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Disteso cos

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Disteso così, con il mento in aria,

mezzo morto, le mascelle rilassate, le labbra pendenti,

con il pomo d’Adamo abbassato

che lasciava uscire un gorgoglio

di consonanti velari, liquide e spiranti,

mio padre suscitava compassione.

Privo dei segni della sua dignità,

lo scettro del bastone e la corona della bombetta,

senza occhiali e senza la rude maschera

della severità e della meditazione,

il suo volto rivelava l’anatomia della sua pelle,

le vene e le pustole del suo maestoso naso virile,

la carta in rilievo delle sue rughe

che fino a quel momento avevo creduto

essere soltanto la maschera

sul volto di un apostolo e di un martire.

Ed era, invece, una dura scorza scabrosa,

butterata e unta come di belletto,

screziata da sottili vene azzurre.

Le sue occhiaie erano molli e gonfie

come vesciche in cui si agiti la linfa.

La sua mano, la sua mano imbalsamata,

pendeva lungo il letto

come una guardia del corpo

addormentata in un gesto osceno;

era l’ultima perfidia di mio padre:

fare un gesto osceno al mondo intero

e ai sogni ai quali non credeva più.

 

 

[ La poesia qui proposta è un libero adattamento in versi della scrittura in prosa tratta da Giardino, cenere,  Danilo Kiš, Adelphi, traduzione di Lionello Costantini, pagina 97 ]

 

 

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