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La casa di Anna

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Anna aveva: occhi bassi, vita breve, fretta costante.

Anna evitava: gli incontri casuali e quelli inaspettati, i momenti vuoti tra una azione e la successiva e chi indugiava a guardare i tramonti o le vetrine. Camminava svelta fissando la terra con la certezza che si sarebbe spaccata — lei o la terra sotto di lei.

Anna dimenticava: il calore sul viso, le mani intorno ai fianchi e quelle intorno alla gola, la pentola piena sul fornello spento, il vino nel freezer e il gelato di fuori.

Aveva solo piante grasse e nessun animale domestico né di passaggio. Non produceva avanzi per gatti, briciole per uccellini, storie per catturare altri come lei.

Anna aveva avuto un amore e uno scopo, entrambi più grandi di lei, entrambi poco realistici, a pensarli, ora. Anna non ci pensava. Alle cose pratiche, ora, non pensava e a quelle altre, dello spirito, della coscienza, del resto, aveva smesso di pensare. Anna evitava.

La sua tristezza aveva una cura e un prezzo, entrambi accessibili. Il contorno, il mondo le erano sfuggiti, riversi in qualche cellula della memoria in bilico tra vissuto e sperato.

E non sapeva più niente. Niente di quello che aveva imparato, niente di quello che le accadeva addosso, niente di sé com’era prima e come sarebbe diventata se ci fosse stato un dopo. Il dopo, lei, lo spostava di qua e di là come una maglietta non del tutto sporca, non ancora rovinata da farne stracci, neanche adatta a uscire e scomoda per dormire. Il dopo era un indumento non conforme: come lei che, in questa mancanza di adesione non trovava alcun significato sovversivo o nichilista. Non ci trovava niente.

Anche la pigrizia era uno stato momentaneo e difforme: totale, esagerata, inverosimile. Se fosse stata una pigrizia semplice, l’avrebbe chiamata tregua. Invece, Anna era stanca. Da atea, aveva creato un dio personale manicheo e puntiglioso, dotato di una memoria anodina, quindi, inespugnabile.

Il suo dio automatico le proponeva, per programma, alternative inapplicabili a sviluppi potenziali di situazioni inesistenti. La confusione tra materia e pensiero, forma e oggetto, soggetto e azione si dissolveva nella stasi che era stasi fine a sé e priva di inclusioni.

Dei suoi tentativi era rimasto qualcosa, forse, negli scaffali della casa in fondo al vicolo. Forse, in quell’altra casa dove si era appena trasferita, la mancanza del superfluo era eccessiva — da risultare forzata. Lei era quella, però: tutta piena del suo nulla che non era simile in niente al vuoto di pensiero, alla tregua della mente e delle sue trappole ricorsive.

La nuova casa era bianca, vuota, affacciata sulla fine della città; ma era tardi. Non aveva più voglia di finirla, non aveva voglia di andare, né di sistemare gli scatoloni, la vita, il resto.

Aveva smesso di collezionare ipotesi e di cercare il punto preciso della frattura. Sapeva che ce ne era stato uno e che la causa era lontana, la “colpa” esterna, ma cambiava spesso versione. Alla fine, aveva smesso; le versioni sfumavano tutte nello stesso paesaggio misto di alba e distruzione. Sarebbe stato meglio non ricordare niente, continuare con gli incubi o i sedativi, occultarsi dentro la terra, buia, sghemba, arrotolata come una matassa sfatta e ricomposta con cura relativa ma senza abilità, senza rettifiche o pietre lucenti da scovare — senza scavare.  Non era andata così. Sedativi e incubi le si erano incastrati dentro e coalizzati, insieme agli avanzi di quella che non era diventata, scavano la loro propria trincea a basso costo.

Anna era stanca e pigra; non aveva un’età ragionevole per morire suicida.

Sarebbe rientrata in un’altra statistica: incidente stradale, incidente domestico, fatalità. Aveva smesso di chiedere aiuto e di mettere ordine. Aveva smesso di provare e sentire, non gridava più. La sua fiamma pilota era diventata una fiaccola, poi un moccolo, poi una coppetta di cera liquida economica con lo stoppino annerito che ci affogava dentro.

La casa era nuova, bianca, sgombra. Il suo compagno diceva di amarla; il resto, forse, avrebbe ripreso il suo corso. Forse: ma senza di lei. Anna continuava mossa da un obiettivo: finirla. Casualmente.

Da atea, confidava nel caso e il caso, per lei, era diventato l’attitudine canalizzata all’autoannientamento. Aveva superato la rabbia rinunciando al perdono. Non perdonava né si arrabbiava, davvero. Aveva dovuto accettare l’evidenza di sé ingoiando tutto, sputandolo addosso a chi poteva o capitava, per non soffocare e l’aveva fatto di sicuro più volte di quelle che ricordava o che riconosceva. Ora le avrebbe riconosciute tutte, ma ora era tardi, era tardi per ogni cosa, soprattutto per lei. Era tardi anche per fare bagni consolatori nello strazio. I segni sui polsi erano rimarginati. Lei no. Lei andava avanti con l’unico obiettivo: finirla. Un giorno in più, una settimana in più, un mese, due, il prossimo autunno.

Le avevano anche dato quello che meritava, in ritardo, ma nei tempi. Non aveva avuto quello che meritava prima, quando chiedeva con poche parole. Ora era tardi; adesso erano fiumi di parole tra parentesi o silenzi piatti, interminabili. In compenso, non provava più rancore. Le parole e le azioni subite vorticavano, ma i contorni sfumavano il ricordo. Quell’anno, di cui era certa, sarebbe potuto essere un altro o altrove. Quel fatto che aveva chiarito, nella ricostruzione raccontata, si sarebbe potuto leggere anche all’opposto o in parallelo.

Anna era stanca. Impigrita, violentata, ignorata, derisa, umiliata e, finalmente, arresa. Lei era piegata e arresa.

Il solaio era pericolante, domani sarebbero venuti a rinforzare pavimento e balaustra, l’area inagibile era delimitata da due file di transenne, visibili e inequivocabili. La casa, d’altronde, era proprio perfetta: vuota, bianca, affacciata sul nulla. Sarebbe diventata come voleva lei, come avrebbe voluto prima di cedere.

Anna era stanca, era tardi e le transenne, nella notte, risaltavano meno. Un passo, due, cinque, altri due. Stavolta aveva scelto meglio, stavolta la casa era al settimo piano.

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