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Illegali vene

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Questo l’autore vuole: salvare ciò che resta ai margini o del tutto fuori, l’appena intravisto, e  il non visto e il non detto, evitando che qualcosa o qualcuno venga per sempre obliato. Da qui la necessità di scrivere, pur nella consapevolezza del limite della parola, scrivere per lasciare aperto il dialogo, il flusso della vita, cosa che presuppone l’esistenza di un io e di un tu, che in qualche modo hanno conservato la voglia di mettere in comunione l’esistente, recuperandone la novità e la luce offerta ogni mattina dalla vita che comincia dietro i vetri di una stanza, sempre vocando che “si aggreghi una voce /a una mano più nuova” così da poter dire che “tutto è oriente / e tutto è luminoso / e senza peso”. Contro il continuo rischio di cadere nel vuoto o di rimanere intrappolati in paesaggi algidi ed aspri, la scrittura si offre, dunque, come preghiera, perché tutto venga recuperato e consacrato, sia che si tratti di briciole di pane e di minuscoli insetti, che di tigri, gibboni e giraffe.

L’invito reiterato ad oltrepassare il bianco, il silenzio, la recisione, lo smarrimento, avviene anche per forza di un’instancabile amore nei confronti del corpo musicale delle parole. Sono i suoni, infatti, a cucire i margini aperti della ferita (causata dal desiderio, destinato a fallire, di capire e conoscere ragionevolmente il mondo) attraverso un evento emozionale e/o irrazionale: quello che ha origine “dal lato / sinistro, dalla mano / che traccia un capogiro”, quale può essere un gioco combinatorio di parole con un  effetto incantatorio, quasi di  lallazione infantile.

L’autore ritorna, allora, al segno come farsi di un sogno in cui il tempo e lo spazio terreni scompaiono a favore di una fluidità senza argini costringenti; ed il lettore dei suoi versi ha l’impressione di compiere un viaggio onirico dove tutte le cose affiorano come significanti allusivi, come icone cariche di annunci misteriosi, di sapienze segrete.

È evidente come il libro ubbidisca ad una consapevole e sapiente partitura compositiva, che fa della Parola la protagonista, rivelando che l’autore è colui il quale, scrivendo, impara da ciò che ha scritto ad avvicinare il visibile e l’invisibile, e che, dunque, l’io (lo scrivente) e il tu (la scrittura) non sono realtà distinte, ma una sola unità nella dinamicità del confronto. Affermazione che facilmente trapassa dalla relazione scrittore-scrittura a quella tra scrittore (io) e lettore (tu), se è vero che, come prima si diceva, la poesia è intesa più come comunione che come comunicazione: è l’appropriamento del corpo mitico-mistico della parola poetica da parte del lettore che esige il suo ritorno, mentre lo vede, lo ascolta e lo interroga, determinandone il destino come un messaggio necessario. L’acuto prefatore della breve silloge, Eugenio Lucrezi, identifica nel tu una donna, ma, sebbene sembri un’interpretazione diversa, in fin dei conti non lo è, dal momento che individua comunque una relazione amorosa.

Ogni poesia di Alfonso Lentini è, di fatto, una relazione amorosa di suoni. Per questo i suoi testi poetici sono da recitare a voce bassa, quasi cantandone lentamente le parole che s’inseguono e s’incastrano fra loro: così nella prima poesia: ghiacci-graffi-tracci, e lastre-incastri; e gole-voli-parole; lago che quasi inverte gole: una manciata di parole che fanno precipitare dall’alto di luminosi ghiacci in un lago, suo “difficile” specchio di parole, ma non senza lasciare graffi e incastri di voli. Un rito solenne di conoscenza che ricorda il sacrificio di Icaro, il primo ad evadere dal labirinto, simbolo dell’assurdità delle prigioni razionali.

 

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