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Bestemmia. Le parole della carne di Pasolini.

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Questo è uno stralcio del saggio in via di pubblicazione su “Mosaico Italiano” anno XIII n°141


Invocare o bestemmiare? Come dobbiamo intendere tali vocaboli nel “dizionario religioso” di Pasolini?
Bestemmia è proprio il titolo scelto da Garzanti per la raccolta del “corpus” delle poesie edite e inedite di Pasolini (seguirà, nel 2003, il più completo e sistematico Tutte le poesie per “I Meridiani” di Mondadori). Bestemmia è anche un poemetto (scritto con ogni probabilità poco prima di Teorema, nel periodo 1962-1967) mai dato alle stampe dallo scrittore friulano, che offre elementi di riflessione estremamente utili alla ricomposizione del mosaico del sacro pasoliniano.
Lo scrittore stesso ci fornisce una descrizione del progetto alla base dell’opera - che, in un primo momento, aveva immaginato anche come sorta di sceneggiatura per un’eventuale pellicola:

Bestemmia [è il nomignolo attribuito al protagonista] è un racconto in versi ambientato in un medioevo ideale dell’Italia centrale […]che racconta la storia di un tipo profondamente simile ad Accattone, un magnaccia che vive in mezzo alle prostitute alla periferia di quella cosa incredibile che doveva essere Roma in quegli anni. E come Accattone ha una vena mistica che, dati i tempi, ha delle soluzioni. […] Da magnaccia, turpe individuo qual è, diventa santo. Ma al tempo stesso diventa anche rivoluzionario. Cioè fonda un ordine di tipo eretico […]. E di qui la lotta contro il papato del tempo. Bestemmia viene ucciso dopo aver ripredicato il Vangelo secondo la riscoperta, che sarà poi francescana, dei sacri testi.

Veramente e volutamente ossimorico l’accostamento fra il titolo dell’opera ed il suo contenuto, che si risolve, vedremo, in una corporale iconografia della sacralità. La fede è tutta nel corpo, tutta nell’azione: come abbiamo letto è “francescana” questa riscoperta del Vangelo, che, però viene condannata, e fino alla morte, da una società, da una religione ufficiale che, nella sua “fissazione” infeconda e impietosa , tradisce Cristo.
Così predica, invece, Bestemmia:

Non gettate il vostro spirito nella lotta!
Gettate il vostro corpo nella lotta!
È con esso che parla il vostro spirito, quello che voi siete.
Quanto ha parlato Cristo!
Eppure niente ha parlato più del suo corpo
inchiodato sulla croce in silenzio.

Un’iconografia già qui, e poi nelle opere successive ancor più evidentemente, lontana dalla raffigurazione più formalmente rigorosa de Il Vangelo secondo Matteo.
Una rappresentazione che, in realtà, vuole essere differente da qualsiasi altra precedente. Pasolini vuole proporre:

[…] un’idea di Cristo
anteriore ad ogni stile, a ogni corso della storia,
a ogni fissazione, a ogni sviluppo; vergine
realtà riprodotta con la realtà; senza
un solo ricordo di poemi o pitture;
voglio non solo non conoscere il Dante o il
Masaccio
o il Pontormo che a lungo hanno dominato
i miei occhi, il mio cuore,
i miei sensi: ma non voglio
neanche
conoscere la lingua e la pittura:
voglio che quel Cristo si presenti come Cristo
in realtà.

Incredibilmente, Pasolini dichiara di volere, in un sol colpo, abiurare agli insegnamenti di Longhi che intensamente hanno influenzato la sua sensibilità espressiva, all’esempio non solo di Masaccio e Pontormo ma anche di Rosso Fiorentino e Mantegna che tanta parte hanno avuto nel suo immaginario e nella raffigurazione plastica del Cristo di numerose sue opere, da Mamma Roma a La Ricotta al, già citato, Vangelo.
La “realtà riprodotta con la realtà” dunque: in una frase è sintetizzato il manifesto di tale poetica, di una scelta che si fa sempre più chiara nella mente di Pasolini e che lo porta per un lungo periodo, a dedicare gran parte delle sue energie e della sua creatività al cinema, con l’intento proprio di rappresentare le cose con le cose stesse. Ma questo è, come vedremo, non solo nel cinema, in cui tale volontà è più scoperta e leggibile, bensì in tutto il suo fare artistico, dalla poesia alla narrativa nonché, diversamente espresso ma con identiche finalità, anche nell’opera di critica sociale, politica, di costume in cui ogni riflessione parte, comunque, dalla piena, onesta, anche dolorosa adesione al reale.

Ma torniamo alla definizione di Cristo, alla ricerca di Cristo in Bestemmia.
Il sacro di Pasolini è “indecente” per definizione: non quello della Chiesa istituzionale, bensì quello del Cristo portatore di scandalo fra i farisei; non la religione di Pietro ma quella di Paolo. La verità religiosa in Pasolini è quella del Cristo incarnato, della estenuata fisicità della sua passione, piuttosto che quella della resurrezione, della Pasqua, del ritorno nel suo “corpo glorioso”.
Non il “Cristus triumphans”, dunque, ma il “Cristus patiens” è al centro dell’immaginario pasoliniano.
In questo riscontriamo una certa immedesimazione che si risolve in un’ambigua adorazione in vari passaggi non solo della poetica ma specificatamente della vita di Pasolini. Si potrebbe citare molto a riguardo; qui ci soffermeremo su un’epistola personale del 1959 i cui toni saranno variamente ripresi anche successivamente:

Io sono fissato all’adolescenza, oltre che al periodo del complesso edipico: sono cioè caduto due volte sotto la croce, e dalla seconda volta non mi sono rialzato più.

“Una disperata carnalità” pervade l’operetta in cui “Cristo/in realtà” non presenta “un solo ricordo di poemi e pitture” . In Bestemmia è dunque ancora possibile, presente, quello che in Teorema diverrà disperante anelito ad un passato antropologicamente, umanamente lontanissimo.
Perciò, in Bestemmia appare verosimile un recupero che in Teorema è assolutamente negato. Eppure gli anni in cui si dipana l’ideazione delle due opere sono praticamente i medesimi, entrambe vengono ultimate all’incirca nel 1967. Ma, ove la prima appare l’approdo di un pensiero che Pasolini sta dolorosamente abbandonando, la fine di una speranza che struggentemente scompare, la seconda rappresenta in forma sistematica e artisticamente perfetta ed eloquente una nuova disperante fase della filosofia pasoliniana che, del resto, altrove era già stata adombrata se non proprio anticipata.
È, dunque, ancora pensabile, dopo quello che Pasolini chiama il “genocidio” che “Cristo si presenti come Cristo/in realtà”?
La risposta di chi, dieci anni prima, si era riconosciuto ne L’usignolo della chiesa cattolica è, ormai, negativa. Con Teorema sembra davvero impossibile il ritorno a quella “Cristologia […] ancora barbarica” che rappresentava la cifra più autentica della visione del sacro di Pasolini e di cui troviamo ancora un saggio in Bestemmia:

Lingua e stili! Ma io
con un uomo in carne e ossa,
con una vera croce di legno,
con dei chiodi veri,
e - vorrei - con vero sangue e vero dolore,
evocherò la realtà con la realtà.
La realtà che evoca, lo so, assomiglia
- assomiglia soltanto - alla vera realtà evocata:
ma è, a sua volta, una realtà.

Pasolini non è cattolico, ha bisogno di toccare, novello san Tommaso laico, per credere. Il sottoproletario Bestemmia così come la povera comparsa Stracci, che, ne La Ricotta, muore veramente in croce davanti alla troupe, rappresentavano quella realtà tangibile e quotidiana della rivelazione divina nella vita dell’uomo. Erano santi, epigoni de

[…] la Storia della Passione che […] è per me la più grande che sia mai accaduta e i testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti.

Esempi, nella loro lotta quotidiana per la vita, di santità “vera”:

Il povero imitatore di Cristo, in carne e ossa,
- pagato da un produttore pochi soldi -
è una realtà come quella del vero Cristo.

Il tutto inserito in una visione sacrale della vita che abbiamo definito sotto il segno di quella tangibile, potente, plastica, “disperata carnalità”:

Sono davanti ai muscoli e alle vene del mio Cristo

“Le parole della Carne” le definirà Pasolini più avanti . Questo tipo di “grammatica” corporale ha cercato il poeta praticamente lungo tutto il dipanarsi del suo fare artistico.

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