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Il fantasma del soldato

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Il fantasma del soldato

Un paio d'anni fa mi recai in treno a Napoli, città dove svolgo una parte della mia attività lavorativa. Il treno sostò qualche minuto nella stazione di Formia. Dal finestrino potei ammirare il golfo di Gaeta, con il mare scintillante nella luce di mezzogiorno e immobile perché, visto da quella distanza, appare privo di quelle increspature che culminano in rapide creste di spuma. Poi volsi gli occhi dalla parte opposta, dove una rupe alta qualche decina di metri incombe sulla linea ferroviaria, quasi a guardia della stazione. Mi sorpresi a fissare quella rupe, del tutto insignificante dal punto di vista paesaggistico, brulla, pietrosa, punteggiata qua e là da una rada e bassa vegetazione. Perché quella desolata collinetta suscitava in me tanto interesse? E perché guardavo proprio là, in quel punto preciso quasi a metà del pendio, pochi metri prima della vetta?
A poco a poco, frammento dopo frammento, tassello dopo tassello, emerse dalle nebbie della memoria la storia che mi accingo a raccontare.
Nell'agosto del 1964, quando avevo quasi quattordici anni, andai a villeggiare a Formia con tutta la famiglia. Il medico mi aveva raccomandato il mare, come rimedio per la mia costituzione gracile e la mia salute cagionevole. Del resto il mare era per me una fonte di inesauribile divertimento. La spiaggia di Formia era il luogo preferito dei miei giochi acquatici: tuffi, nuotate, osservazione di pesci, conchiglie, granchi e tutto ciò che si poteva fare in un mare, all'epoca, pulitissimo. Il pomeriggio, quando i raggi del sole si facevano meno cocenti, esploravo la graziosa cittadina e i suoi immediati dintorni.
Un pomeriggio, appunto, decisi di arrampicarmi sulla rupe che ho sopra descritto. Attraversai con circospezione i binari e iniziai la mia escursione, con l'intento di raggiungere la vetta, da cui si gode una vista magnifica del golfo sottostante. Trovai anche uno stretto sentiero e senza troppa fatica andai su, aggrappandomi con le mani agli arbusti laddove il sentiero si faceva più ripido. Giunto a una trentina di metri in linea d'aria dalla vetta mi fermai improvvisamente: sul lato sinistro del sentiero, in un tratto pianeggiante, una bara semidissepolta ostruiva parzialmente il passaggio. Col cuore in gola, osservai quel macabro reperto: era una bara di legno massiccio, l'esposizione alle intemperie ne aveva corroso la lucidatura, ma il legno sembrava ancora integro. Tuttavia il coperchio era in parte divelto e da una fessura di qualche centimetro si intravedevano i miseri resti della salma. Mi precipitai giù per il sentiero, con la velocità di una lepre inseguita dai cacciatori e, in pochi minuti, raggiunsi l'albergo dove alloggiavamo. Lì raccontai tutto a mio padre che, con la calma di chi aveva vissuto i terribili anni della seconda guerra, mi spiegò che Formia si trovava allora sulla linea Gustav, estremo baluardo difensivo dei tedeschi per arginare l'avanzata degli alleati verso il nord. Nel '44 tutta quella zona, a cominciare da Montecassino, era stata teatro di furiosi bombardamenti. Anche Formia era stata bombardata a tappeto, la linea ferroviaria distrutta, e quasi certamente le bombe avevano colpito quello che forse era stato un cimitero di guerra tedesco. Ciò spiegava la bara dissepolta, ma rimase per me sempre un mistero il perché, a distanza di vent'anni da quegli eventi, un unico sepolcro, violato dalla furia bellica, fosse rimasto là abbandonato e dimenticato da tutti, senza che nessuno si fosse preoccupato di dare degna sepoltura alla salma dell'ignoto soldato.
Riferii tutto anche ai miei compagni di giochi, Giorgio e Marco, invitandoli a verificare di persona (cosa che fecero immediatamente) la veridicità del mio racconto. Una sera ci ritrovammo tutti e tre a passeggiare sul lungomare; la noia di quelle passeggiate ci rendeva inquieti e desiderosi di inventarci nuovi giochi. Fu Giorgio a proporne uno, veramente eccitante ai nostri occhi di adolescenti annoiati. Si trattava di raggiungere a turno e di notte il sepolcro del soldato, lasciandovi una traccia del proprio passaggio. Era una sfida fra di noi e con noi stessi, per dimostrare coraggio e indifferenza alle storie di spettri, di cui in quegli anni erano intessute le nostre letture e conversazioni. Intanto, discorrendo di questo progetto, si era fatta quasi mezzanotte e decidemmo di agire subito. Andai in albergo dove, eludendo la sorveglianza del portiere semiaddormentato, sottrassi da un armadietto, che conteneva gli attrezzi per le riparazioni, un martello e dei robusti chiodi. I miei genitori probabilmente già dormivano, abituati com'erano ai miei estivi vagabondaggi notturni. Raggiunti Giorgio e Marco, spiegai loro cosa dovevamo fare: ognuno di noi avrebbe piantato un chiodo nella bara per dimostrare agli altri l'avvenuto passaggio. Iniziai io inerpicandomi velocemente lungo il sentiero illuminato dalla luna, raggiunsi presto la bara, vi piantai il chiodo e corsi giù senza voltarmi. Lo stesso fece Giorgio, il promotore di questo gioco, il più sicuro e spavaldo. Infine venne il turno di Marco, che sembrava di noi tre il più titubante e impaurito. Indossava, per ripararsi dall'umidità della notte, una giacca a vento nera, ampia e svolazzante nella brezza marina. Andò su anche lui. Io e Giorgio restammo ad aspettarlo all'inizio del sentiero, contenti perché il gioco si stava felicemente concludendo senza che nessun fantasma si fosse manifestato. Senonché, dopo qualche minuto, vedemmo Marco tornare precipitosamente, pallido come un morto. Era tutto un tremito, non riusciva a parlare; riuscì solo a balbettare le seguenti parole: "...Mi...mi ha trattenuto...qualcosa...ho sentito che mi afferrava la giacca. Dio che paura...voglio andare a casa". L'indomani mattina era a letto con la febbre.
Sempre l'indomani mattina io e Giorgio andammo a verificare l'esito dell'impresa, un po' preoccupati per ciò che ci aveva raccontato Marco. La bara era là, con i tre chiodi: l'ultimo, quello di Marco, tratteneva un lembo di stoffa nera. Era un lembo della giacca a vento che indossava il nostro amico.

Dopo quel viaggio in treno, che mi rammentò la storia appena narrata, nelle notti senza luna il fantasma del povero soldato mi appare in sogno, quasi a rimproverarmi l'insensatezza di quel gioco sacrilego di tanti anni fa.


P.S. Chi ha soggiornato a Formia nei primi anni '60 (e ovviamente anche prima) può confermare l'esistenza di quella tomba colpita dalle bombe. Spero vivamente che oggi, a distanza di tanti anni, quel soldato senza nome, che ha trovato la guerra anche dopo la morte, abbia avuto decorosa sepoltura. La vicenda del macabro gioco attribuito a tre ragazzi - cui il sottoscritto non ha per fortuna realmente partecipato - mi fu raccontata (era una leggenda ?)nell'anno della mia villeggiatura a Formia. Il fantasma del soldato, infine, esiste veramente: se non esistesse non avrei scritto questa storia.

 Giuliano Brenna - 11/01/2011 00:15:00 [ leggi altri commenti di Giuliano Brenna » ]

Visto il commento precedente, direi che in effetti è una storia "minimal", ma molto carina, un ricordo d’infanzia e come tale ha il suo gusto speciale per chi lo racconta e, scrivendo, lo rivive. Tuttavia è molto godibile per chi legge, un racconto breve ben scritto e completo nella sua essenzialità. In breve, mi è piaciuto.

 Alberto Rizzo - 10/01/2011 07:28:00 [ leggi altri commenti di Alberto Rizzo » ]

Al Sig.DadaDaAa,
ogni commento, ancorché negativo, è comunque un segno di attenzione; l’indifferenza, infatti, induce al silenzio.
La ringrazio per la (s)cortese attenzione e le invio in miei migliori saluti.






 DadaDaAa - 07/01/2011 21:31:00 [ leggi altri commenti di DadaDaAa » ]

ehm... credo sia poca cosa, solo una storiella e personalmente da un racconto pretendo molto più.

comunque un saluto :)

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