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     Come solito mi arriva da terzi la notizia subdola di essere stato intervistato su un noto settimanale cittadino: fisiologicamente, io sono sempre l’ultimo ad averne contezza. Per dare la bella notizia – a Monza non mi metterebbero su un quotidiano nemmeno se rapinassi una banca- chiamo i miei alle 22.00 di un mercoledì sera. Il telefono suona. Subito ravvedutomi, cerco di interrompere disperatamente la linea: risponde mia madre; dopo un tragico tentativo di fingermi una centralinista della Telecom dall’accento moldavo, con esiti inconcludenti, decido di assumermi l’intera responsabilità del mio fatalissimo errore: «Ma’, sono io»; «Chi è morto a quest’ora di notte (cfr. 22.00)?!?», strilla allarmata; «Giuro: io no, davvero. Se vuoi ti faccio chiamare da Ambra come testimone»; «No, ci credo». La butto lì: «Ma’, sto sul giornale»; lei: «Quale? Cosa hai fatto?!?», ulula in un acuirsi di allarmismo materno; «Niente: mi hanno messo sul Giornale di Monza. Avete letto?». Con fiera umiltà, la donna che renderà il mio futuro figlio nipote di una nonna estremamente infelice, incalza: «Sai che io odio leggere»; io, caduto nella trappola semantica, «Sì, ok. C’era anche una foto»; lei: «Bruno – chiamando suo marito seduto a dormire davanti alla televisione- tuo figlio è sul giornale!». Dalla cucina si sente: «Sul Corriere non c’era…»; mia madre: «Dice che non sei sul Corriere»; io, nella solita progressione inarrestabile di illogicità: «Ma’, non ho ucciso Gheddafi!»; lei: «Ma stai in Tunisia?»; io, con massimo sfoggio di idiozia, «Al massimo in Libia»; lei, rivolta alla cucina (a suo marito o a Mastro Lindo): «Quel disgraziato di tuo figlio è in Libia e nemmeno avvisa i suoi genitori, che sacrificherebbero ogni cosa alla realizzazione del suo benessere »; Mastro Lindo: «Cosa ci fa in Libia?»; io, esasperato: «Ma’, non sono in Libia: sono semplicemente uscito sul Giornale di Monza»; lei: «L’ho buttato via ieri: vado a recuperarlo. Bruno, cerca nella spazzatura della carta il Giornale di Monza di ieri: c’è dentro Ivan». Si sente uno sciabattare rumorosissimo, il rimestare in un sacchetto di carta, e lo spiegarsi di un giornale sul tavolo della cucina: «Ieri – dice, in sottofondo, il marito di mia madre - ho letto Il Giornale di Monza e non ho trovato Ivan»; io, cercando di chiudere l’incomunicazione: «Forse mi hanno detto una scemenza: lasciamo stare». Mia madre: «No, adesso sono curiosa di comprendere dove ti hanno messo»; «In cronaca?», si sente dal sottofondo; «Pa’», dico con la mediazione culturale di mia madre «rapine, stupri, violenze e incendi di norma non ne faccio. Poi, nel malaugurato caso, vi avrebbero avvisato i Carabinieri»; mia madre: «I Carabinieri?!?!?», allarme di terzo grado della scala Montessori, «Nemmeno da ragazzino sei mai tornato a casa accompagnato dai Carabinieri!»; io: «Ma’, era un modo di dire. Che sono, Pinocchio? Secondo te sto sul Giornale di Monza nella cronaca nera?»; lei: «Che ne so di chi sei figlio, e cosa combini fuori da questa casa!»; «Come che ne so di chi sei figlio?», ribatto stizzito, «Che è, ho atteso d’essere uscito da casa al darmi alla criminalità organizzata?»; «Per fortuna che c’è Ambra con te, che è una brava ragazza», afferma mia madre sconsolata; «E che, io sono il mostro di Firenze?!», ribatto con sempre maggiore stizza; lei: «E che ne so io?». Si sente una voce arrivare dal tavolo della cucina: «In cronaca nera non c’è: c’è la foto di un albanese che ha investito un cane. Però non sembra lui…»; urlo: «Mo’ sta a vedere che sono diventato albanese!»; mia madre: «Bruno, no, Ivan non è mai stato albanese». «Politica niente», si sente dalla cucina; mia madre: «Lo sappiamo che non è mai stato ambizioso: tuo figlio è un grandissimo inconcludente»; «Ma’», sussurro senza convinzione, «sono anarchico»; lei, categorica: «sono tutti anarchici: hanno il senso della carriera, a differenza tua». Per tagliare corto, sorrido: «Comunque siamo sicuri che non sto nei necrologi»; mia madre, con sicumera: «Come fai ad esserne così sicuro?»; io: «Dovrei essere morto»; sento silenzio, un rumore stridente di annientamento mentale, e lacrime: «Lo sapevo: sei morto. Prima la nonna, dopo la zia, e adesso tu». Lacrime incontenibili. «Ma’ – strillo- come diavolo faccio a essere morto, sto al telefono, con te»; lei: «Dunque non credi in una vita nell’aldilà?»; io, raggelato: «Con che compagnia telefonica?», dico metallico, con cattiveria, «Adesso me lo spieghi»; dalla cucina: «Gianna, che cazzo dici, tuo figlio è al telefono: cortesemente, non diciamo sciocchezze, io sono stanco, lavoro sul banco settanta ore al giorno. Non diciamo cretinate!»; mia madre: «Hai visto bene tra i necrologi?»; voce in cucina: «Sì: non c’è». Per un minuto si apre in me lo spazio filosofico dell’interrogazione esistenziale: in questo momento è meglio essere vivi o morti? «Il Monza è fallito», dice la voce dalla cucina; «Pa’, io non c’entro», dico, «ultimamente le aziende che mi assumono, in effetti, falliscono in venti giorni… Però non sono stato assunto al Calcio Monza». Balzando in groppa al toro, taglio corto, con rapidità felina: «Non sono un colonnello dell’Aeronautica, ergo non sto nel Meteo; non sto, fortunatamente, nella Guida Tv; cosa manca?», affermo baldanzoso con un sorriso compiaciuto; mia madre: «Bruno, cosa manca?»; Bruno: «Niente»; io: «Le pagine della cultura?!». Sento un silenzio di sfondo, mia madre che va in cucina, un borbottio incomprensibile e, dopo cinque minuti di camera di consiglio, un’affermazione: «Non ci sono»; io: «Pa’, facciamo mente locale: quando hai comprato il giornale dal giornalaio, c’erano?»; lui: «Sì»; io: «Quindiiiii?»; lui: «Quando inizio a leggere il giornale le tolgo e le butto». Io, in rigoroso deluso silenzio, sento mia madre, lontana: «Le pagine della cultura? Te l’ho sempre detto: tuo figlio non è ambizioso». Attacco. Il che è bello e istruttivo.

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