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al testo di Silvia Rizzo
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Orchis morio, ophrys fusca, gymnadenia,
neottia nidus avis, orchis simia, dactylorrhyza maculata e fuchsii, serapias lingua e vomeracea e tante altre dai nomi e dalle fogge strane dischiudono corolle non vistose, simili a vulve femminili o in forme bizzarre, come d'elmo, con speroni, con rilievi, con creste, con puntini, purpuree, bianche, maculate, rosa, verdastre, gialle, brune, quasi nere, con placche blu, con strani geroglifici. Per riprodursi attirano gli insetti imitando una femmina di bombo, d'ape o di vespa, oppure col profumo acuto che diffondono la sera, o ancora coi colori variegati e col nettare in gole spalancate. Ognuna ha un solo insetto che può fare il miracolo. E poi non è finita: occorre ancora, perché il seme germini, che presti un fungo le sue ife e se prevale il fungo quel germoglio muore, ma muore senza il fungo. Ognuna ha il suo terreno: acido, basico, arido, umido, argilloso, leggero, di pineta, di quercia, di castagno, di faggeta. Impossibile farle germogliare e fiorire a comando; non le trovi né in giardini né in luoghi coltivati. Stanno in luoghi selvaggi e abbandonati, nel sottobosco, in magri pascoli, anche sul bordo delle strade, ovunque l'uomo non le disturbi. Sono le orchidee nostrane, quasi ignote, senza i fasti letterari di quelle tropicali (la cattleya di Proust), e l'apparire ne è difficile, raro ed inatteso. pubblicata in Orchidee dell'Amiata. Poesie di S. R., "Caffè Michelangiolo" VIII 1, gennaio-aprile 2003 [ma ottobre 2003], 22-24. |
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