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Bianciardi - Una vita in rivolta di Sandro Montalto

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Primo della classe al liceo e nondimeno bacchettato da una madre severa, maestra di professione, Luciano Bianciardi appare oggi al nostro sguardo tra i pochi autentici outisder della letteratura italiana del Novecento. Bene ha fatto quindi Sandro Montalto, poeta e critico, a dedicargli un vivacissimo saggio (Bianciardi - Una vita in rivolta, Mimesis Edizioni, Milano 2018) che percorre la vita e le pagine di questo intellettuale “disorganico” privilegiando il rapporto dello scrittore - tra estri satirici e disagi profondi -  con il suo tempo, vale a dire gli anni in cui il Paese si affaccia al consumismo e alla rivoluzione culturale.

I prodromi del resto non mancavano e sono puntualmente recensiti. Ecco Bianciardi adolescente che scrive a Mussolini chiedendogli le dimissioni ed eccolo, in quegli stessi anni di liceo, pronto a sbeffeggiare l’ermetismo ungarettiano scrivendo versi così concepiti: «QUIETE Oggi / riposo », oppure «CONTRASTO Pastasciutta  / metafisica». Montalto dedica infatti interessanti pagine di apertura a un Bianciardi prima studente universitario, poi traduttore per gli alleati in tempo di guerra (non senza alcune esperienze devastanti, che si riverbereranno nel tragico e capitale disastro della miniera di Ribolla che lo segnerà per sempre), infine giovane direttore della Biblioteca Chelliana distrutta da bombe e alluvioni, tutta da ricostruire con in mente una ben precisa idea di “cultura”, di “intellettuale” e di “popolo”.

Ma la satira, anticipata fin da queste sortite, sarà soltanto l’aspetto più superficiale di una narrativa che nel 1962 suggerisce la rivolta sessantottina e soprattutto la distanza tra il mondo metropolitano e le aspirazioni dell’uomo liberate da retaggi e vincoli.  

Le due parole chiave di quei tempi, l’“alienazione” dell’uomo marcusiano e la “rivoluzione” politica vagheggiata da una parte importante della Sinistra, non sono tuttavia la formula con cui l’autore della Vita Agra immagina il riscatto futuro. Scriverà: «Ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico- sociale divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano». Un obiettivo che, negli ultimi anni della sua vita, non gli sembrerà più perseguibile.

D’altro canto, persino nelle pagine critiche scritte su Bianciardi da Carlo Bo, Geno Pampaloni e Michele Rago, si è sempre avvertito un motivo di riduzione della qualità dello scrittore nel suo stesso farsi oggetto narrativo di ironia, oppure in un presunto trasferimento degli autori tradotti, sulle pagine della Vita Agra e di altri testi, quando non si porti in giudizio addirittura il ruolo dell’intellettuale. Sandro Montalto propone, rispetto a quest’ultimo concetto, le osservazioni fatte da Nicolas Martino, il quale addebita a Bianciardi il ruolo tradizionale dello scrittore «arrabbiato di professione», mentre poco più avanti trascrive una nota di Gian Carlo Ferretti che così si esprime: «Si può dire fin d’ora che in articoli, lettere e racconti-saggio Bianciardi non vede o non vuol vedere la vivacità e creatività della vita intellettua­le, letteraria, teatrale, cinematografica degli anni Cinquanta (e poi Sessanta) a Milano e in Italia, perché continua più o meno consapevolmente a vivere in una dimensione provinciale, arroccato».

Quello di Bianciardi “autore provinciale” è un curioso quanto diffuso appunto. Una sorta di antinomia che, a distanza di tanto tempo, risulta palese.  Mentre gli Arbasino, gli Eco, i Sanguineti, i Giudici, lavorano e diventano capisaldi dell’industria culturale, ecco che Bianciardi appare, secondo questa lezione, poco credibile nonostante la visione offerta dai suoi testi anticipatori perché «provinciale»… e nonostante il fatto incontrovertibile che, nelle pagine del meno noto ma importantissimo romanzo-pamphlet Il lavoro culturale, siano suoi bersagli prediletti sia il mito della provincia intesa come risorsa del nuovo, sia il progetto della sinistra sessantottina di esprimere ad ogni livello una nuova organizzazione intellettuale consona ai tempi. «D’altra parte Bianciardi stesso – commenta Montalto - aveva riflettuto con grande anticipo sull’impossibilità, già nella società dei suoi anni, di pronunciare qualsiasi parola, qualsiasi critica autentica, che non di­ventasse spettacolo».  

Al tema trasgressivo per eccellenza, ossia la sessualità, Montalto dedica del resto una parte cospicua del saggio. Non a caso, perché il sesso e la libertà sessuale contrassegnano il mondo dello scrittore toscano sia come traduttore sia come narratore avendo, di pari passo, un ruolo centrale nella rivoluzione culturale, nell’acquisizione del pensiero psicanalitico e nella migrazione da una sponda all’altra dell’oceano i motivi ribellistici della generazione Beatnik.

Ecco un passaggio sintomatico dello stilema bianciardiano nella Vita Agra:  «E poi ogni anno, al volgere della primavera, ciascun villaggio sceglierebbe il suo bel prato, e lì s’intratterrebbero, da stelle a stelle, due o tre­cento coppie di copulanti, sulla sfondo del cielo terso, durando lo strillare delle cicale, ma senza ventilazione di ninfe bianco velate, con accompa­gnamento dei cori che vanno eterni dalla terra al cielo, e in un angolo, gialla, ferma, inattiva, una macchina trebbiatrice della premiata ditta Cosi­mini di Grosseto. Lo so, finirebbe la civiltà moderna: cesserebbe ogni incentivo alla produzione dei beni di consu­mo».

L’ironia che, poche righe dopo, diventa aperta satira non fu la lezione della sua più famosa traduzione, quella dei Tropici di Henry Miller, ma ugualmente Michele Rago trovò modo di scrivere: «È comprensibile che quest’uomo, ubriaco di pagine tradotte, senta ribollire la propria vicenda attraverso parole e linguaggi altrui». Difficile pensare a critica più indebita.

Una parte significativa del saggio prende in consegna i racconti di Bianciardi in cui ha un ruolo predominante proprio il tema dell’eros. È un percorso di paradossi, di bozzetti talvolta grotteschi e infine surreali. Lo scrittore verifica innanzitutto l’equivalenza tra “sesso liberato” e, potremmo dire, “libero consumo”. Così la visione di Wilhelm Reich trova la soluzione dialettica più consona nell’Italia del tempo: lo sfruttamento della prostituzione ma senza senso di colpa (Il peripatetico), mentre nelle pagine dello straordinario La solita zuppa l’accento cade su di un mondo immaginario (ripreso peraltro da Buñuel nel film Il fantasma della libertà) in cui il sesso è libero ma mangiare «vergognoso, peccaminoso e mangiare in pubblico è un reato». Un nuovo variopinto abbecedario del mondo capovolto dove il protagonista telefona ad una casa di appuntamenti per prenotare una “fiorentina”.

L’itinerario proposto dal critico approda così, non prima di avere abbondantemente sondato quell’immenso ginepraio che è la produzione giornalistica bianciardiana, e aver riportato gustosi aneddoti di vita di redazionale non sempre noti ai più, all’ultimo Bianciardi, ormai disilluso, critico verso la Sinistra imperativa e imperante nelle sedi culturali.  Distante da questi diktat lo scrittore si proclama anarchico «nel senso – specifica – che auspico una società basata sul consenso e non sull’autorità». La sintesi di Montalto è articolata e tersa: «Ha ormai capito fino in fondo che gli si chiede di esercitare «la professione dell’incazzato», e che non è più ormai un momentaneo gioco di società al quale subito dopo l’arrivo del successo ci si poteva anche adattare un poco: ha ormai anche timore di manifestare le sue incazzature autentiche perché potrebbero sembrare ad alcuni una posa, o l’obbedienza a una legge di mercato.

 

                                                                                     Marco Conti

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