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Praticare la notte

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La grazia feroce dell’esilio nella poesia di Ksenja Laginja

 

C’è quasi una ferocia titanica nella poesia di Ksenja Laginja,  che fa ciò che raccomanda Paul Valery, da lei citato: “entrare dentro se stessi armati fino ai denti”.  Essa è preannunciata dal titolo della silloge: Praticare la notte, che in qualche modo rimanda a quello del celebre romanzo di Céline, Voyage au bout de la nuit  con il quale  condivide soprattutto quel prendere le distanze dalla vita umana ( per entrambi per lo più dis-umana o sub-umana)  fin quasi a desiderare di vivere nelle profondità marine, munita di branchie e pinne anziché di polmoni. 

Da qui ha origine quel titanismo, come si diceva, dell’autrice che, nell’ ingaggiare la sua guerra contro il mondo,  è costretta a mitizzare, facendone un punto di forza, il peso divorante della sua solitudine, che si erge “alta e verticale” come “una roccia a picco sul mare” su quella che lei chiama “assenza orizzontale”,  ossia sul vuoto che le appare  l’esistenza, imbastardita com’è dalle medesime costrizioni e addomesticamenti del pensiero comune.

Così, anche se nei versi dell’autrice, sono presenti, sia pure per vaghi accenni, altre figure, è lei che sempre parla a se stessa, che si guarda dentro e si scopre ferita, tormentata, assediata. Se un colloquio c’è, ( e in esso lei trova un qualche ristoro),  è quello che stabilisce  con la Poesia, la quale,  a sua volta, ha da combattere la sua battaglia contro l’opacità del dire, contro l’usura dei nomi, contro la falsità degli enunciati. La poesia, infatti, deve rinominare per essere l’altra lingua, quella autentica e veritiera, la rifondante.  Ma  si tratta di un colloquio apparente, che continua ad essere, di fatto, un monologo poiché  la poeta ( direi il poeta, in generale)  è la poesia che scrive: è questa la sua “voce suono visione”, la sua trasgressività, il suo stare nel mondo con fare dissonante, la fede che le permette di “svegliarsi nel mondo/ e praticare la notte”.

Ma c’è anche un’altra notte che le attende l’autrice e la sua poesia: la morte. Nella sezione  “Dell’attesa” che segue a quella “Dell’assedio”, è lei  la protagonista che preme, si insinua, annuncia il buio ed il nulla,  che ha la sua figura nel vento che trascorre e non concede tregua, che si porta via le memorie,  “l’odore di grano e cotone in fiore”, i nomi;  lei che, come scrive Jaime Saenz, altro autore  citato dall’autrice,  “ti dolgo, ti vivo e ti muoio”. 

Cosa sia la morte, però, è altra cosa di cui quasi nulla ci è dato sapere, così come della vita. Ci sono due testi illuminanti a tale proposito e che ogni lettore dovrebbe mettere a confronto: uno, quello dedicato alla morte,  inizia così: Per alcuni è il giorno più bello; e l’altro, quello dedicato alla vita: Ti confesso che non è stato semplice. Nel primo la morte viene definita in molti modi: “il giorno più bello”, “l’estremo scoglio su cui giacere,/ il virtuoso punto d’osservazione,/ il principio, il riscatto, la via d’uscita”, “l’abisso,/ l’ennesimo da cui non poter risalire”, ma anche “l’essenza, il gioco, il riflesso di noi”. Dinanzi ad essa si balbetta, insomma, non si sa altro se non che siamo creature di passaggio. Così come non si comprende cosa sia la vita: “Ti confesso che tutto quel trambusto/ ancora non l’ho compreso/ e mi domando ancora ingenuamente/ cosa sia questo movimento interno/ che squassa l’anima e la carne tutta”.

È in questi testi che l’autrice ci appare nella sua nudità di creatura che sembra arresa all’inafferrabilità del suo iniziare ed essere in un certo tempo e del suo dovere finire per sempre,  visto che nessuna realtà ultraterrena, nessuna visione metafisica sembra frapporsi  tra  questo suo sguardo disincantato e lucidissimo e il tempo che gli sta oltre.

Leggere la poesia di Ksenja Laginja è anche trovarsi di fronte ad una struttura organizzata attorno a dei termini  ricorrenti, quali solitudine, assenza, buio, notte (insieme a pochi altri), che s’incastonano all’interno di un tessuto linguistico asciutto e spesso sonoramente cupo, inteso come proiezione di un dolente stato interiore. Ne derivano una forza perentoria, che nemmeno una certa enigmaticità infragilisce, e quella severa grazia che è propria di chi coltiva la disperazione ed il suo sentirsi esule nel mondo.

 

 

 

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