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Amelia

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“Allora, sei contento ?”Chiese mio padre nuovamente, dopo aver appoggiato all’albero la  bicicletta sbilenca ed estratto il fazzoletto per nettarmi il viso imbrattato di  liquirizia. Io risposi di si che glielo aveva già detto. ” Ma la mamma?” ché le zie erano brave come anche i cugini, specie Amelia “è come un angelo sai?” Lui sorrise raccomandandomi di essere perbene, già sulla bici a pedalare con la testa girata, così da salutarci fino alla curva in fondo allo stradone. “Io la amo Amelia, papà...” sussurrai accorato .Come se udisse ancora e mi potesse dire che approvava. Senza saperlo cosa fosse l’amore. Ma per quell’istinto o intuizione che appartiene ai fanciulli, quando l’avevo veduta e mi dissero “lei è la tua  cuginetta Amelia, ha i tuoi anni”, e venne a baciarmi dritto sulle labbra, ebbi la certezza che quella stretta che avvertii al cuore fosse il dolce sentimento che, per l’appunto, si chiama amore. Poi fummo accanto, alla grande tavolata. Così vicini che i nostri corpi si toccavano, e le mani si intrecciavano a stringere una tenerezza che avevamo dentro. “Sei così bella che sembri un angelo “, le sussurrai nell’orecchio nascosto nelle ciocche bionde. Soltanto questo mi riuscì di dirle quella prima sera, nella vicinanza che ci rendeva amabili a tutti, specie alla zia che mormorava “che belli, che belli,” come una cantilena. Ed era la timidezza, anche, ma di più la sua superiorità per niente un sussiego esternata dall’azzurro dello sguardo se io, Giulio nove anni appena, mi ero sentito fin da subito felice, vittima di un fascino che mi dominava: intenso e sublime, mi sembrava. E perché non apparisce una qualche sudditanza, azzardai un gesto che immaginavo adulto: sfiorandole dapprima il fianco, poi accarezzando la sua gamba poco al di sopra del ginocchio dove termina la calza. Amelia apprezzò, perché serrò la mano tra le carni, donandomi la consapevolezza della sua riconoscenza. Nella stanza, nel grande letto condiviso, chiesi a Lea perché soltanto Amelia non parlasse quasi mai il dialetto ” non assomiglia agli altri “. Mia sorella borbottò che non lo sapeva, ma io intuì che mi stava mentendo.**“Andiamo alla palude?” propose l’indomani Amelia. Mi parlò di come fosse magico quel luogo incantato. “Pesci, uccelli, farfalle, serpenti, bisce e rane…vedrai vedrai quanti colori.” Così vidi cose che non avevo mai veduto estasiato dal canto della allodola nel suo tuffo verso l’acqua. Ci sdraiammo nell’erba ghiacciata e lei mi chiese di baciarci “non lo so fare!” arrossii, nemmeno io rise Amelia “ma impareremo, per queste cose non serve che si vada a scuola. E mi si sdraiò sopra tendendomi le braccia a terra per potermi baciare le labbra a piacimento. Risposi, pian piano in sintonia con quell’andare convulso che richiedeva concentrazione dapprima, poi disincanto avanti che il cuore si confondesse nella gioia. Rimanemmo il pomeriggio intero ad abbeverarci sulle nostre bocche poco esperte, Amelia strofinava inesistenti seni , io la avvinghiavo nella morsa delle braccia. Poi ci tuffammo nel cielo maculato di cirri e ascoltammo il vento respirare tra le canne. Quando il ranocchio gracidò vicino, Amelia lo prese e lo baciò gentile “un giorno diventerà un principe, e verrà a chiedermi in sposa.” Poi rise felice mentre mi accarezzava, io il suo innamorato di adesso. “Ne sei geloso vero?” domandò. Io rispose di no. Ma lo dissi soltanto per farle un dispetto di bambino.**Alla casa mi fece cenno di attendere. Si arrampicò sul davanzale della finestra bassa e, scostate le ante e guardato dentro, mi invitò a salire, mi issai e le fui accanto. Forzando lo sguardo vidi, in fondo alla stanza, una donna dai capelli bianchi avvolta in una vestaglia ciclamino dondolarsi sulla sedia. Quando Amelia invocò “mamma” lei si levò e venne verso di noi. Avanzava come un animale da cortile, incerta e timorosa, soffermandosi nel vuoto. Al nostro cospetto l’espressione del volto era mutata, la tristezza era scomparsa per un sorriso lieve quasi una smorfia sul volto devastato. Poi madre e figlia presero a dirsi cose sottovoce , io le guardavo con infinita nostalgia fino a quando, con occhi acquosi colmati dalla riconoscenza, lei mi sorrise toccandomi la fronte come fosse una benedizione. Che io ricambiai con la carezza, quella che si dona per un amore intenso. Poi scesi e mi avviai. Amelia mi raggiunse e le sfiorai la mano, lei singhiozzava con le lacrime dell’anima così che proseguimmo silenziosi. Più tardi l’abbracciai e la ringraziai di quel dono: “sei fortunata, dissi, a salire ogni giorno in Paradiso!” Lei replicò ” Zelinda è mia mamma …come l’angelo bianco di nome Zel!”, continuando verso il casolare stretti come due orfani intrisi di speranza. E l’amore fanciullo che ci aveva stregati continuò ad avvinghiarci sempre più perché ci eravamo impegnati per tutta la vita “da grandi ci sposeremo,” diceva Amelia, “e avremo figli belli come te,” rispondevo io. Una notte dormimmo entrambi accanto, Lea aveva acconsentito e la purezza dell’abbraccio durò fino all’alba entrata a svegliarci senza alcun rimprovero inopportuno. La primavera, eccola arrivata, aveva fatto fiorire anche la palude, così prendemmo a frequentarla per coglierne i fiori e i profumi. Gli uccelli d’acqua, rintanati nel canneto, si alzavano a salutarci come amici di sempre. Amelia ne conosceva i nomi e li distingueva dal canto o dal battere delle ali. Io cercavo di apprendere senza riuscire tanto che un giorno le confessai” tu conosci tutte le cose e sai sempre spiegare ciò che avviene…”lei allora mi abbracciò come si abbracciano i bambini .” Giulio ora è il mio bambino che non sa le cose adulte, domani sarà un adulto che conoscerà tutte le cose bambine.” E questa frase, della quale non capì il significato, mi trasmise la certezza che lei fosse superiore a tutti gli aventi, anche a quelli che accadono improvvisi e portano tristezza e malinconia, forse anche la morte, pensai.**Ma cosa era mai accaduto tempo prima? Che un giorno, dopo aver vagato nei d’intorni alla scoperta di una campagna senza tempo per quel non scorgerne mai la fine, fossi sbucato, dopo un viottolo di sassi, davanti ad un cancello arrugginito posto a chiudere un muro di cinta e, oltre a quello, un giardino incolto e abbandonato ma vasto con aiuole e fontane in sasso. In fondo una ricca casa di color verdino, una villa forse per via delle colonne e degli archi e di uno stemma in rilievo. Le serrande al piano alto sono chiuse, soltanto alcune aperte al piano terreno e dietro ad una oltre il vetro, va e viene una donna col grembiule bianco. Non so se inoltrarmi poi lo faccio, nonostante il batticuore, perché sono curioso e voglio conoscere le cose che vedo. Mi sono fermato accanto alla fontana, osservo la donna che mi ha notato e mi ha mandato un ciao, vorrei andare fino da lei ma qualcosa mi trattiene, il timore dell’ignoto ha il sopravvento, anche adesso, come quando da piccolo dormivo solo e temevo che i gatti mi ghermissero nel sonno. Sto pensando, senza un preciso motivo, a quell’età oramai lontana, forse quei ricordi riaffiorano quando il pericolo è in agguato come ora… nel silenzio di un giardino abbandonato. Un silenzio che opprime la mia volontà di iniziativa ma che poi, all’improvviso, si lacera con l’urlo disumano, lungo e triste, da animale ferito. Lo odo uscire dalla casa, vagare per i campi, rimbalzare tra i platani, alzare in volo passeri vocianti… lo sento spento quando la mia fuga termina tra braccia sicure. Adesso Lea deve raccontare, ne conosce la storia lo avevo intuito, “era una ragazza bella venuta, un tempo, per fare l’insegnante e andata in sposa al principe azzurro. Poi lui parti per combattere lontano… e come gli eroi morì. La bella ragazza impazzì per il troppo dolore che la relegò per anni in un ospedale. La piccola bambina, che le era rimasta, visse dapprima l’orfanotrofio, poi fu affidata ad una famiglia generosa. Lei questo lo sa, ora conosce le cose,  e ogni giorno va ad abbracciare la madre nella verde casa del giardino incolto!” Io ho capito fin troppo bene ma lo stesso chiedo una conferma, “parli di Amelia vero?” Lea dice di si, con gli occhi che piangono a lungo senza ritegno. Nell’approssimarsi del nostro distacco, Amelia un pomeriggio sentenziò,”questa notte dormiremo assieme, dobbiamo salutarci come si deve…”E così fu. Entrai nel suo letto. Si era tolta la camicia ed era nuda,”spogliati anche tu amore, l’amore si fa nudi!”Ci demmo un milione di baci, un milione di carezze, lei pianse, io piansi. Non avemmo la curiosità di esplorare le differenze di sesso:forse era una ricerca che non ci importava intraprendere per via che gli angeli non hanno un sesso, così qualcuno aveva stabilito per noi due.- e quell’amplesso puro e infantile, rimase nella mia anima per sempre: spesso mi fece soffrire, spesso mi fece gioire .”Quando saremo grandi, sussurrava Amelia, noi ci sposeremo e allora scoprirai che questa bambina non è fatta come te”, e intanto rideva felice come a dire ‘tu sei piccolo ora, non puoi sapere certe cose’.L’ho amata per tutta la vita Amelia, da lei ho introiettato l’amore che vuole essere amare e basta: senza una ricerca del tempo perduto.

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