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al testo di Bruno Centomo
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Mangiafuoco
Descrivilo come di fuoco. E non badarci più di tanto. Prima la stanchezza penda dalle braccia d’angeli irrequieti per il dover tornare mortali, come ben sappiamo.
- Penso al mio Dio, alla terra, ai pianeti. -
- Poco più in là, deporrai la pistola. - Così s’arrese il predatore, a un pallore che morte gli riconobbe presto, generosamente.
Scendeva le scale con l’attenta paura di cadere: l’attendeva un vento inatteso che si ritma con le mani, s’imprigiona ai fanali dove s’affollano gli insetti.
Per concludere che ci aveva traditi, Giacomo. Non aver guardato oltre la siepe, immaginando noi che rimaniamo specchio di noi, profumo incerto d’una lacrima, ultimo palpito di domani. Posso però giurarti che quella nuvola appena scomparsa non t’assomigliava nemmeno un po’, anche se ne avrai a male.
Di quando si parlava di sogni
Di pianeti. Un percorso. Distanti. Interminabile. Di questo si parlava, senza sapere d’astronomia, mai aver letto una cartina, eppure credendo l’un l’altro, sorridendo, annuendo, poter convincere persino gli angeli a partire, le ragazze che tutto sarebbe stato facile e ci sarebbero stati comodi letti e ombre per la notte e tempo per la pigrizia.
Ma bastò Giacomo, il più sapiente, dichiarasse tempo perso, il cercare issare a bordo dell’astronave, con il destino, il cestino coi panini, i sacchi a pelo, le lenzuola lise, la polaroid, la chitarra. Ognuno si riprese quel che era finito nel mucchio: il vocabolario d’inglese, i vinili di Neil Young, la tanica per l’acqua, le caramelle molli, le amache, i teli di nylon, la tenda a casetta, il bikini amaranto della canzone di Guccini, le paure dell’ignoto, il tè indiano, un pallone rattoppato, la cartina d’Europa.
Solo la preghiera taciuta rimase nei labirinti dei pochi resti sudici che nessuno voleva riportarsi a casa. Sta forse ancora là. Forse.
Ad immaginare un dopo
Provo a immaginarmi scomposto a breve in ossa che sfogliano poi in carta velina, sopra cui scrivere porterebbe piacere a chi tenta farlo sempre e solo sopra ragnatele scomposte e foglie marcescenti. Sorprendendosi dunque, se nulla rimane se non polvere ed acqua e bava di lumaca o terra smossa da talpa e buco di topolino.
Tanto mi potrebbe bastare per conquistarmi quel poco d’eternità vien messa in palio ad ogni apparire di sole dopo tempesta, riconoscendo che, pur lontani, i richiami sono sicuramente per noi, raminghi e soli.
Potrò rassicurarmi, certo potermi addormentare nei sotterranei di musei farinosi dove stanno le cose dimenticate, mai esposte, mai ammirate.
[ Opera I classificata al Premio Letterario Nazionale Il Giardino di Babuk - Proust en Italie, VI edizione 2020, sezione Poesia ]
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