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al testo di Stefano Verrengia
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POEMA INTERIORE
Ancora ricordo quel giorno in cui aprii un libro che come un deltaplano mi fece planare su valli verdi dove andare libero come un cavallo senza briglie pronto a nitrire al cielo. Fu come una dose che ti scorre nelle vene e che delle pene e del martirio della carne ti solleva avvelenandoti. Si, quelle pallide parole, quelle lettere maleodoranti di quel vecchio libro comprato per un euro da uno sdentato libraio su di una povera bancarella furono l’edera velenosa che si è arrampicata prima sulle gambe, poi, pian piano, si è arrampicata fino al petto, riempiendomi di bolle e malattia. Ma fu una magia, quel delirio che provai: assurda perdizione nella canzone dei sassi sussurranti. E bramanti volarono i pensieri fra le infinite stelle e le belle bocce di una donna truculenta che posava le sue labbra sul mio ombelico brontolante come un uragano. Quando presi la penna in mano mi sentii come un adolescente che prende per la sua prima volta in mano il cazzo per abbandonarsi a sfrenate fantasie sulla sua amichetta che mostra i primi seni e ammiccante vuole conoscere l’amore della carne. Posare sulla carta una bic e il suo inchiostro, che scivolava come un implacabile fiume nero senza argini e costrizioni, senza paura di inondazioni ... ambivo solamente la liberazione e la distruzione … le parole debordarono sui campi del mio intelletto e l’effetto fu quel che mi aspettai: una meravigliosa catastrofe. Furono sterminati i fiori, sterminati gli alberi da frutto e tutto affogò in inesorabili acque nere. E quelle sere in cui nuotavo con maschia delizia in queste acque del caos e alzavo lo sguardo e con gli occhi un dardo gettavo di desiderio e bramosia verso l’infinito universo che nel pensare ardevo poter spostare con una semplice bracciata. Ero lì, sempre fisso, nell’amata confusione di una tigre che mastica le nuvole con fermi canini e serrate mandibole. Non ci volle molto tempo a comprendere in che razza di guaio ero andato a finire … scrivere fino a morire, con quella penna che prima diventava coltello, poi pennello, poi sciabola, poi machete pronto a spezzare i verdi rami di questa jungla di nome esistenza. E non ci volle molto e comprendere di che essenza fosse questa mia malattia: placido tremore, amore per la pazzia. E così era, è impossibile nascondersi a sé stessi. Mi accorsi subito Che come me, malati della mia malattia, ve ne erano ben pochi: fuochi flebili su questo mare del niente. Compresi anche che non ci si nasce con questa tendenza di ricercare in una formica, in un granello di sabbia, in un briciolo di pane l’essenza dell’eternità. E così camminavo sconsolato per i marciapiedi, freddo e meditabondo, a caccia dell’infinito nascosto fra due versi, fra due crepe dell’asfalto. Di cobalto coloravo le parole nei tristi giorni dove naufragavo malinconico nell’oceano di suoni di una chitarra di strada, altre volte un lieve tramonto arancione mi rincuorava del fatto che la morte avrebbe azzittito ogni dolore cullandomi dolcemente sul suo grembo come una madre benevola. Tante altre volte consumavo il mio tempo seduto su di una panchina a dipingere con le parole quel quadro misterioso di nome universo. Stelle, pianeti, galassie, buio … tutto mi ispirava la nostra enorme insignificanza. Molto spesso vagavo di stanza in stanza, per poi affacciarmi al mondo dall’intimo balcone dove potevo osservare l’oceano sprigionarsi nella sua vastità, come uno sputo per una formica. E mi perdevo, assurdamente, con la mente labile come una foglia in una tempesta, come un’onda nella marea. E su questa sponda dell’esistenza, dove tutto si contorce nei marasmi del dolore, dove ogni colore che brilla poi sbiadisce verso il bianco, non demordevo nella voglia di imbrigliare ogni doglia in una catena di rime. Quanti teschi ridenti godevano della vita spalancando le loro mandibole tremolanti. Ma io ero già un morto consapevole. E me ne accorsi un giorno, quando vidi una donna sdraiata su un letto nero con in mano una croce e con un gelido silenzio negli occhi. Anche lei, anche quel vuoto contenitore di sogni ed ambizioni, quel cassone di immondizia dove furono gettati tempo addietro sporchi pensieri, adesso era nei neri meandri dell’occulto. E chissà cosa nasconde la morte dietro il suo sacro silenzio, chissà cosa nasconde il buio nel suo eterno attendere l’ultimo canto di luna. Da lì i miei occhi si tramutarono in cinici occhi di corvo, da lì, con occhi di gatto, appresi cosa vuol dire vedere gl’uomini nel buio: ombre evanescenti che girano l’angolo per finire non si sa dove. Eppure ricordo ancora quel mattino dove mi svegliai con il sole negli occhi: aprii la finestra e aria e luce entrarono come una benedizione. Sotto casa una canzone napoletana intonava una vecchierella e le note leggere volavano nell’odore di sfogliatella e caffè. Il golfo di Napoli immenso si stagliava e sembrava profondo come l’animo di ogni Poeta di questa terra. Le donne avevano pesche al posto dei seni, dolci da mordere come frutta di stagione. I capelli scuri e intricati come le vie di Spaccanapoli e la malizia nello sguardo che tutte sembravano un po’ puttane, un po’ bigotte. Mi ruggiva l’animo come una belva affamata. Finalmente una illusione, una illusione potente! La gente salutava come fossi loro fratello e il calore nell’animo sembrava riscaldarsi come un vulcano. E’ come se sentissi ancora il Vesuvio scorrere nelle mie vene. Ho sempre odiato l’amore, nel suo renderci deboli come leoni in gabbia, elemosinando il loro pasto. Quante volte Cupido mi ha lanciato la sua freccia avvelenata e mi ha riempito il sangue di dolci illusioni. Torta dopo torta, ne vorresti fino a scoppiare ed avere un infarto. Ma questo la mia penna lo sapeva, aveva bisogno di quel sogno impossibile da scrivere fra due galassie. Ci fu una sera in cui fui colto da uno strano ardore e scrissi una poesia d’amore su un fazzoletto in un bar, con al fianco una birra. Molte volte ho cercato di rinchiudere l’oceano fra due lettere … una sigaretta in una mano e la disperazione nell’altra, questa vita ha consumato ogni goccia del mio sangue, quasi fossi una maledetta fontana di dolore. Molto spesso sono inciampato in un sogno e sono caduto di faccia in una pozzanghera in un giorno di pioggia, mentre guardavo le nuvole aspettando che un fulmine scrivesse con l’elettricità un verso che non avrei mai potuto scrivere … e quante notti mi sono seduto sulla sabbia in solitudine per aspettare quello sparuto ed ultimo raggio di luna. Sono sempre stato un manigoldo, ma questo tu lo sai, mia siringa, penna mia, iniezione di infinito, eternità ed illusione! Quante volte ti ho utilizzato per sedurre una bella donna ad aprirmi le sue gambe come fossero un bel libro da sfogliare, un oceano da solcare con la mia prua volitiva sempre alla ricerca di nuovi atolli dove abbandonarmi al mare, al sole, ai granelli di sabbia e al sussurro del vento. Sempre ti ho usato, sempre ti ho usato, candido pugnale! La vita è un oceano nel quale gettarsi per poi lavarsi di quel sale che causa un fastidioso prurito. E così, andando per vie sconosciute, per le mute strade di un fresco pomeriggio d’estate, la mia gola non si è mai negata un bicchiere d’azzurro e l’infinito silenzio dell’universo, mentre disperso nei pensieri vagavo fra Giove e Plutone immaginando cosa provi un fascio di luce nel dissolversi lentamente come nebbia al mattino. E chino, ancora oggi, mi ritrovo a cogliere quei pezzi di nuvole per poi metterli in un vaso che innaffio con sangue e dove con il naso, ogni tanto, con velleità, inalo a polmoni spiegati un soffio di eternità.
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