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Una lettura di Partenze e promesse. Presagi

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Una lettura di Partenze e promesse. Presagi. (puntoacapo Ed., 2019)

di Giorgio Favaro

27 ottobre 2019

 

 

Una lettura da centellinare un po’ alla volta, come un prezioso distillato.

Una scrittura matura e consapevole, sonora e saporitamente colorata.

Non ho la pretesa né la dovuta preparazione per poter ben disquisire su aspetti semantico-lessicali, quindi mi limiterò a testimoniare alcune suggestioni emotive che ho fatto mie.

 

La luce ai sotterrati (p. 30) mi ha colpito molto. È la vera risposta al consapevole senso di mancanza salvifica che colora le pagine del tuo libro. Ma qui la tua figura del poeta-sciamano, per dirla con le parole di Ivan Fedeli, mi ha riportato all’immagine degli alchimisti della Praga gotica e misterica di qualche secolo fa, quella che ti entra nelle viscere e ti parla attraverso le pietre delle sua mura, tra i “presagi” delle sue ombre, dove «regna ancora il silenzio». Pensiamo solo che la base fonetica del nome Praga, cioè pràh, rimanda al significato di “varco da oltrepassare” o “confine”, tematica che – come vedo – continua ad accomunarci e che anche Dario Capello, nella Prefazione, ha ben identificato quando scrive: «La poesia di Rienzi si è sempre mossa, o se si vuole, ha sempre tremato su un bilico, su una linea di confine. Confine è qui parola tematica, metafora che apre i due mondi».

 

Fu l’urlo del lupo l’estrema soglia (pag. 33), il testo che chiude la prima sezione Seconda partenza e promessa, è un altro esempio di frontiera da valicare e superare, per lasciarsi terre alle spalle, per mettersi in viaggio, mangiando «pane indurito e sale»:

 

«Fu l’urlo del lupo l’estrema soglia

della notte: il giorno sarà frontiera

mai vista: superata la collina

sparisce la terra alle nostre spalle.

Consumerà il suo tempo e ogni sua ombra.»

 

Ed anche la dimensione notturna di questa raccolta non è lontana dal mio pensiero, come puoi immaginare, anche se in Partenze e promesse. Presagi, si arricchisce di un immancabile aspetto nigredico («Non basta il primo sguardo/ per dire se il sole sorge o è al tramonto», pag. 47).

 

L’ora dell’attesa e dei profeti mi ha regalato un altro incipit per il mio prossimo racconto, coi versi finali di Sembrava un’attesa (Isaia 55.12) che apre la sezione Cinque più due profezie postume:

           

«sembrava un’attesa

ma non capivamo di cosa.»

 

Partenze e promesse bellissime, come quelle (modello Bob Dylan) inserite a pag. 43:

            «Leggetele voi queste promesse

[…]

sulle ossa scrivetele e nel vento,

così che io le senta ovunque sia.»

 

Voglio ricordare ancora due spunti di grande suggestione emotiva.

In Su logore metafore di clepsamie (p. 103) una clessidra si fa presagio e riflette i suoi fotoni, in uno «spettro/ strettissimo tra il rosso e il viola» e le «quattro dimensioni dello spazio», una mano capovolge il tempo, «senza motivo», ma col la certezza che «riazzeri» il mondo. Ecco, queste parole evocano rimembranze e affinità tra la simbologia della clessidra e il “Circolatore” o Vaso di Hermes dell’alchimista (due bottiglie accostate per le imboccature e unite da un “luto”, un laccio imbevuto di calce e uovo, detto “sapiente” perché capace di rompersi al temine del mensis philoshopicus e liberare il preparato). Nel Circolatore, come nella clessidra o clepsamia”, si alternano evaporazioni e condensazioni, in una struttura di vetro che riporta all’otto (che rovesciato è simbolo dell’infinito: «l’immobile clessidra deposta sopra un piano orizzontale») oppure a un tempo che si muove a ritroso («Maurice […]/ vorrebbe ritornare nel ventre di sua madre», ma soprattutto si realizzano quintessenze, se ben si opera, muovendo fotoni, colori e sale, proprio come carne, latte e sangue dell’alchemica Via del Cinabro. E qui «Tutto il mio tempo è un singolo granello/ di sabbia», cioè en to pan: tutto è uno. In più, che dire di Alex, che ha tredici mesi di vita e impara a camminare, inciampa e cerca con gli occhi un lontano sostegno: «lo sguardo all’infinito il muscolo ciliare/ da fortificare», ma è compagno di sguardo di Luc («luce negli occhi»?). È una pagina profonda e che colpisce, dai contenuti non essoterici, da gustare proprio goccia a goccia. come una perfetta quintessenza, oppure da far vibrare nei sacri pentrali del petto di chi sa davvero capire.

Ma In della sapienza si è detto tutto (p. 105) il fronte si apre a esplorazioni che rendono alla conoscenza una funzione evocativa e allo stesso tempo di preziosa catarsi dell’esistenza. Qui lo scrivente si incarna nel nefelomante, che fa vaticinio leggendo le evoluzioni delle nuvole e veste lo stesso suo sguardo scrutatore del tempo («ma sono i miei stessi occhi genìa del futuro») per scoprire che «nulla hanno veduto, nulla», anche se «vedranno silenzi riprodursi». Che dire, quindi, se «della sapienza si è detto tutto/ e taciuto di più»?

 

 

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