A òlte
Iè raro, ma no’ posso dir
de non sentirme mai solo
o orbo. Sì, a òlte vorìa
che te vegnissi fóra
da ’na vecia fotografia,
cofà pa’ liberarme de le robe
picinine del tenpo de ancuò
e de la vita che se strassina
co’l soito tran tran.
Forse no’ digo gnente
che no’ te sapi zà.
Comuncue, gò bisogno
de ‘ndare drento ’na pagina,
de tentare a spiegarme
parché no’ podarò pì vedare
’na imagine de ti
che no’ gabia zà visto e rivisto.
Iè raro, credame, ma a òlte
gò bisogno de scrivare
cofà on carbon ardente.
A volte
È raro, ma non posso dire
di non sentirmi mai solo
o accecato.
Sì, a volte vorrei che uscissi
da una vecchia fotografia,
così da liberarmi delle cose
piccole del presente
e della vita che si trascina
con il solito tran tran.
Forse non dico niente
che tu non sappia già.
Comunque, ho bisogno
di entrare in un foglio,
di tentare a spiegarmi perché
non potrò più vedere
un’immagine di te
che non abbia già visto e rivisto.
È raro, credimi, ma a volte
ho bisogno di scrivere
come un carbone ardente.
’Ncora sì
Digo ti a chi? Cue’i che ciamo
no’i respira pi sta aria.
So chi porto in-te ’l cuore,
ma chi ciamo lo sa? Gà
poca importanzha, del resto.
No’ me ‘speto gnente da le parole,
ma spero che ogni parola
no’ la rinforzhi e anzhi
che l’adolcissa l’ignoranzha
‘traverso le lagreme. No’ scrivo
pa’ sepeire el me tesoro,
né pa’ serare i oci. Scrivo
pa’ dire ’ncora sì, pa’ sentire
de esistere da cualche parte
e parché xe el modo pì senplice
de ricordare, in-tel ’l senso
che basta poco. Xe suficente
on foijo e ’na matita. Eco, Solo:
da tegnere a portata de man,
anca e specialmente pa’ canceare.
Oramai xe ’na roba
che fasso pa’ abitudine.
Alo steso modo de Emilio Isgrò,
canceo pa’ ricordare de no’ ricordare.
Zà, proprio cussi:
oblio e memoria i iè i me roghi.
Ancora sì
Dico tu a chi? Quelli che chiamo
non respirano più quest’aria.
Io so chi porto nel cuore,
ma chi chiamo lo sa? Ha poca
importanza, del resto. Non mi aspetto
niente dalle parole, ma spero
che ogni parola non rinforzi
e anzi addolcisca l’ignoranza
attraverso le lacrime. Non scrivo
per seppellire il mio tesoro,
né per chiudere gli occhi. Scrivo
per dire ancora sì, per sentire
che esisto da qualche parte
e perché è il modo più semplice
per ricordare, nel senso
che basta poco. È sufficiente
un foglio e una matita. Ecco.
Soltanto: da tenere a portata di mano,
anche e specialmente per cancellare.
Ormai è una cosa che faccio per abitudine.
Alla stessa stregua di Emilio Isgrò,
cancello per ricordare di non ricordare.
Già, proprio così:
oblio e memoria sono i miei roghi.
Fasso la pónta
Torno al foijo e a la matita.
Altrimenti devento mato.
Tuto canbia. O gnente.
Xe come se, colpìo in-te ’l profondo
da le parole de Thierry, fusse
precipità da on incubo a nantro.
Simie, ma diferente.
Gnente canbia. O tuto.
Forse morire ’na seconda òlta
zhonta calcossa.
La testa me s’ciopa.
Fasso la pónta a la matita.
No’ scrivo, ma disegno:
dó lapidi su le cua’i riporto
lo stesso nome e dó
date de morte che no’ le conbacia.
Sospiro.
Dopo giro el foijo.
Scrivo;
«Ovuncue te coli a pico,
l’abisso no’ esiste pì».
Appunto la matita
Torno al foglio e alla matita.
Altrimenti impazzisco.
Tutto cambia. O niente.
È come se, colpito nel profondo
dalle parole di Thierry, fossi
precipitato da un incubo a un altro.
Simile, ma differente.
Niente cambia. O tutto.
Forse morire una seconda volta
aggiunge qualcosa.
La testa mi scoppia.
Appunto la matita.
Non scrivo, ma disegno:
due lapidi su cui riporto
lo stesso nome e due
date di morte che non combaciano.
Sospiro.
Poi giro il foglio.
Scrivo:
«Ovunque t’immergi,
l’abisso non esiste più».
[ da Teatrin de vozhi e sienzhi - Teatrino di voci e silenzi, Renzo Favaron, Ronzani Editore ]