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al testo di Danilo Ki
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Disteso così, con il mento in aria, mezzo morto, le mascelle rilassate, le labbra pendenti, con il pomo d’Adamo abbassato che lasciava uscire un gorgoglio di consonanti velari, liquide e spiranti, mio padre suscitava compassione. Privo dei segni della sua dignità, lo scettro del bastone e la corona della bombetta, senza occhiali e senza la rude maschera della severità e della meditazione, il suo volto rivelava l’anatomia della sua pelle, le vene e le pustole del suo maestoso naso virile, la carta in rilievo delle sue rughe che fino a quel momento avevo creduto essere soltanto la maschera sul volto di un apostolo e di un martire. Ed era, invece, una dura scorza scabrosa, butterata e unta come di belletto, screziata da sottili vene azzurre. Le sue occhiaie erano molli e gonfie come vesciche in cui si agiti la linfa. La sua mano, la sua mano imbalsamata, pendeva lungo il letto come una guardia del corpo addormentata in un gesto osceno; era l’ultima perfidia di mio padre: fare un gesto osceno al mondo intero e ai sogni ai quali non credeva più.
[ La poesia qui proposta è un libero adattamento in versi della scrittura in prosa tratta da Giardino, cenere, Danilo Kiš, Adelphi, traduzione di Lionello Costantini, pagina 97 ]
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