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Il dodo

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mi sembrava di essere io stesso quello di cui

il libro si occupava: una chiesa, un quartetto…

M. Proust

 

 

Il giardino contiene le potenzialità inespresse di una abitazione.

 

La casa, la dimora di muri e suppellettili, rappresenta, in modo tangibile e concreto, l’ambiente di chi vi abita, i sentimenti e talvolta le contraddizioni. Le mura domestiche contengono il passato, il presente e creano le basi per il futuro. È il luogo che si sceglie per quello che riesce ad esprimere in termini di solidità, di concretezza, è l’alveo nel quale la vita scorre, tranquilla o tumultuosa ma comunque all’interno di un contenitore che si finisce per associare indelebilmente all’abitudine e da lì, per concretizzazione e stratificazione, all’essenza del sentimento legato al vivere. Invece il giardino, pur essendo cornice e sipario di ciò, resta, sia materialmente sia metaforicamente, esterno. Ma è ben lungi dal rappresentare un mero accessorio, esso incarna tutto l’inespresso e l’imponderabile. Dona una sfumatura, piuttosto decisa, di imprevedibilità, contraltare e contenitore più ampio del senso di abitudine. Il giardino è l’inespresso e l’imprevisto, ha una vita indipendente e propria rispetto alle mura domestiche e ai suoi abitanti, segue controvoglia le regole imposte, sia si desideri renderlo ben curato, o un semplice prato, aiole e alberi tendono a sfuggire all’ordine imposto da arredatori, architetti e appassionati. Nel giardino si annidano i sogni e le speranze: queste piante quando fioriranno saranno bellissime, oppure, avremo tanta ombra quest’anno. Ma il risultato è sempre differente dal previsto, c’è sempre un ramo che sfugge, una piantina che fa inopinatamente capolino. Così gli abitanti della casa si ritrovano con un inquilino che fa di testa sua, invade tutti gli spazi con la sua presenza o l’idea di essa.

Durante le ore della notte, quando la casa soggiace all’alternarsi di sonno e attività che i suoi abitanti impongono, i giardini diventano il luogo dove i sogni prendono forma, acquistano un corpo e un’esistenza tangibile e indipendente, gli abitanti delle ombre, escono allo scoperto e li animano di presenze inattese.

Un giovane francese, di una piccola città poco lontano da Chartres, una notte in cui il sonno, dopo averlo visitato ancor prima che i genitori finissero la cena, lo aveva abbandonato dopo poche ore, facendolo ritrovare desto e vigile nel suo letto nella casa silenziosa. Dopo qualche tentennamento aveva infilato le pantofole, deciso a prendere un libro da leggere per calmare i nervi che stavano iniziando ad essere imprudentemente sovraeccitati per l’improvviso risveglio. La rivalità fra due principî belligeranti stava abbandonando la mente del giovane e la realtà aveva preso la sua forma abituale, fatta di un caminetto, un divano e un alto scaffale colmo di libri. Come un richiamo da un mondo lontano, uno strano gracchiare aveva attirato l’attenzione del giovane, il quale, titubante, si era diretto verso la finestra, ma attraverso i listelli della persiana, la porzione di giardino che lo sguardo riusciva a percorrere, non aveva dimostrato nulla di strano. Visto che la notte era tiepida, aveva deciso di scendere le scale e uscire in giardino.

 

“Come si sta bene anche fuori con questa brezza tiepida.” I pesanti fiori delle ortensie sembrano salutarlo ondeggiando. Poi di nuovo il gracchiare, ancora più forte. “Proviene da quel cespuglio”, il ragazzo si dirige verso l’origine del suono, sente un frusciare e si ritrova di fronte uno strano uccello, il lungo becco ricurvo, le zampe tozze e corte e una livrea verde e arancione. “Un pollo gigante!” esclama. L’uccello emette di nuovo il suo verso gutturale, poi sembra schiarirsi la voce: “Pollo!?! A me? Come osi moccioso!” “Io ehm… scusa ma chi sei?” “Ma come? non mi riconosci? Sono un esemplare di Raphus cucullatus”. “Un che?” “Ma sì, dai, mi chiamano tutti Dodo, avrai sentito parlare di me…” Nella mente del giovane, in un turbinio di nebbiolina azzurra e parole sconnesse improvvisamente prendono forma i versi

«Il Dodo era solito andare in giro,

E prendere il sole e l’aria.

Il sole brilla ancora sul suo terreno natio –

Il Dodo non c’è più!

La voce che era solita starnazzare e squittire,

È ora per sempre muta –

Ma puoi vedere ancora il suo scheletro ed il suo becco,

Tutti nel mu-se-o.»

“Ma tu sei estinto?” “Cosa dici?” e col forte becco trancia un ramo di acacia con fare stizzito, “ma ti pare? Sono qua di fronte a te… sei uno sciocco e inoltre sei miope da far paura.” “Io ci vedo benissimo?”. “Sì, certo, ma non mi hai mai visto qua nel tuo giardino, ci abito da anni. Come il piccolo, si fa per dire piccolo, Gaspard.” “E chi sarebbe?” “Lui!” La punta dell’ala indica un buffo ometto che sta caracollando verso di loro. “Ah buonasera signorino Marcel”. “E voi, ehm, e tu chi sei?” “Sono Gaspard.” “Con quel berretto a punta e quegli stivali infangati, siete ben strano. Da dove venite?” “Da là” e indica l’aiuola della lavanda. “Sono un nano da giardino, il nano del giardino di questa casa.” “Io non vi ho mai visto.” Il dodo ridacchia sarcastico, “te l’avevo detto che sei miope.” “Cosa fai qua… nella tua vita nanesca? “Io sto apparentemente immobile a far compagnia a lumache e coccinelle, ma in realtà viaggio molto, ho fatto il giro del mondo varie volte.” “E oltre a quello cosa fai?” “Ah, la mia specialità è comune a quella di tutti i miei colleghi. Un nano da giardino vive in un solo giorno tutte le stagioni, perché avendole viste sempre dalla stessa prospettiva se le ricorda sempre tutte uguali ma sempre diverse ogni giorno in cui sorge il sole. Inoltre, come ti ho detto, viaggio molto.” “Com’è possibile con quei piedi di cemento?” “Tzé”, esclama il dodo, il nano riprende, “Viaggiare non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi. Insomma, per viaggiare non occorre spostarsi fisicamente, ma accostarsi alla realtà con occhi sempre nuovi.” “Ah!...” Marcel resta pensieroso a questa affermazione. L’arrivo di una tartaruga di gesso lo strappa dai suoi pensieri, “ohibò, eccone un’altra.” “Sì, infatti” lo rimbecca il Dodo, “ecco Mathilde.” “Sì sì, eccomi, anche oggi mi è toccato fare a gara con quel dannato Achille.” Gaspard la consola “Ma povera, ancora, dopo tutti questi anni?” “Ma sì, ma pure Zenone… non poteva usare un altro animale? Che ne so? Un’anatra?” Un vigoroso starnazzare proveniente dall’altro lato del muro di cinta ammutolisce Mathilde, “Ah è vero, Simone non gradisce, l’oca…” La voce ovattata giunge da dietro il muro: “Anatra, please…” “Sì sì…”. Improvvisamente il cielo si copre, si sente uno sferragliare di armi, urla e nitriti di cavalli. Gaspard e il Dodo sorridono con l’aria di chi la sa lunga, Mathilde si allontana lemme lemme, solo Marcel si stupisce: “Ohibò e chi sarà mai?” La campanella del cancello squilla a passo di carica, ecco Francesco I e Carlo V giungere duellando, alla vista di Marcel si fermano e inginocchiano, “Sire ci avete chiamati?” “Io io veramente…” le palpebre si appesantiscono, Mathilde, il dodo e i due principî si mettono a suonare un quartetto. Con una folata di vento una guida turistica entra dal cancello parlando con voce monocorde. “Il primo livello, è caratterizzato da archi a sesto acuto che sostengono il triforio (secondo livello), e nella parte superiore si trova la parete sulla quale compaiono le finestre, con sopra un rosone, che forniscono luce all’interno. Tali finestre presentano dei vetri colorati…” Il cielo si rabbuia velocemente, il giardino inizia a vorticare, tutto diventa grigiastro, poi nero. Si intravedono le braci di un fuoco, Marcel avverte il tepore delle coperte, la morbidezza del bacio del guanciale sulle sue gote e un peso sul petto… sorride fra sé, prende il libro che stava leggendo prima che il sonno lo cogliesse e lo posa sul comodino, cerca il lume cui spegnere la fiamma ma le membra si fanno pesanti e la coltre del sonno lo ricopre…

 

 

 

[ Racconto pubblicato in Quarantena a Combrat, LaRecherche.it ]

 

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