provoca un'immediata sensazione di piacere.

L'immediatezza è il nodo di questa scoperta scientifica. Un tempo avrei partecipato a una discussione con l'idea di ricavarne un accrescimento a lungo termine, avrei preso il motorino, avrei attraversato la città per andare in un posto ad ascoltare gli altri. Forse, avessi avuto un'idea e il coraggio per esprimerla, avrei alzato la mano. La serata avrebbe generato in me effetti contrastanti e duraturi. Ora intervengo con un clic, e lo faccio per godere subito. Un bisogno di appagamento istantaneo che innesca il digitare compulsivo. Eccomi al semaforo intento a twittare su quanto fosse freddo il cappuccino che mi hanno appena servito al bar. Eccomi al semaforo successivo intento a controllare le prime reazioni.

Di primo acchito, una tale deriva cripto-solipsistica - sottolineo, paradossale - può essere addebitata alla nuova complessità del mondo esterno. Se la realtà mi assedia coi tratti sempre più inafferrabili e proteiformi dei suoi problemi, io mi rifugio nel monologo esteriore. Se le cose fuori di me si sono fatte illeggibili, io leggo me stesso, ripasso senza posa l'unico centimetro del pianeta di cui so abbastanza. E ne faccio spamming. Beninteso, il fenomeno è molto meno rozzo di come lo descrivo: moltissimi di noi sono diventati efficienti agenzie di informazione che erogano in tempo reale notizie sulla guerra civile siriana, sull'affermazione degli ebook, sull'oscenità delle pale eoliche, sull'ultimo provvedimento fiscale di cui indignarsi. Ma quasi nessuno lo fa davvero per questo. Inutile dire che anch'io in questo momento, a un livello neanche troppo subliminale, scrivo per placare il mio narcisismo e gettare un'altra verginella innocente nella sua bocca spalancata. E non c'è dubbio che affrontare il mondo là fuori è un'esperienza faticosa, per non dire sconcertante. Ma se ce ne restiamo tutti in casa ad aggiornare i nostri profili, se continuiamo a espellere enunciati per il gusto di sentire come suona la nostra voce, che possibilità ha il mondo di spiegarci le sue ragioni?




(tratta da http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/12_maggio_12/-ecco-perche-parliamo-di-noi-formula-twitter-facebook-covacich_3114bcd0-9c08-11e1-a2f4-f4353ea0ae1a.shtml)


 Loredana Savelli - 17/05/2012 07:08:00 [ leggi altri commenti di Loredana Savelli » ]

a Lorenzo.
Grazie del tuo generoso intervento che condivido in pieno. Buona giornata.

 Lorenzo Roberto Quaglia - 16/05/2012 23:08:00 [ leggi altri commenti di Lorenzo Roberto Quaglia » ]

L’articolo di Mauro Covacich offre diversi spunti di riflessione e ti ringrazio per avermelo segnalato.
In effetti in questo periodo mi sto sempre più interessando ai temi della rete, di internet e di come questo “nuovo” mondo sta cambiando / ha già cambiato la nostra esistenza. A proposito di ciò ti segnalo due libri recentemente pubblicati e di cui ho scritto anche su La Recherche: Il profumo dei Limoni di J. Lynch e Cyberteologia del S.J. Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica e mio amico su FB (come te del resto)! In essi si trovano spunti e riflessioni veramente originali che portano a vedere il nuovo mondo comunicativo digitale in modo diverso dai pensieri stereotipati che siamo soliti leggere sui giornali.
Non voglio con ciò negare l’affermazione iniziale di Covacich: a chi non piace essere al centro dell’attenzione, considerato, ricercato, coccolato, amato? Con i social network tutto questo si ottiene con una facilità e con un raggio d’azione mai visto prima. Un mio pensiero, non importa se intelligente o stupido, può essere letto dall’altra parte del mondo un secondo dopo che l’ho scritto e pubblicato in rete. Quando si è mai verificato tutto ciò, prima d’ora? Il problema, come rileva Covacich, è il contenuto che viene pubblicato. Ma qui si inserisce una caratteristica del nuovo mezzo di comunicazione (il social network): è di massa. Ossia, basta avere uno smartphone sempre acceso in tasca e sei sempre connesso alla rete e puoi ricevere ed inviare messaggi in tutto il mondo. A questo punto il problema è del ricevente. Se tu scrivi su FB messaggi personali e privati, probabilmente questi interesseranno solo ad una ristretta cerchia di tuoi amici e non avrai altri “amici” che interagiscono con te. Viceversa se si utilizza il mezzo per trasmettere pensieri, commenti, segnalare notizie o avvenimenti diversi, allora vi è un utilizzo più sociale e se vogliamo etico dello strumento che produce un ampiamento della base della conoscenza comune del gruppo di amici con i quali si interagisce e molto probabilmente questo numero sarà destinato ad aumentare con il tempo. Si crea cioè una community che ha gli stessi interessi e vuole conoscere o approfondire nuovi mondi, frequentando nuove persone. In questo vedo un valore aggiunto del social network che funge da stimolo e motore sociale.
Il tutto chiaramente rimanendo su un piano di assoluta “normalità” vale a dire di un utilizzo “secondo la norma”, secondo la legge, secondo il metodo che detta l’oggetto stesso. Se lo strumento diventa “assoluto” e l’utilizzo del social network prevale su tutte le altre forme di socializzazione, allora si entra in un campo patologico, purtroppo legato soprattutto ai giovani in età adolescenziale che vedono nel social network un rifugio, una tana sicura dove seppellire le proprie paure e insicurezze. Non dimentichiamo infatti che nel social network quello che manca è la fisicità della persona, l’odorato e il gusto. Tre dei cinque sensi che ci mettono in rapporto con la realtà non sono presenti nei social networks. E questo deve in qualche modo far riflettere.
Sono tantissimi gli spunti di riflessione, ma non vorrei monopolizzare lo spazio che mi è concesso! Per esempio il concetto di amicizia sui social network, oppure il concetto del tempo che nei social network rischia di diventare l’istante.
Covacich termina con una domanda, se siamo troppo concentrati su noi stessi, come possiamo ascoltare quello che avrà da dirci la nuova alba che sorgerà domani?
A mia volta chiudo questo intervento con una riflessione che tiene aperta la domanda: la rete è come un nuovo mondo, il nuovo mondo del XXI secolo, creato dagli uomini e quindi per gli uomini. Sta a noi popolarla e viverla portando in essa i nostri desideri e le nostre speranze che sono poi sempre le stesse che desideriamo e speriamo negli altri mondi che occupiamo: il desiderio su questa terra di imparare ad amare e di prepararci a morire, trovando magari in rete qualche compagno di viaggio con cui condividere la strada…

 Alessandro Mariani - 13/05/2012 12:18:00 [ leggi altri commenti di Alessandro Mariani » ]

Ti ringrazio per la proposta Loredana. Mi ha giovato molto leggerne. Posso solo riportare la mia esperienza personale. Ho un profilo Facebook ma, siccome ho pochissimi amici ( sia nella vita reale che in quella digitale ) e sono abbastanza timido, lo uso per condividere con mia sorella gli articoli che scrive per Grazia. Non ho twitter. Non ho molta esperienza, avendo frequentato poche persone che compulsano Facebook dalla mattina alla sera. Da giovane posso dire che anch’io sento il bisogno di avere " qualcuno" ( e per me questo " pubblico" siete voi amici de LaRecherche), in parte perché chi scrive non scrive mai solo per sé stesso ( Getrude Stein dice che scriviamo per due persone: noi e gli altri), in parte perché è sempre bello avere un feedback su quello che si fa. Penso che chi scriva su Facebook quello che ha fatto due ore prima senta il bisogno proprio di questo feedback.
Sempre per ritornare a me, ho notato come condividere quello che scrivo non solo mi spinge a cercare nuove soluzioni - che non sempre funzionano - ma a badare di meno alla qualità pur di avere qualcosa da dire. Non so se succeda a qualcuno oltre a me. Sicuramente questa facilità mi penalizza, ma gratifica molto allo stesso tempo.
Conoscendo poco il problema, alla fine deduco sia la gratificazione ad essere il centro delle cose.

 censa cucco - 13/05/2012 09:50:00 [ leggi altri commenti di censa cucco » ]

condivido il testo e ribadisco che tutto ciò che ci dàpiacere non è certo patologico anzi, dipende dall’uso che se ne fa... io credo che il pericolo consiste nell’evitare la realtà esterna troppo complessa e difficile per rifugiarsi in internet... se fra tutte le parti della nostra giornata c’è equilibrio ben venga internet e i siti che ci danno piacere...

 Loredana Savelli - 12/05/2012 22:43:00 [ leggi altri commenti di Loredana Savelli » ]

Grazie Luciana!
Se ho proposto questo testo, a mia volta giratomi da mio marito, è perché mi sento coinvolta in questa riflessione, io personalmente. Ho risposto a mio marito più o meno come te, anche se non con la stessa competenza. Bisogna distinguere tra comunicare ed essere autoreferenziali, talvolta addirittura in modo patologico. Certamente bisogna vigilare, il fenomeno è nuovo e forse un giorno "ci" studieranno. Vigilare, vigilare, vigilare. Essere lucidi su se stessi, sui propri bisogni, sulle proprie modalità comportamentali, sul modo di esprimersi, ma non uccidere la finalità che c’è dietro. Essa secondo me E’ SANA.
Siamo la prima generazione "connessa", forse tra cento anni il mondo sarà più solidale e tollerante, forse la democrazia si affermerà in tutto il pianeta. Sono sogni, ma intanto l’umanità cerca in tutti i modi di riconoscersi, di "appartenere". Credo che si possa arrivare ad abbattere le frontiere della diffidenza e della paura ANCHE con i social network.
Io credo nelle "magnifiche sorti e progressive" e nello stesso tempo faccio autocritica, cerco di farla. Non potrò rinunciare a cercare persone che vogliono essere in contatto, con cui condividere Valori e Passioni.

p.s. Anche mio marito, dopo alcune resistenze iniziali, è su facebook e in certi blog di suo interesse. :)

 Luciana Riommi Baldaccini - 12/05/2012 22:28:00 [ leggi altri commenti di Luciana Riommi Baldaccini » ]

"L’aumento della dopamina nelle aree mesolimbiche": non fa una piega affermare che abbia luogo ogni volta che una nostra attività, di qualunque genere, ci procura piacere, come accade, in varia misura, con il cibo, il denaro, il sesso. Ma provare piacere (e produrre un certo aumento di dopamina) non significa necessariamente essere dipendenti da quel piacere: qui entriamo in una sfera patologica che riguarda qualunque forma di dipendenza. Il fenomeno della dipendenza dai social network è altrettanto innegabile, tant’è che in Giappone ci sono centri specializzati per la cura di questa patologia, che colpisce in particolare i giovanissimi. Ma non credo sinceramente di dovermi definire patologicamente dipendente se provo piacere nel leggere un commento favorevole a un mio testo o a un mio post su fb. Esiste fin dall’inizio della vita in ciascuno di noi un "sano narcisismo" che ci permette di continuare a sedimentare gli apporti positivi provenienti dal mondo esterno e capaci di rassicurarci, gratificarci o anche metterci in discussione (se abbiamo imparato ad accogliere le eventuali critiche come fattori ulteriori di crescita). Il problema si presenta quando la ricerca di tali apporti diventa compulsiva (ma non tutti mangiamo, facciamo soldi o sesso compulsivamente) e quando il nostro mondo si limita a quella sfera da cui siamo particolarmente attratti: potrebbe essere anche il pianerottolo di casa, invece di twitter, dove trarre compulsivamente piacere dalla considerazione di vicini compiacenti.
Il fenomeno dunque esiste, ma non si deve generalizzare e non si deve demonizzare nulla. Si deve solo vigilare, su noi stessi e sui giovani, non per vietare o limitare una qualche attività, ma per interrogarsi, nel caso di un eccesso, sulle insoddisfazioni, le paure, le insicurezze ecc. che possono inconsciamente motivare alla dipendenza patologica da un’unica fonte di soddisfazione, che nel caso in questione è di natura puramente virtuale. C’è da dire, infine, che ho visto aumentare nel tempo i casi di dipendenza patologica, anche nel cosiddetto mondo reale, per esempio le dipendenze affettive. Ma la causa non è mai in ciò da cui si dipende.

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