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Raccolta di testi in prosa di Giampiero Di Marco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Quello che succede al vicolo S. Lucia

Quello che succede al vicolo S. Lucia


Erano rimasti nell’androne dell’Ospedale inebetiti e tremanti, più per la paura di una qualsiasi punizione che per il fatto accaduto e si sorreggevano l’uno con l’altra come i tre ciechi del quadro di Bruegel.
L’uomo col suo sorriso da ebete ed i capelli arruffati, con gli occhi spalancati, sgranati quasi, nello sforzo di capire qualcosa e le due donne, la moglie e la suocera aggrappate a lui e , tuttavia, scosse come da un tremito come alberi sotto la furia del vento.
I loro occhi erano asciutti e senza lacrime, piuttosto in essi c’era la paura dell’animale che viene inseguito.
Avevano portato quella mattina al pronto soccorso dell’ospedale il corpicino del loro figlio lattante, avvolto in un rotolo di stracci che una volta era stato una coperta.
Al medico di guardia avevano raccontato che il bambino aveva pianto tutta la notte.
Ma il bambino giaceva cadavere ormai, tra gli stracci.
I poveri panni che lo ricoprivano erano macchiati e sporchi in un miscuglio indefinibile di unto, di caffé, salsa ed escrementi.
Il musetto livido con un grumo di muco giallastro e denso appiccicato al naso, croste di nero antico alle sopracciglia, ombre bluastre sul corpo.
Giaceva spezzato e scomposto sul lettino di pronto soccorso, tragico giocattolo rotto messo in mani inesperte.
I genitori si erano conosciuti durante qualche loro non infrequente soggiorno al manicomio, dove periodicamente erano condotti dalla pietà di parenti o da autorità stufe delle loro intemperanze.
I due più che matti, erano affetti da una grave forma di epilessia, ma l’abuso di alcool e l’incostante assunzione di farmaci, li faceva frequentemente esibire in grandi crisi e violente zuffe per le vie cittadine.
Le liti erano sempre causate dalla gelosia dell’uomo, convinto che qualche altro essere di sesso maschile potesse guardare con desiderio quella sua donna.
Incitato ed eccitato da qualche buon vicino, la inseguiva così per la strada, brandendo minacciosamente una pistola giocattolo che portava perennemente alla cintola, infilata in un bel cinturone di cuoio con tanto di fondina.
La riempiva di pugni non appena la raggiungeva.
Perché la raggiungeva oppure, forse, la donna voleva farsi raggiungere e picchiare e girare poi con un bell’occhio nero con la stessa fierezza delle donne napoletane, che ai primi del secolo venivano sfregiate dai loro amanti.
Anche quello è amore!
A distanza, urlando e berciando con rauchi suoni inarticolati, li seguiva la vecchia madre, una nana, anch’essa grande epilettica, zoppa e storta con un occhio strabico e quasi fuori dell’orbita.
Ed erano botte anche per lei, quando finalmente arrancando raggiungeva la figlia, che giaceva ormai riversa sull’asfalto del marciapiede, ululante grida acutissime sotto la gragnuola di colpi e di calci.
Finalmente le due donne si rialzavano e ripercorrevano, sostenendosi a vicenda, il corso cittadino tra l’indifferenza dei passanti e con un codazzo di monelli che li seguiva con un coro di schiamazzi.
Le due donne avanti curve e doloranti e il marito qualche passo indietro, che marciava con piglio marziale, dopo aver finalmente riposto con fermezza la pistola nella fondina.
Si dirigevano così a rintanarsi nel loro tugurio che avevano comperato a caro prezzo, dato che i tre oltre alla pensione, riscuotevano anche le rispettive indennità di accompagnamento.
Insomma, quanto ad entrate, stavano più che bene rispetto alla massa di affamati disoccupati che li attorniavano in quel lurido quartiere.
Quel loro tugurio l’avevano riempito delle cose più inverosimili, stracci e oggetti che recuperavano dallo sversatoio di immondizie, là nella cupa a monte della città e poi provviste alimentari in grande quantità fornite loro da bottegai interessati, vendute a prezzi esorbitanti, perché i tre non capivano neanche il valore dei soldi e che per lo più deperivano dal momento che non avevano frigorifero, né tantomeno luce elettrica.
Nessuna squadra era voluta entrare ad installare il contatore elettrico per il puzzo e il lordume di mura e pavimenti.
Vivevano tra i topi che ballavano sui tavoli.
Era venuto quel bimbo, così perché la natura non sa bene dove le sue leggi vadano a trovare una casa per la loro applicazione.
Un pupazzo di pezza, trascinato in giro nelle peregrinazioni giornaliere dall’immondezzaio all’osteria.
Aveva pianto quella notte, forse disturbando il sonno pesante, il letargo dell’alcool o il greve stupore del barbiturico.
Erano rimasti lì quel mattino, schiacciati dal peso di quella morte che stentavano a comprendere, muti, girando intorno lo sguardo di bestie braccate.

*

La casa sulla collina

La casa sulla collina

Ad andarsene da quel paese Alvito ci pensava da solo tutte le mattine, quando si alzava che era ancora buio per recarsi in campagna.
Non c’era bisogno che Maria Lombardi glielo ripetesse tutte le volte che lo incontrava.
Ancora pieno di sonno e tutto intirizzito per il freddo si avviava al lavoro e, prima di volgergli le spalle, prendendo per la vecchia strada di monte Ofelio, ogni mattina non poteva fare a meno di lanciare uno sguardo al ponte ed alle sue poderose arcate ancora avvolte in una nebbia azzurrina laggiù nella valle.
Quel ponte divideva il paese dalla grande strada per Napoli e dal mondo!
Erano molti coloro che lo avevano attraversato in cerca di fortuna e si erano perduti per tutte le strade della terra.
Me ne vado, non ti preoccupare!
Rispondeva scontroso ogni volta alla donna, mentre spingeva ad affrettarsi il mulo rifilandogli un calcio appena sotto il basto.
Del resto anche suo fratello, più grande di qualche anno, non se n’era già fuggito in America per non partire soldato nella guerra di Libia?
Brigante sì, carabiniere no!
Era la regola di famiglia, fin dai tempi di suo nonno, che era stato soldato di Franceschiello ed era rimasto a Gaeta fino alla fine.
Non che il nonno fosse particolarmente attaccato alla divisa borbonica, che lui soldato c’era andato perché costretto, e, anzi, preti e galantuomini non gli erano mai piaciuti.
Ma quei galantuomini diventarono garibaldini e piemontesi in una sola notte e soltanto quando fu proprio chiaro che avrebbero vinto questi altri, e solo allora innalzarono il tricolore sul municipio.
Così li aveva visti fare mentre le truppe borboniche si ritiravano dalla piana del Garigliano per andare a rinchiudersi nella fortezza di Gaeta.
E fu proprio questo a non farlo disertare.
Da Gaeta era tornato con una palla in un piede, che lo fece zoppicare per tutta la vita, e col tifo esantematico che lo costrinse ad una lunga convalescenza nell’ospedale militare ricavato dai vincitori nel vecchio convento della Trinita.
I poveri fantaccini se ne tornarono a casa senza neanche riscuotere il soldo che il Borbone aveva versato nel debito pubblico, lanciato a Gaeta, per mantenere lo stato di assedio. Anche il nonno era tornato a fare il contadino.
I galantuomini del paese, che avevano fatta la rivoluzione di un giorno, avevano aperto, invece, un circolo di garibaldini. Lì si riunivano e ogni tanto organizzavano cortei e sfilate con tanto di fanfara e di camicia rossa, parlando sempre di nuove ardimentose imprese, che poi chissà quale poveraccio avrebbe combattuto, perché di partire, quelli, per qualsiasi fronte, non avevano la minima intenzione.
Ma quelli, si sa, sapevano scrivere, e la storia se l’erano riscritta a modo loro, inventandosi partecipazioni fantasiose a strepitosi fatti d’arme ed eroici comportamenti in faccia al nemico, che poi giustificavano i posti preminenti e remunerativi che occupavano nel nuovo ordine delle cose susseguente alla rivoluzione.
Il vecchio ci sformava ancora a vedere borbonici di fede provata sfilare impettiti per le vie del paese dietro il nuovo vessillo tricolore, dopo che l’oratore di turno aveva pronunziato uno dei tanto fiammeggianti discorsi.
Garibaldi aveva promesso di dare le terre ai contadini e questo era buono, ma quale condottiero aveva mai invaso il regno senza fare la stessa cosa?
Ma quando si trattò di vendere le terre espropriate alla Chiesa, furono loro, i galantuomini, che ne profittarono, comperandole per quattro soldi.
E non contenti di quanto avevano comperato, si appropriarono anche delle terre del demanio, dove i poveri e i senza terra avevano da secoli il diritto di legnatico e fienagione. Lo fecero, questo, semplicemente ridisegnando sulle carte comunali i nuovi confini, spostando i vecchi dei loro possedimenti.
E chi li avrebbe controllati?
Erano loro che governavano le cose del Comune!
Anche Franceschiello a Gaeta aveva promesso le terre. E chissà forse lo avrebbe fatto davvero. O forse l’avrebbe fatto la bella regina, che girava sugli spalti del forte, infondendo coraggio a quei giovani che morivano soltanto per un suo sorriso ormai.
E sarebbe stato meglio se avessero diviso le terre tra i contadini poveri che almeno le avrebbero coltivate.
Invece le navi a vapore cominciarono a trasportare grano dalle Americhe a poco prezzo e, in breve tempo, i latifondi divennero terreni incolti e ricoperti solo di sterpaglie.
Fu la disoccupazione che portò il brigantaggio.
Perché quando c’è la fame crollano gli ideali ed i sentimenti umani, si ritorna lupi e si azzanna il primo morso buono a portata di denti.
Quella era stata una terra di feroci briganti e ancora adesso, a distanza di tanti anni, i nomi dei briganti Pace, Guerra e Fuoco mettevano i brividi nelle ossa.
Le bande di briganti erano come piccoli eserciti, mobilissimi, padroni del territorio, pronti a disperdersi nei casolari di campagna dove i contadini li accoglievano e fornivano nascondigli.
I contadini poveri erano attratti dalla vita del brigante.
Questo non tanto, o non soltanto, per motivi politici perché la miseria presente facilmente fa idealizzare un tempo passato, che appare felice.
Piuttosto la maggior parte era spinta dalla disperazione di una vita di stenti, alla quale si aggiungevano i soprusi di ogni sorta perpetrati da una classe di proprietari ancora peggiore della vecchia del tempo antico, che, per lo più risiedeva in città.
Il brigante invece armato del suo schioppo viveva libero dalla schiavitù di una terra avara. Ben fornito di donne e di vino viveva felice tra i boschi di castagno del massiccio del Roccamonfina o del Matese.
Molto meglio quella vita rispetto a quella del contadino, tormentata dalle febbri malariche prese a lavorare nel Pantano.
Ma il brigante faceva una brutta fine!
La Guardia Nazionale gli dava la caccia, i suoi stessi compagni lo tradivano per guadagnare la taglia. E se veniva preso con le armi in pugno, era fucilato sul posto e trascinato cadavere nella piazza del paese.
Era fortunato quando, imprigionato, veniva condannato a una lunga pena da scontare nei bagni penali, nelle fosse di Favignana o del Marettimo.
Ma finchè durava era una bella vita.
Preti e galantuomini lo temevano e riverivano.
Dovevate vedere i notabili del paese blandire e vezzeggiare persino i figli piccini del capo brigante e disputarsi l’onore di offrire una presa d’assenzio a qualche suo lontano parente in odore d’intimità!
Le donne dei briganti poi erano ossequiate, quando passavano per la strada, cariche d’oro e cannacchi, come la statua della Madonna del Popolo, quando la portano in processione.
Un fratello del nonno era stato anche lui brigante, con la banda di Fuoco.
E per lui c’era sempre un riparo nella grotta scavata nella roccia, nascosta dalla folta vegetazione del rio della Travata che costeggiava la terra del nonno.
Alla fine era stato preso.
Lo avevano ammazzato in uno scontro a fuoco sulle pendici del Massico.
Alvito ricordava quante volte il nonno, accanto al focolare nelle sere d’inverno, aveva raccontato le gesta di questo suo fratello.
Quando il tempo da passare era lungo e la cena era scarsa, il vecchio cavava la pipa di terracotta dal panciotto e se l’accendeva con cura tirando lungamente nella canna.
Era il segno che attendevano i numerosi nipoti che si raccoglievano intorno a lui.
Seduto accanto al fuoco narrava ai nipoti la sua vita di soldato e le gesta dei briganti contro i piemontesi e i mille soprusi che aveva subito nella sua lunga vita.


* *
Maria Lombardi c’era nata in quella casa di pietra sulla collina di monte Ofelio.
Suo padre se l’era voluta costruire lontano dal paese, proprio sulla spianata che guardava verso il golfo di Gaeta.
Lontano dal paese e soprattutto lontano dalla gente del paese!
Per arrivarci bisognava inerpicarsi per una stradina appena disegnata nel bosco che iniziava proprio dietro la chiesa vecchia.
La strada appena tracciata che bisognava sempre difendere dall’attacco delle felci, attraversava un bosco di castagni e saliva su per la collina, fino alla grande casa di pietra nascosta dalla vegetazione.
Soltanto qualche cacciatore o un cercatore di funghi arrivava fin lassù.
La gente del paese girava alla larga.
Anzi storie terribili si raccontavano su quella casa e sulla gente che ci viveva.
Specialmente da quando il nonno di Maria era tornato dall’esilio, dove aveva trascorso lunghi anni per aver partecipato ai moti anarchici del Matese insieme a Cafiero e a Malatesta.
Il vecchio rivoluzionario era tornato al paese e trascorreva tutto il suo tempo girando per le campagne. Non parlava con nessuno.
Camminava lentamente, guardando davanti a se, con le mani unite dietro la schiena e qualche volta con un giornale spiegato che gli nascondeva la faccia.
I contadini al lavoro nei campi, alzando lo sguardo, si trovavano dinanzi la barbaccia incolta del vecchio ed il suo cipiglio corrucciato e si segnavano la fronte.
Venti anni era mancato!
Ma lui voleva solo dare le terre ai contadini e mandare via il Re.
Che pazzi ad aver creduto che bastasse bruciare le carte del Municipio di Letino sulle montagne del Matese e le cambiali e le fedi di credito ed i registri e gli atti notarili.
La proprietà non si cancella così.
Il giorno seguente quello della rivoluzione sedata nel sangue dai soldati, i proprietari stavano lì, punto e da capo.
Del resto anche lui conosceva i termini del suo fondo, non dalle carte, ma dal nocciolo piantato sul ciglione e dalla quercia sulla ripa.
Ma era giovane ancora ed il sangue gli scorreva veloce nelle vene e quei suoi amici gli parlavano con calore del russo, che aveva promesso un nuovo quarantotto a tutta l’Europa ed anche lui era stato sedotto dalle sue idee.
Lui in esilio era rimasta la moglie a tirare la carretta e a crescere l’unico figlio.
E per fortuna che la terra apparteneva ai suoi e non avevano potuto toccargliela!
Era morta la poveretta senza averlo rivisto.
Se l’era portata via una banale diarrea che un asino di medico aveva scambiato per colera e non s’era nemmeno voluto avvicinare.
Era tornato finalmente ed aveva ritrovato il figlio, ormai grande, sposato e con tre figlie, che lavorava come perito agrario.
Questa nipote poi, ormai grandicella, lo seguiva dappertutto.
A lei raccontava dei suoi sogni giovanili, di Garibaldi, di Bakunin, di Malatesta, del povero Cafiero, il rpmantico sognatore che aveva speso il suo patrimonio per la causa ed era finito in Manicomio e del sogno anarchico di una società di eguali.
Ma per essere eguali fino in fondo, occorreva per prima cosa essere eguali uomini e donne, ricorda.
C’era stato un uomo eletto in quel Collegio che aveva parlato per primo in Parlamento della questione della donna.
In aula e sui giornali gli ridevano appresso, ma Morelli aveva ragione.
La bambina ascoltava rapita i discorsi rivoluzionari del vecchio e se ne restava assorta ed attenta ad ascoltare la cronaca dei primi scioperi contadini della Bassa Padana.
Ma era il racconto della povertà e della fierezza di Salvatore Morelli che la commuoveva.
Voglio fare un mestiere da maschio, esclamava alle tirate del nonno, il medico, che so, o l’avvocato. Non sarò mai inferiore a nessun uomo.
Assalti ai comuni nel sud avvenivano ancora ed il vecchio commentava con qualche imprecazione quei moti più o meno spontanei.
Vedeva commettere ancora gli stessi errori e l’esercito, ogni tanto, si lasciava dietro qualche morto.
Ma cosa credevano di fare?
Ma lo sapevano che ci vuole un’organizzazione per fare certe cose?
La casa sulla collina, intanto, era diventata un punto di riferimento di strani personaggi.
Ogni tanto qualcuno veniva anche da molto lontano.
Di sera qualcuno restava a dormire nella casa, tra le lamentele sommesse della nuora.
Aveva paura la donna che il vecchio potesse ancora combinare qualcosa e che ci potessero andare di mezzo tutti.
Lentamente si tessevano le fila del nuovo partito socialista, nel quale erano confluiti anche i vecchi leoni anarchici.
Nei giorni di fiera, profittando del mercato del giovedì, si riunivano i pochi socialisti della zona. Venivano anche da Castelforte, da Spigno, Maranola, da Itri e persino da Sora e San Germano. Dal piccolo centro vicino erano soprattutto gli artigiani e dalle campagne i braccianti ed i contadini poveri ad aderire.
Il vecchio diffidava dei galantuomini ed erano rari anche gli studenti.
Diceva che il mondo nuovo doveva essere costruito con la classe operaia.
Anche Malatesta era tornato dall’esilio.
L’anno precedente ad Adua per inseguire un sogno coloniale erano morti seimila poveracci, quasi tutti contadini del sud. Con l’avventura coloniale il vecchio ce l’aveva davvero e con quell’imbecille di Pascoli che l’aveva persino benedetta.
Si può sapere che bisogno c’è di andare fin laggiù a caccia di terra?
Eccola la terra per cui combattere.
Al suo piccolo e attento uditorio indicava con la mano le terre demaniali del Comune, migliaia di moggia di terra acquitrinosa e malarica, da sempre regno incontrastato del bufalo. Quelle terre potevano essere bonificate e messe a coltura, divise in piccoli poderi avrebbero assicurato lavoro ed eliminato la piaga dell’emigrazione.
Già allora il vecchio aveva convinto molti, che erano stati sorteggiati per la leva militare, ad espatriare clandestinamente.
Meglio l’emigrazione forzata che una guerra ingiusta.
L’unica guerra che sarebbe stato giusto combattere era quella da fare contro i padroni.
Ma per vincere questa guerra, bisognava prepararla!
E una volta vinta, bisogna saper mantenere il potere.
Occorre saper governare, se non volevano rimettere di nuovo il potere conquistato nelle mani di preti e signori.
L’annata del 1897 fu peggiore delle altre ed il malcontento nelle campagne cresceva come un fuoco covato sotto le ceneri.
Il vecchio sembrava invece ringiovanito, correva galvanizzato ad organizzare riunioni e la polizia si era persino ricordata di lui e lo teneva d’occhio con discrezione.
Tumulti e sommosse sconvolgevano tutta la nazione e l’unica copia dell’Avanti che giungeva in paese veniva letta la sera attorno al grande camino lassù sulla collina.
Il vecchio spiegava parola per parola quello che accadeva a Roma in Parlamento.
Parlava di Cavallotti, di Andrea Costa, di Leonida Bissolati, delle Leghe operaie e contadine del nord.



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L’appuntamento era per i primi giorni di Aprile a San Lupo in provincia di Benevento, cominciò a raccontare il vecchio, stendendo le gambe davanti al grande camino acceso nella cucina della casa sulla collina. Era una di quelle serate d’inverno nelle quali il tempo con la promessa di pioggia, se non di peggio, e col freddo di un vento di tramontana che si incanalava nei valloni di monte Cortinella e urlava contro i castagni selvatici e contro finestre e porte sconnesse ti costringeva in casa ad un ozio forzato. Non c’era altro da fare che accendere il fuoco nel camino, piazzarci sopra un bel ciocco di castagno e meglio ancora di ulivo o di quercia, perchè il castagno scoppietta e brucia male e sedersi attorno al fuoco. La sera c’era sempre qualcuno che saliva su per la collina. I pochi socialisti, per lo più artigiani, scalpellini, qualche raro studente, figlio di vecchi compagni, un fabbro. Salivano a uno a uno senza dare nell’occhio, per scambiare qualche opinione e anche per il piacere di stare insieme. Il vecchio spillava dalla botte in cantina un capace quartarone di vino, metteva le castagne sul fuoco, che qualcuno aveva provveduto ad incidere prima e qualche volta si lasciava andare ai ricordi. Pensavamo che la zona del Matese fosse un posto buono, in passato lì era stato forte il brigantaggio, ma anche perché la zona era abbastanza vicina a Napoli dove forse l’inizio della rivolta avrebbe potuto avere ripercussioni. Quante illusioni! Comunque San Lupo era stato scelto da Malatesta che era stato compagno di studi all’Università di Napoli del notaio De Giorgio che ora faceva il sindaco del paese. Alcuni di noi però già eravamo nella zona dal mese di marzo. Kravcinskij, un russo che noi però chiamavamo Stepnjak, ci faceva da istruttore militare e ci esercitavamo a sparare col fucile e soprattutto nella preparazione di bombe rudimentali. Di sicuro mi ricordo il 28 marzo eravamo lì, me lo ricordo bene, perchè ci riunimmo nella taverna Jacobelli per commemorare l’anniversario della Comune di Parigi e scrivemmo anche sulla parete della taverna una specie di targa in ricordo della grande insurrezione del popolo parigino il 28 marzo 1871. Noi anarchici ci consideravamo i continuatori, gli eredi della Comune e di quella rivolta, il nostro vessillo era rosso e nero come quello dei comunardi. Il giorno 2 aprile vennero a San Lupo Errico Malatesta, Cafiero e Maria Volkhowskaja la moglie di Stepnjak. Con un calesse spacciandosi per turisti inglesi e con l’aiuto del sindaco presero in fitto il locale della taverna. Questa faceva parte dei beni di Achille Jacobelli, ex maggiore della Guardia Nazionale nel 1848 e il sindaco notaio ne era amministratore. Nella taverna vennero scaricate le casse con le armi e dopo un breve giro di ricognizione dei luoghi i tre se ne tornarono a Napoli. Ritornarono il giorno dopo con altre casse e quel giorno giunsero i fratelli Ceccarelli. Dovevamo essere un centinaio ma le cose andarono male fin dall’inizio. Stepniak era stato arrestato e non venne, così anche altri vennero fermati a Roma mentre erano in procinto di partire. Quindi alla fine eravamo in pochi. Da Fabriano era venuto Napoleone Papini, che aveva allora venti anni e divenne il portabandiera del gruppo. Insieme a lui e dallo stesso paese venne Sisto Spari detto il Buscarino e uno studente di diciotto anni Francesco Ginnasi. Ancora Antonio Starnari che aveva lavorato a Fabriano come cameriere e faceva parte del gruppo di Papini. Il gruppo più numeroso era quello dei romagnoli con Giuseppe Bennati, Luigi Castellazzi un calzolaio, Ugo Conti che era un garzone di macelleria, Antonio Cornacchia detto il Bavarese, un muratore, Sante Celoni anche lui scalpellino e ancora Ariodante Facchini, un altro muratore Domenico Paggi e Domenico Bezzi suo collega, ancora Carlo Gualandi e Giovanni Bianchini. Toscani erano invece Alamiro Bianchi sarto, Guglielmo Sbigoli impiegato e Giovanni Volponi muratore. Altri due compagni erano il tipografo Antonio Lazzarri e Carlo Pullotta. In tutto eravamo poco al di sopra della venti unità. Malatesta aveva contattato un certo Farina, un ex garibaldino del luogo, almeno come tale era conosciuto. Gli affidò il compito della propaganda verso i contadini per cercare di averli in nostro favore per la rivolta. Ma Farina era moneta falsa e fece la spia ai carabinieri i quali, a nostra insaputa, ci tenevano d’occhio da giorni. Nella notte tra il 4 ed il 5 di aprile, mentre stavamo nella taverna e aspettavamo che venissero altri compagni, ci accorgemmo della presenza di una pattuglia di carabinieri che sembrava stare lì proprio per noi. Lanciato l’allarme, riuscimmo a fuggire, sparando qualche colpo di fucile che provocò anche la ferita di due militi. Usciti in tutta fretta dal paese, scendemmo verso il ponte delle Janare e poco più avanti, prendemmo il sentiero, il primo che trovammo che saliva ripido verso monte Santa Croce. Il tentativo di insurrezione a San Lupo era miseramente fallito e ci ritrovammo a fuggire per una strada di montagna di notte e senza nessuno che ci guidasse. Camminammo tutta la notte e faceva tra l’altro anche un freddo terribile. In alcune zone la neve non si era ancora sciolta.
Camminammo per due giorni, trovando appena rifugio in qualche stalla di pastori dai quali riuscimmo a comperare un po’ di pane e formaggio. Finalmente l’8 di domenica arrivammo al paese di Letino, qui ci schierammo come una formazione e preceduti dal portabandiera col drappo rosso e nero facemmo la nostra bella entrata nel paese. Ci dirigiamo verso il Municipio dove in quel momento è in corso una seduta del consiglio comunale. Figuratevi stavano decidendo cosa fare di quattro accette arrugginite e vecchi fucili sequestrati a bracconieri e a poveracci sorpresi a rubare legna. Risolviamo immediatamente la questione, sequestriamo le armi, ce ne teniamo una parte e il resto lo distribuiamo alla popolazione presente. Intanto la notizia del nostro ingresso in paese raduna una piccola folla. Noi disarmiamo la Guardia Nazionale e distribuiamo anche queste armi. Malatesta stacca dalla parete il ritratto del re e lo fa a pezzi, dichiarando che la monarchia è decaduta. Gettiamo dalla finestra, in questo aiutati da molti, le carte dell’archivio, con i titoli di proprietà e i documenti poi vengono bruciati in piazza. Con le scuri allora distruggiamo il contatore del macinato, che serviva per applicare la più odiosa delle imposte. Usciamo dal Comune e seguiti ormai dalla folla ci portiamo verso la chiesa. Qui sul sagrato della chiesa Malatesta, salito su un piccolo poggio dopo aver legato la bandiera ad una croce, improvvisa un discorso rivolgendosi alla folla. Spiega le ragioni che hanno determinato quella rivolta che stiamo facendo. Gli anarchici vogliono l’eliminazione della tassa sul macinato, l’abolizione della monarchia come di ogni altra istituzione, compresa la repubblica. Nel mondo non ci devono essere più padroni, né proprietà privata. Tutti gli uomini sono uguali e liberi, perciò concluse, andate nelle case dei proprietari e dividetevi le loro cose. Il bello fu che il vecchio sacerdote che aveva asssistito a tutto il discorso, intervenne dicendo che quanto aveva ascoltato da Malatesta non era molto diverso da quanto era scritto nei Vangeli. Quel povero parroco in seguito sarà arrestato e passerà la sua parte di guai. Si chiamava Tamburrini. Una donna esce dalla folla e rivolta a Malatesta gli chiede che le cose dette si facciano subito. Perché se ve ne andate, noi non avremo più niente. Malatesta risponde che loro devono proseguire per altri paesi e non hano il tempo di procedere alla spartizione. Insomma dice, i fucili e le scuri ve li avimmo dati, i cortelli li avite, si vulite facite e se no vi futtite! Il popolo doveva con le proprie mani, in prima persona, agire, fare, essere artefice del proprio destino. Questo è il credo anarchico, gli anarchici sono soltanto il lievito del sommovimento e dell’abbattimento della società sfruttatrice. Usciamo dal paese e ci dirigiamo verso Gallo, un piccolo centro vicino. Anche qui una volta arrivati, facciamo le stesse cose. Troviamo il Comune chiuso, sfondiamo la porta, distruggiamo anche qui il ritratto del re, incendiamo le carte, buttiamo alla folla una cinquantina di lire che troviamo nelle casse dell’esattore. Distribuiamo anche qui scuri e fucili, ci facciamo indicare i mulini e rompiamo il contatore. La folla entusiasta ci segue e applaude a questo spettacolo. Non so se l’applauso è una forma di partecipazione convinta al fatto rivoluzionario o è soltanto l’apprezzamento per uno spettacolo fuori dell’ordinario e che rompe comunque la monotonia della vita provinciale. A questo punto lasciamo Gallo, cercando di raggiungere un altro paese, ma ci aggorgiamo che un forte contingente di soldati sta cercando di accerchiarci. Cerchiamo di rompere l’accerchiamento. Per farlo bisogna passare a guado il Volturno ma le acque gelide e vorticose non ce lo permettono e quindi la strada che porterebbe in Ciociaria o in Abruzzo ci è preclusa. L’unica ritirata possibile è costituita dalla scalata del monte Matese il cui valico ci porterebbe nel Molise. Camminiamo tutto il giorno, inseguiti dai soldati, sotto una pioggia continua. Iniziamo l’ascesa del monte affondando fino al ginocchio nella neve. Qualcuno comincia a mostrare i segni della fatica, in breve ci accorgiamo della impossibilità dell’impresa. Torniamo indietro, troviamo un riparo in una masseria e qui sfiniti, bagnati, affamati ci sorprende l’esercito. Le armi bagnate non servono a nulla, ci arrendiamo. Ci portano al carcere San Francesco a Santa Maria di Capua. La rivolta era fallita. Era tutto sbagliato fin dall’inizio. Erano sbagliate le premesse, l’analisi che ci faceva individuare nel ribellismo del contadino meridionale un soggetto rivoluzionario. Il contadino si ribellava alla fame, all’imposta sul macinato, all’ingiustizia sociale, alla coscrizione obbligatoria, ma tutto finiva lì nell’ambito di una visione che non oltrepassava il confine del loro piccolo paese. Dove poteva portarci una rivolta di uno, anche di dieci paesi del Matese, anche ammesso che fossimo capaci, e non lo eravamo, di organizzare un esercito di lazzaroni, armati alla meno peggio, con fucili antiquati, asce, coltelli e forconi e poche munizioni. Per prendere una ventina di noi, il governo aveva mobilitato 12.000 soldati di un esercito vero, organizzato, armato e allenato. Sarebbe stata una strage, Sarebbe servita questa a far insorgere le città del nord e del sud, io credo di no. Al contrario avrebbe depresso ancora di più i tentativi di organizzazione di una possibile rivolta. Ci portarono in carcere dove restammo per parecchio tempo prima del processo. All’inizio Nicotera,. Ministro dell’Interno, l’ex garibaldino Nicotera, il compagno della sventurata impresa di Pisacane, scampato alla morte e richiuso in carcere, dal quale uscì solo dopo l’arrivo di Garibaldi, aveva intenzione di farci processare da un Tribunale Militare. Questo ci faceva rischiare la pena di morte per fucilazione. Silvia, la figlia di Pisacane che Nicotera aveva adottato, intervenne in nostro favore e forse il padre adottivo ebbe un barlume di coscienza ricordando i suoi vecchi trascorsi. Fummo così rinviati dinanzi a un Tribunale Civile. La vita in carcere era dura ma noi la affrontavamo con la sfrontatezza e la irresponsabilità della giovane età. Cafiero trovò il tempo di preparare una sintesi del Capitale di Marx che traduceva da una versione francese. Malatesta scriveva anche lui e passava il suo tempo cercando di fraternizzare con i detenuti comuni. In genere dei poveracci ai quali spiegava il suo progetto di società futura. Alla fine ci trasferirono nel carcere di Benevento, dove era avvenuto il reato, la resistenza a San Lupo e la sparatoria con conseguente morte differita di una delle due guardie ferite. Intanto nel gennaio del 1878 era morto Vittorio Emanuele II e il figlio Umberto al momento dell’assunzione al trono concede un’amnistia che copriva buona parte dei reati che ci venivano contestati. In sostanza venivano estinte le imputazioni di tipo politico, restava in piedi solo il ferimento dei due carabinieri dei quali uno era morto. La Corte d’Assise di Benevento era deputata allo svolgimento del processo che si tenne nel mese di agosto. Il processo iniziò in un’atmosfera generale poco rassicurante per noi. Nel mese di agosto era stato ucciso dai carabinieri Davide Lazzaretti il mistico della comunità di monte Amiata in Toscana. Nella nostra difesa si distinse l’allora giovanissimo avvocato Merlino e la sua appassionata arringa finale contribuì certamente alla sentenza favorevole. Alla giuria venne posto il quesito se fossimo colpevoli o innocenti della morte del carabiniere. Essi risolsero dicendo che la morte era conseguita per causa sopraggiunta, l’infezione. Questo fece derubricare il resto in reati coperti dalla amnistia e fummo assolti. All’uscita dal Tribunale fummo accolti da una folla di duemila persone che ci scortò fino al carcere dove c’erano da sbrigare le ultime formalità per l’uscita. Da qui prese le nostre cose, ci recammo alla trattoria del Sannio per fare un pasto decente dopo quindici mesi, sempre scortati dalla folla. Era finita, avevamo vinto, ma avevamo perso. Da quel momento in poi non ci furono più tentativi di sollevazione di paesi. Una strategia era fallita e occorreva battere altre strade. Qausi tutti riparammo all’estero e anche io rimasi in Svizzera per una decina di anni. In questi anni io come tanti altri abbiamo riconsiderato l’avventura anarchica, abbiamo nel frattempo compreso la necessità della costruzione di un sindacato, di una lega e di un partito e l’utilità di combattere per obiettivi intermedi, senza cercare scorciatoie. Così l’azione di Sante Caserio che aveva ucciso in Francia Sadi Carnot, il presidente della Repubblica, non aveva riscosso molto successo nel vecchio, che ammirava l’uomo e la sua tempra morale, il suo atteggiamento di fronte ai giudici, ma anche in questo caso non pensava che quel gesto facesse guadagnare qualcosa alla causa. Sante era un garzone di fornaio emigrato in Francia a Lione. Uccise Carnot in visita alla città con un coltello dal manico rosso e nero per vendicare la morte in carcere di un compagno. Venne ghigliottinato il 16 agosto del 1895, avrebbe avuto salva la vita, se avesse collaborato, indicando altri suoi compagni. La sua risposta fu celebrata nelle canzoni anarchiche. Caserio è un fornaio non una spia. Azione isolata, beau geste, ma fine a se stesso, come tutti quelli che l’avevano preceduto, da Felice Orsini, a Carannante, con le loro azioni la borghesia o i governi non avevano avuto affatto paura e tutto era continuato come prima. Non era quella la strada. Ma allora qual è la strada? Quella della rivoluzione, rivolta di popolo, non di singoli, ecco perché bisogna organizzarsi in un partito, con un sindacato che faccia richieste giuste e condivisibili dai lavoratori e li porti alla lotta, allo sciopero generale, alla conquista di nuove occasioni di lavoro, di migliori condizioni di vita, di livelli retributivi adeguati, di minor numero di ore di lavoro, non dodici ore, ma otto, di scuole e assistenza sanitaria, di pensione per chi è anziano e lascia il lavoro.
I suoi ascoltatori lo seguivano con attenzione, sforzandosi di tenere gli occhi aperti che la fatica del giorno rendeva le palpebre pesanti.
Ma quando a Milano massacrarono ottanta persone gli venne quasi un colpo.
Si ammalò da quel giorno e non si rialzò più dal letto.
Non ebbe neanche la soddisfazione di sapere di Gaetano Bresci.
Era morto già da qualche mese.
Bresci gli sarebbe piaciuto molto, Maria lo sapeva.
Ecco perché accanto alla fotografia del nonno, conservava anche il ritratto dell’anarchico fucilato.

* *
La mantenne la promessa fatta al nonno Maria!
Non solo a scuola ci andò, ma fu la prima donna del paese a prendere la licenza liceale.
A diciotto anni si iscrisse alla facoltà di Medicina di Napoli e anche lì non erano molte le donne. Era venuta su per bene, diritta e asciutta, un po’ legnosa, forse, nel camminare, ma nonostante ogni sforzo e nonostante lo sguardo sempre corrucciato e pensieroso, non riusciva a reprimere una prorompente femminilità che le veniva fuori da un petto prepotente e dai fianchi.
Riscuoteva successo anche per questo, quando si alzava a parlare nelle infuocate assemblee di rivoluzionari.
Ben presto la sua figura divenne familiare nell’ambiente socialista napoletano.
Ma fu con uno studente di Ingegneria che strinse veramente amicizia.
Amadeo Bordiga era un parlatore affascinante, una vera sirena, capace di unire la tempra del tribuno alla logica stringente dello scienziato.
La casa sulla collina conobbe una nuova stagione.
Spesso venivano da Napoli la donna e l’ingegnere e restavano per qualche giorno.
Organizzavano per i braccianti del posto dei brevi corsi di studio.
Era sempre la fame di terra che spingeva il movimento.
Amadeo, in verità, non era molto convinto che insegnare a scrivere e far di conto servisse molto alla causa della rivoluzione mondiale, ma la donna insisteva nel continuare l’opera del nonno.
Questi contadini, diceva, ancora primitivi sotto tanti aspetti sono capaci di lottare, ma bisogna dar loro una causa in cui credere.
Ripeteva le parole del nonno. E gliela dobbiamo dare noi una causa, altrimenti gliela darà la borghesia.Gli raccontava allora vecchie storie terribili su fra Diavolo, Mammone, sul brigantaggio postunitario. Amadeo sorrideva alle argomentazioni della donna, ma la vedeva convinta ed aveva imparato a sue spese, quale durezza nascondesse sotto l’apparente fragilità e come fosse determinata.
Va bene trasformiamo pure questi contadini in soldati della rivoluzione, affermava sospirando e si impegnava a fondo nelle lezioni serali attorno al vecchio camino.
Erano semplici operazioni di conto o la ripetizione di regole grammaticali quelle che faceva svolgere a quei giovani che, sul far della sera, abbandonati i casolari di campagna, o gli armenti nelle stalle, spesso saltando la cena, oppure portandosi appresso un tozzo di pane, a piedi o a cavallo di un mulo, risalivano la collina dirigendosi alla casa dove li attendevano Maria e le sue sorelle Ester e Minerva.
Ma il meglio di se Amadeo lo dava nelle lezioni di storia!
Allora s’infervorava davvero, parlando, e la piccola platea pendeva dalle sue labbra, ascoltando finalmente spiegata la ragione della loro miseria e del loro sfruttamento.
Come un giovane Messia annunciava a quei ragazzi il radioso avvenire, promesso da Marx, nel quale tutti finalmente avrebbero avuto il giusto compenso alle fatiche.
L’avessero visto in quei momenti Tasca e Salvemini, forse avrebbero mitigato il loro giudizio nei suoi confronti.
Proprio quell’anno aveva bollato col nome di “culturisti” il gruppo di socialisti torinesi.
Al Congresso della Gioventù Socialista aveva gridato dal palco che c’era bisogno di cuore e sentimento per costruire il futuro socialista e non di studio.
Quello era ancora un congresso di rivoluzionari e non di maestri.
Ma che fare?
Occorreva pure far crescere in qualche modo la coscienza rivoluzionaria al sud.
E poi come dire di no a Maria.
A quella scuola Alvito aveva imparato veramente, non a quella pubblica, dove il maestro aveva fatto di tutto per distoglierlo dallo studio, ricacciandolo nella terra.
Tanto a che gli serve di saper leggere e scrivere ad un contadino!
L’aveva raccontato ad Amadeo, ma ora gli era chiaro l’intento di quel figlio di possidenti, che, dopo aver tentato inutilmente di prendersi una laurea, era tornato al paese ed aveva ottenuto un posto da maestro.
Le preghiere, quelle sì, gliele aveva insegnate, facendole ripetere mille volte in quel latino incomprensibile, ma la storia era risolta in una serie di aneddoti oleografici.
Sulla collina Alvito ci veniva insieme al fratello più grande di qualche anno tutte le volte che riuscivano a sfuggire al controllo del padre.
Maria aveva quattro anni più di lui, ma la terra del padre di Alvito era a un tiro di schioppo e Maria il giovane la conosceva da sempre.
Da ragazzo quando la sera, ritornando verso casa dal podere, faceva fermare l’asino a bere alla fontanella presso la chiesa vecchia, la incontrava sempre mentre con le sorelle era intenta a prendere l’acqua con le cannate di creta.
Quante volte l’aveva aiutata a mettersi in equilibrio la cannata, aggiustandogliela sopra il fazzoletto ritorto a formare un cerchio, sopra la testa.
L’amicizia era nata così, ma già allora subiva il fascino della ragazza che, forte dei discorsi del nonno si atteggiava a maschiaccio impertinente.
Maria era molto popolare tra tutti i mocciosi dei casolari sparsi alla falde della collina e già attorno ai tredici anni era lei la capobanda di monte Ofelio.
Con quella fantasia accesa dalle storie del nonno, era sempre pronta ad organizzare gesta eroiche per la sua banda.
Crescendo il gioco era continuato ed i ragazzini di una volta la seguivano ancora con lo stesso entusiasmo.
Solo, la fantasia aveva lasciato il posto a programmi più concreti, parlavano ormai di contratti agrari, di salario, di cooperative per la coltivazione della terra, di nuovi sistemi di coltura, di macchine per mitigare il lavoro duro della terra.
L’attendevano con ansia quando tornava per il fine settimana da Napoli.
Erano orgogliosi che una di loro, perché tale la consideravano, potesse diventare un medico. Insomma le volevano bene e ne subivano il fascino, ma nessuno si era mai permesso confidenze con Maria, perché allora il rude e cameratesco modo di fare della ragazza lasciava il posto ad un’ira furibonda.
Maria voleva essere trattata come un compagno e a un compagno non si fanno carezze.
Quando Maria tornava ed il camino della casa fumava, perché ormai la famiglia si era ritirata in paese, era il segnale che potevano andare.
E andavano.
Raccoglievano per lei i primi funghi ed i corbezzoli e le fragoline di bosco.
Qualcuno se ne veniva con una lepre presa al lacciolo o con un cinghialino lattonzolo ed era festa grande nella casa sulla collina.
Dopo le riunioni di studio c’era sempre da stare allegri a cantare insieme Addio Lugano bella, seduti intorno al fuoco acceso sull’aia, dalla parte della spianata che guardava il mare di Gaeta, l’uno accanto all’altro, spalla a spalla, dimentichi di tutto, attendendo nel cielo che trascolorava il radioso sol dell’avvenire. O le parole dell’Inno dei pezzenti. Noi siamo i poveri, siamo i pezzenti/la sporca plebe di questa età/la schiera immemore dei sofferenti/per cui la vita gioie non ha. Nostra patria è il mondo intero/nostra legge è la libertà. Imparavano a memoria le parole scritte da Gori. Sembrava loro in quei momenti di possedere il vero senso della vita, l’avvenire gli sembrava così pieno di promesse, così vicino anche nella sua realizzazione.
Ed anche le storie sulla casa e sulla gente che ci abitava erano tornate.
Quelle ragazze erano considerate dalle donne del paese al pari delle janare, delle streghe, capaci di magie, pozioni e incantamenti a incatenare tutti quei giovani.
Storie di vita libera, di liberi amori, di costumi sfrenati, di accuse di furtarelli nelle campagne ai danni dei contadini, che forse quei ragazzi pur di portare qualcosa commettevano davvero.
Ma niente e nessuno riusciva a rompere il vincolo che univa tutti i frequentatori della casa sulla collina.


* *
Questi pensieri affollavano la mente di Alvito che, ormai giunto sul suo fondo aveva iniziato la sua giornata di lavoro senza neanche attendere gli altri braccianti ingaggiati da suo padre.
Disboscava la ripa sul rio della Travata ed i colpi dell’accetta affilata abbattevano i tronchi di giovani quercioli e di teneri castagni selvatici.
Nel silenzio della vallata solo l’eco lontana di questi colpi, accompagnata dall’anfanamento tipico dei legnaioli, contribuiva a spezzare il fiume dei ricordi.
Bisognava decidersi, aveva ragione Maria.
Era giunta anche per lui l’ora di andarsene, come nel ’12 giunse per suo fratello.
Altrimenti lo capiva anche lui, un bel giorno gli avrebbero messo addosso una bella divisa grigioverde e lo avrebbero spedito verso un fronte a combattere.
Non vedeva forse che in paese studenti e galantuomini erano in continua e frenetica agitazione?
Erano sempre là ad organizzare sfilate col tricolore fino al monumento ai caduti nella villa comunale, dove si fermavano a pronunciare altisonanti discorsi.
Fanfare e bandiere sempre pronte, muscoli in bella mostra e grida di guerra per Trieste e Trento. Allora gli tornavano in mente i racconti del nonno attorno al focolare.
Certo questi in guerra non ci sarebbero andati!
I galantuomini in cravatta non avevano più l’età ed i ragazzi delle scuole superiori avrebbero continuato gli studi.
E la gente del paese?
All’inizio assisteva indifferente, ma col tempo aveva cominciato a prenderci gusto.
Il sentimento nazionale lui lo vedeva crescere, giorno dopo giorno sulla bocca della gente, nelle parole sempre più altisonanti e retoriche, la quarta guerra d’Indipendenza, la conclusione del Risorgimento, Trento, Trieste, Pola, Fiume, la Dalmazia, l’imperatore fino all’altro ieri alleato era ridiventato Cecco Beppe, il crucco.
Perfino quelli che dicevano di essere Radicali, che pure avevano eletto un Deputato in quel collegio, dimenticando ogni proposito rivoluzionario, cianciavano di Nazione e stavano nel mucchio che inneggiava alla guerra.
E pensare che anche i socialisti avevano votato quel deputato!
A volte bastava una sola parola per scatenare una rissa.
Persino durante le processioni di Pasqua.
Un paio di vecchi socialisti che erano dei modelli di virtù nella loro Confraternita, erano stati esclusi dal portare a spalla i misteri, durante la processione più importante, quella del giovedì. Qualcuno li aveva accusati di comportamento antinazionale dal momento che parlavano contro la guerra ed era successo un parapiglia nella sacrestia della chiesa donde usciva la processione.
Ed ogni giorno era peggio.
Ma come, chiedevano a Maria nelle riunioni serali del partito socialista, che ora erano riprese con regolarità, specialmente da quando si erano accostati molti operai di origine sarda che avevano lavorato alla costruzione della nuova Direttissima Napoli-Roma, nessun partito vuole la guerra, nemmeno Giolitti.
Vedrai che alla fine la faranno nonostante tutto, rispondeva sconsolata la donna.
Io certamente non la farò la loro sporca guerra, aveva promesso Alvito, piuttosto me ne vado in Messico. La fuga per il Messico in fiamme per la rivolta di Pancho Villa era diventata un’idea fissa nella mente del giovane.
Alvito leggeva con avidità il resoconto delle gesta dei peones di Zapata e delle azioni coraggiose contro i militari traditori che avevano deposto il presidente Madero.
Andare a combattere sull’altopiano di Sonora insieme a quegli straccioni descamisados era diventato il sogno che lo accompagnava dalla mattina alla sera.
Appoggiare quella lotta gli sembrava la stessa che combattere per la conquista delle terre del Pantano, stessa faccia, stesso colore di pelle, stessa fame, stessa gente, perfino stessa bandiera.
Quando arrivò la cartolina militare Alvito non c’era più.
Già da un mese era fuggito.
Tutti i suoi compagni si erano tassati per pagargli il biglietto su una nave in partenza per l’America.
Una mattina si era alzato come tutte le altre mattine.
Si era vestito al buio, raccogliendo in una sacca alcune poche cose.
Aveva preso i documenti e indossato con cura a pelle sotto la camicia la cintura di cuoio nella quale aveva cucito i suoi denari ed era uscito di casa.
Quella mattina non andò a prendere il mulo nella stalla.
Non passò neanche a salutarlo quel suo compagno di fatica, che pure lo aveva udito scendere le scale ed era già pronto ad uscire.
E non salutò neppure i suoi genitori e la sorellina che dormiva ancora, avviluppata nella sua coperta.
Uscì nel primo chiarore dell’alba e stavolta, giunto all’incrocio, prese deciso per la strada del ponte.
Solo un attimo gli venne da chiedersi se Minerva avesse già acceso il fuoco nel camino, lassù sulla collina.
Ma fu solo un attimo.

*

Breve la vita felice di un capo brigante

Breve la vita felice di un capo brigante
All’alba vennero a prenderlo. Damiano era già sveglio, non aveva chiuso occhio quella notte. Due guardie accompagnate da un frate, aprirono la cella ed entrarono, gli misero i chiavettoni ai polsi e lo fecero uscire nel lungo corridoio dei locali del carcere della fortezza di Gaeta. Lui davanti, le guardie appena dietro e il frate che chiudeva la piccola fila che continuava a recitare preghiere in suffragio della sua anima. Lo condussero su e poi fuori sugli spalti, fino a una larga piazzola dove già era schierata la piccola fila di sei soldati con il fucile, pronti per l’esecuzione. Un tenente della guarnigione lo aspettava per comandare il plotone. Damiano aveva in testa il suo berretto del corpo dei Cacciatori minturnesi, respirò a pieni polmoni l’aria salsa del mattino, si riempì gli occhi del mare che cominciava ad intravedersi nel chiarore dell’alba. Ebbe solo la possibilità di chiedere per favore di fucilarlo avendo di fronte a se monte Fammera e monte Redentore ma non gli venne accordata questa grazia. Lo fecero sedere su una sedia con le spalle rivolte verso il plotone e lo legarono. La cerimonia molto sbrigativa si concluse in brevissimo tempo. Plotone Caricate. Puntate, Fuoco. Cadde a terra colpito da almeno cinque delle sei pallottole, quasi tutti avevano mirato giusto. Il tenente si avvicinò e con calma estrasse la sua pistola e gli esplose un colpo alla nuca. Il corpo slegato dalla sedia da due inservienti del carcere, venne avvolto in un lenzuolo e condotto via, fino ad una fossa nel piccolo cimitero dei senza nome all’interno della fortezza. Aveva soltanto 28 anni.
Era il 7 ottobre del 1863. Uno dei primi ad essere giustiziato come voleva la legge Pica, emanata dal governo Minghetti appena il 15 agosto di quello stesso anno. Non che prima di questa legge non fucilassero egualmente i briganti come li chiamavano loro, i napoletani che ancora resistevano. Ma ora la legge giustificava in pieno i comportamenti dell’esercito italiano. Damiano Vellucci era stato un soldato di una guerra perduta e che lui aveva iniziato controvoglia. Era nato a SS. Cosma e Damiano piccola frazione di Traetto il 22 marzo 1835. Figlio di braccianti agricoli il padre si chiamava Giuseppe e la madre Rosalia Ionta, la casa della sua famiglia si trovava nella via detta della Cuparella. Si era presentato volontario, si volontario, però spinto a farlo da tutte le persone che contavano al paese a cominciare dall’arciprete a finire al sindaco e al notaio. Insieme a lui si arruolò anche il suo inseparabile compagno Angelo Mallozzi. Questo avvenne nel mese di settembre del 1860, quando già Garibaldi era giunto in Terra di Lavoro e furono inquadrati nella Brigata Lagrange costituita proprio in quel mese il giorno 15. La brigata doveva portare la sollevazione realista delle popolazioni contadine in Abruzzo. Questa strategia era molto cara a Francesco II, ma non ebbe molto seguito negli alti gradi del suo esercito e venne abbandonata quasi subito l’idea della guerra di guerriglia. Ecco perché i due amici si ritrovarono poi alla difesa del Garigliano nel secondo battaglione di Cacciatori.
Vieni, qui compare, disse Damiano, vieni a riposarti accanto a questo fuoco. E con questo fece posto ad Angelo Mallozzi, attorno al fuoco di bivacco presso il quale un gruppo di soldati cercava di riscaldarsi e di asciugare l’umido del fiume che impregnava e appesantiva le divise e il pastrano. Oggi gli ufficiali ci hanno fatto un culo quadrato, si lamentò Angelo, lasciandosi cadere sfinito accanto all’amico. Tieni mangia qualcosa, gli fece Damiano, cavando dal tascapane un pezzo di pane raffermo e un formaggio di pecora che lui aveva avuto da uno zappitto, un pastore del suo paese, durante il servizio di perlustrazione del giorno. Un altro soldato tirò fuori un fiasco di vino rosso che fece girare tra i commilitoni. La notte avanzava velocemente sul posto di bivacco dei Cacciatori del secondo battaglione, situato a poca distanza dalla torre di Pandolfo Capodiferro e dalla osteria del Garigliano, ormai chiusa e abbandonata. Il fiume ingrossato dalle piogge faceva sentire in sottofondo la sua presenza, con la forza della corrente che trasportava verso la foce e il mare ogni sorta di cose che aveva incontrato lungo il suo cammino, tronchi d’albero e materiale di risulta, travi di legno, assi, fascine. Il livello del fiume si era alzato e ormai era quasi all’altezza degli argini, se il tempo avesse continuato a peggiorare di sicuro ci sarebbe stata un’esondazione. Come tutti gli anni del resto. Il Garigliano è un fiume cattivo e insidioso, ricco di acque che vengono giù dalle montagne attorno a San Germano, un anno si e un altro pure provocava inondazioni e disastri nei terreni posti sulle due sponde, specialmente verso la foce dove ora erano acquartierati i soldati dei due eserciti contrapposti. L’armata napoletana, dopo la battaglia del Volturno e la resa di Capua, si era ritirata sul Garigliano ed aveva scavato trincee, allestito fortificazioni e postazioni d’artiglieria e aveva anche distrutto tutti i ponti e le scafe sul fiume, dalla foce fino a Pontecorvo. Non si erano sentiti di distruggere però il ponte sospeso di ferro alla foce. Questo, che era sempre un vanto dell’ingegneria napoletana, venne solo privato della pavimentazione di legno. Il giorno prima, il 27 ottobre Francesco II, insieme al comandante dell’armata il generale Salzano, aveva passato in rassegna le truppe schierate a difesa del Garigliano sulla sponda meridionale, dal lato della piana di Sessa. Lo schieramento vedeva posizionati in prima linea il secondo battaglione dei cacciatori comandato dal maggiore Castellano, il terzo del maggiore Petrone e il quarto del maggiore Barbera. Inoltre erano schierate quattro compagnie scelte del terzo Reggimento di linea del colonnello Cortada, tre squadroni di lancieri e uno del primo reggimento di ussari. Infine vi erano quattro batterie di trentadue cannoni e ancora quel che restava del 14° Reggimento di linea del colonnello Zattera, tenuto come riserva. Il comando dell’avamposto era stato affidato ad un sessantunenne veterano dell’esercito muratiano, il maresciallo Filippo Colonna. Il resto dell’esercito si trovava acquartierato dietro l’altra sponda del fiume, in territorio di Traetto, appostati tra le rovine dell’acquedotto romano e del teatro dell’antica Minturno. Un aiutante a cavallo raggiunge il bivacco, si ferma, spronando brevemente i soldati a stare pronti e alle sentinelle di porre grande attenzione nei loro turni di guardia. Subito dopo riparte per visitare e sorvegliare tutto il fronte. Nella notte si vedevano in lontananza i fuochi dell’accampamento piemontese nella pianura di Sessa. Il grosso dell’esercito piemontese si era accampato all’altezza della chiesa di S. Maria della piana e il Quartier Generale era stato posto nell’osteria della piana. I piemontesi se ne stanno all’asciutto, disse Damiano, avvolgendosi nel pastrano per calmare i brividi che nonostante il vino l’umido del fiume gli provocava. Chissà se è meglio affrontare questi piemontesi, piuttosto che quei rotti in culo dei calibardini con le camicie rosse. Garibaldi suscitava quasi una forma di timore superstizioso, si diceva che fosse protetto in modo soprannaturale e i suoi soldati fossero dei diavoli e anche fortunati. In effetti c’era stato il cambio e adesso il fronte era tenuto in maggioranza dall’esercito regolare. I garibaldini avevano ormai terminato il loro compito e lo stesso Vittorio Emanuele, che alloggiava nel casino Struffi a Sessa sulla via consolare, aveva detto al Generale che adesso finire la guerra era compito suo, specialmente dopo il voto di annessione delle regioni meridinali al regno di Sardegna. Voleva anche lui conquistarsi un po’ di gloria.
La notte passò e all’alba del 29 ottobre tre forti colonne di fanteria piemontesi, protette da cinque squadroni di cavalleria avanzano nella pianura di Sessa, dirigendosi verso il fiume. Il secondo battaglione di Cacciatori napoletano è costituito da buoni tiratori, armati anche di moderne carabine a canna rigata e riescono, con un fitto fuoco di fucileria per un poco a contenere l’assalto nemico. Per più di un’ora reggono il fronte poi in ordine si ritirano al di là del ponte, togliendo le ultime tavole della pavimentazione. Resta solo lo scheletro in ferro con la catenaria sospesa alle colonne egizie. L’assalto al ponte viene tentato dai bersaglieri che con grande coraggio si avventano, sotto il preciso fuoco nemico, sulle assi di ferro del ponte. Tre volte attaccano e tre volte sono respinti, anche perché il generale Barbalonga sposta le batterie di cannoni del tredicesimo e quattrodicesimo battaglione di cacciatori in un’ansa del fiume, riuscendo a fare fuoco sul fianco del ponte. I bersaglieri subiscono così il fuoco incrociato napoletano e sono costretti a ritirarsi, lasciando anche quaranta prigionieri ai cacciatori che hanno di nuovo superato il ponte e ora li incalzano inseguendoli. Sul campo sono restati un centinaio di bersaglieri, una decina di napoletani e varie decine di feriti. Tra i caduti napoletani purtroppo è da mettere Matteo Negri il migliore ufficiale di artiglieria dell’esercito borbonico, che nel giro di due mesi si è guadagnato sul campo i gradi, passando da quello di maggiore a quello di generale. E’ lui ad organizzare la collocazione delle batterie sul Garigliano e a dirigere il tiro dei cannoni, finchè durante un attacco, mentre è appostato a cavallo dietro una batteria per incoraggiare i suoi uomini, viene colpito prima al piede sinistro e poi all’addome. Trasportato lontano dal fronte in una casa della campagna di Scauri, muore al tramonto di quella giornata. Intanto la prima giornata di battaglia si conclude con un nulla di fatto, la difesa del Garigliano si è dimostrata all’altezza, l’esercito napoletano si è battuto con determinazione. Dopo tante pagine ingloriose, tanti voltafaccia, tradimenti, intese con il nemico, un esercito schierato in campo aperto ha resistito combattendo, rispondendo colpo su colpo. La notte, organizzate le sentinelle di guardia, permette finalmente ai soldati stanchi e affamati, infreddoliti per il tempo rigido anzitempo di rinfrancarsi e prendere un meritato riposo. Il campo napoletano è abbastanza contento, persino il re e la bella regina Maria Sofia hanno fatto sentire il loro incoraggiamento, ordinando rancio abbondante e vino per la truppa. Al quartier generale piemontese Cialdini è infuriato. Si rende conto che sarà difficile e dispendioso di vite umane oltrepassare il Garigliano, così com’è difeso da truppe agguerrite e, problema ancora maggiore, protetto a mare dalla presenza della flotta francese, comandata dall’ammiraglio Barbier de Tinan, che impedisce l’intervento di quella piemontese di Persano. Capisce Cialdini che ha di fronte un ostacolo durissimo che rischia di prolungare per molto tempo la guerra, che poi è proprio quello che Vitttorio Emanuele non vuole, sia per il confronto con le imprese lampo di Garibaldi, sia perché una guerra lunga può rinfocolare a Napoli il partito borbonico. Sotto la pressione di Torino e di Londra, Napoleone III fa arretrare la flotta, limitando la sua azione alla protezione di Gaeta. Così nella notte fra il primo e il 2 di novembre la squadra navale di Persano avanza verso la foce del Garigliano e inizia un nutrito bombardamento cogliendo di sorpresa le truppe napoletane.
Francesco II sperava in una lunga difesa del fiume ma ora di fronte alla nuova situazione la posizione sul fiume diventa indifendibile, sottoposta al cannoneggiamento sul fianco delle batterie e delle truppe. Il 2 novembre il re ordina la ritirata verso Mola, lasciando a copertura del ponte soltanto due compagnie del sesto battaglione di cacciatori al comando del capitano Domenico Bozzelli. La sera dello stesso giorno i bersaglieri piemontesi attraversano il fiume. La prima Divisione di Granatieri di Sardegna del generale De Sonnaz allestisce un ponte di barche ed ha facilmente ragione delle due compagnie di cacciatori. Quella sera si riunisce un Consiglio di Guerra al quartier generale napoletano. Con Salzano ci sono De Ruggiero, Sanchez de Luna, Polizzy, Bartolini, Barbalonga. Si decide che se anche Mola sarà attaccata dal mare, non sarà difesa e le truppe si sarebbero ritirate all’interno della fortezza di Gaeta. Francesco e il suo ministro Ulloa a questo punto vorrebbero che l’esercito si spostasse in Abruzzo. Alla fine alcuni reparti vengono spediti a rinforzare la guarnigione di Gaeta, mentre il grosso si dirige verso Itri. Persano naturalmente il 4 novembre attacca violentemente Mola con 14 navi cannoneggiando e distruggendo case e strade. La popolazione nel panico fugge cercando riparo in campagna e nelle grotte. I napoletani avevano piazzato cinque cannoni sulla spiaggia che ben presto vengono colpiti e distrutti. Alle tre del pomeriggio avanzano i granatieri di De Sonnaz, una colonna si dirige verso la collina di Maranola e un’altra all’ingresso della Terra. Là sono schierate in prima linea la Brigata Estera, ora al comando del colonnello De Mortillet, dopo che Meckel malato si era ritirato, e la brigata Polizzy in seconda. Sotto il fuoco incessante della flotta i napoletani ripiegano. La brigata Estera, quella a contatto con i granatieri di Sardegna, dopo aver frapposto una scarsa resistenza si sbanda. La ritirata avviene in una confusione enorme. Sotto il fuoco nemico e lo scoppio delle granate, nelle strette vie che da Mola portano a Gaeta, fuggono soldati, carri, ambulanze che trasportano feriti, treni d’artiglieria trainati da muli. In mezzo a loro la popolazione civile che si trascina dietro masserizie e tutto quanto può trasportare. Pigiati, urtandosi l’un l’altro, si procede a stento, tra pianti, urla e bestemmie. De Sonnaz avanza con prudenza, superando la breve seppur tenace resistenza apposta da alcune compagnie del decimo battaglione di cacciatori, comandate dal capitano Ferdinando de Filippis e dagli svizzeri della batteria numero 15, dei quali cade in battaglia il comandante capitano Enrico Fevot. In breve tempo davanti alla fortezza di Gaeta, nel piccolo istmo di Montesecco, si ammassano quasi 12.000 uomini dei reparti che non si erano portati verso Itri. Farli entrare nella fortezza è impensabile, avrebbero ridotto la possibilità di resistenza della guarnigione in caso di assedio, facendo terminare i viveri. Salzano tenta di trattare la resa, proponendo di congedarli. Il generale piemontese Fanti comprende benissimo che questa massa di soldati costituisce una zavorra per i napoletani e contropropone la resa di tutta la guarnigione di Gaeta.
Alla fine si giunge ad un accordo che prevede solo uno scambio di prigionieri. I napoletani si schierano a difesa dell’istmo di Montesecco. Sulla destra nel borgo marinaro il 15° battaglione di cacciatori del tenente colonnello Pianell. Al centro sui colli dei Cappuccini e del Lombone il 14° ed il 3° cacciatori, sulla sinistra nei pressi della Torre Viola, bagnata dal mare, quattro compagnie del 3° battaglione carabinieri cacciatori esteri comandati dal capitano Johann Rudolph Hess. In seconda linea il 4° cacciatori nel cimitero ed il 6° tra il cimitero e il colle Atratino. Nella piana di Montesecco tra la seconda linea e le mura della fortezza sono ammassati il 2°, 7°, 8°, 9° e 10° cacciatori, mentre i cacciatori a cavallo si distribuiscono su tutto il fronte. Le batterie di cannoni 11 e 13 sono fatte rientrare nella fortezza, mentre la 10 è divisa tra il colle dei Cappuccini ed il borgo con due cannoni per postazione. Ma la storia della conquista del sud è una storia di tradimenti e defezioni. L’11 di novembre si dimette il comandante in capo Salzano e con lui se ne vanno Colonna, Barbalonga e Polizzy. Il comando viene allora affidato a Vincenzo Sanchez de Luna e allo svizzero Alosio Migy. La sera i piemontesi attaccano il colle Lombone. Il quattordicesimo cacciatori oppone una forte resistenza, ma è costretto a ritirarsi. Il mattino seguente il capitano napoletano Sinibaldo Orlandi ordina ai suoi di riprendere la posizione. L’assalto disperato al colle riesce e per questa azione il capitano ottiene il grado di maggiore. Viene richiesta e contrattata una tregua per i feriti e lo scambio di prigionieri, ma i piemontesi attaccano comunque il centro e l’ala sinistra. Sulla destra Pianell provoca una falla sulla prima linea consegnando in pratica il suo 15° cacciatori nelle mani del nemico. Con il fianco destro scoperto, il 3° cacciatori è costretto ad abbandonare il colle dei Cappuccini, ritirandosi nell’istmo di Montesecco. Sanchez de Luna ordina di riprendere a tutti i costi il colle al 3° Cacciatori. I soldati si lanciano con foga su per la salita, riescono per un po’ nell’impresa ma alla fine sono costretti a ripiegare. Rimangono prigioniere tre intere compagnie del 3° per lo scarso coraggio dimostrato dal capitano Guglielmo Santacroce. Alla Torre Viola vengono attaccate le quattro compagnie estere, le quali, non avendo copertura di artiglieria, sono decimate. Su 400 soldati soltanto 130 ne entrano a sera nel forte di Gaeta, anche il comandante Hess viene fatto prigioniero. Sanchez de Luna tenta di contenere i pressanti attacchi sul colle Lombone e al cimitero, ma dopo nove ore di combattimento, i napoletani sfiniti e distrutti, digiuni tra l’altro, sono autorizzati dal re a entrare nelle mura. La battaglia e la guerra è praticamente finita. Resta il forte assediato, ma gli assedi prima o poi hanno ragione degli assediati.
Tecnicamente l’assedio vero e proprio inizia il 13 novembre. Qual è l’assetto e le forze in campo dall’una e dall’altra parte? L’antica fortezza aragonese di Gaeta possiede 300 cannoni, dei quali solo 4 sono a canna rigata. I cannoni sono distribuiti in otto batterie, ognuna delle quali ha un suo proprio nome come la Transilvana, la Torre d’Orlando, Regina, Trinita, Philippstadt, Santa Maria, S. Giacomo, Malpasso, poi ci sono altre batterie del borgo quella di Guastaferri, del Torrione francese, Cittadella, Addolorata, Annunziata, Trabacco. Le munizioni per i cannoni sono scarse, mentre abbondano quelle per i fucili. I camminamenti sugli spalti del forte dai quali i soldati possono sparare sono vulnerabili perché poco protetti. Le scorte di viveri non sono sufficienti. In tutto nella fortezza vi sono 16.700 soldati e 994 ufficiali con un migliaio di cavalli e di muli da trasporto. Inoltre nel porto di Gaeta vi sono cinque legni da guerra napoletani rimasti fedeli alla corona: il Partenone, il Delfino, il Messaggero, Saetta e l’Etna. Stazionano nel porto quattro navi spagnole, il Vulcan, il Colon, il Villa de Bilbao, il Generale Alava, una nave prussiana, la Loreley e sette navi da guerra francesi: Bretagne, Fontenoy, Saint Louis, Imperial, Alexandre, Prony e Descartes al comando dell’ammiraglio Barbier de Tinan. La Francia è contraria all’allargamento dei piemontesi e alla nascita di un regno d’Italia così grande. L’esercito piemontese a sua volta è composto da 18.000 soldati, con 1600 cavalli, 66 cannoni a canna rigata e 180 a gittata lunga. Vengono organizzate dai piemontesi cinque batterie d’artiglieria dette Castellone, Conzatora, Montecristo, Monte Lombone e Valle Calegna dal nome della posizione in cui si trovano.
L’assedio di una posizione è fatto di attesa, appostamenti di cecchini e resistenza fisica e morale da parte degli assediati e cannoneggiamenti soprattutto da parte degli assedianti. C’è poco da fare altro, tanto prima o poi, a meno di provvidenziali interventi esterni, il forte cadrà, quando non si sa, dipende dalle scorte e anche dalla fortuna. Le giornate trascorrono eguali. Le batterie piemontesi martellano il forte sia a mitraglia, se ci sono soldati sui camminamenti, sia a palla per abbattere le mura. Dal forte si risponde ogni tanto con qualche colpo di cannone, tentando di colpire le batterie nemiche. Si tende a risparmiare. Il 28 novembre, dopo due settimane di assedio, quattrocento uomini al comando del generale Bosco, tentano una sortita sul colle dei Cappuccini, riescono anche a mettere in fuga i piemontesi, pagando però un altissimo prezzo. In questa circostanza muore anche lo svizzero Aloisio Migy. Alla fine decimato il contingente napoletano rientra nella fortezza. Ancora una nuova sortita viene tentata il 4 dicembre. Sotto una pioggia fitta e gelida, 120 cacciatori riescono a far saltare con una mina alcune case che ostruivano la vista di una batteria piemontese. Il mese di dicembre vede comparire il nemico più terribile. Il tifo petecchiale, micidiale negli affollamenti e qui specialmente nei sovraffolati cameroni dove migliaia di soldati dormono uno sull’altro su luridi giacigli di paglia. Il tifo comincia a fare le sue vittime sia nelle fila dell’esercito, che tra la popolazione civile del borgo marinaro di Gaeta. Il tifo costa la vita dell’aiutante del re Caracciolo di Sanvito. Francesco l’otto dicembre lancia il suo proclama alle nazioni, chiedendo aiuto e protezione da un’aggressione subita senza motivo, da parte di una nazione amica alla quale è legato anche da vincoli di sangue. Nello stesso giorno Vittorio Emanuele visita Mola. Intanto la politica è in azione. Cavour fa sospendere i bombardamenti per permettere a Cialdini di far giungere un messaggio di Napoleone III all’ammiraglio francese de Tinan. L’ammiraglio dovrebbe promuovere la resa dei borbonici, ma questi non è d’accordo e prende tempo, riuscendo a portare avanti la tregua per qualche giorno, finchè nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, alcuni soldati, usciti dal forte vengono interpretati dagli avamposti piemontesi come un atto ostile e si ricomincia a sparare. Il 14 dicembre Francesco scioglie due Reggimenti della Guardia Reale e 50 soldati per ogni battaglione di cacciatori per alleviare la condizione degli assediati, rispetto anche alle scorte di viveri. 4500 uomini vengono imbarcati su due navi francesi con viveri per tre giorni e paga per otto giorni, partono alla volta di Terracina. Il 15 dicembre Cialdini fa bombardare Gaeta anche su obiettivi civili, case, chiese, ospedale, seminando il terrore tra la popolazione. Così trascorre la fine del 1860 e l’inizio del nuovo anno, poco o nulla di nuovo, bombardamenti incessanti, risposta fiacca a tratti. Il 19 gennaio però qualcosa cambia, improvvisamente la flotta straniera salpa le ancore dal porto di Gaeta e se ne va. E’ successo che, come poi il trattato del 2 febbraio stabilirà, il Piemonte ha ceduto alla Francia i comuni di Mentone e di Roccabruna. I francesi ritengono che ciò basta per accettare lo stato di fatto. Lo stesso giorno l’ammiraglio Persano butta l’ancora a Mola di Gaeta. Sono dieci navi da guerra. Maria Adelaide, Costituzione, Ardita, Veloce, Carlo Alberto, Confienza, Vittorio Emanuele I, Monzambano, Garibaldi che è una nave borbonica ribattezzata, Vinzaglio. Il 20 di gennaio una nave francese il Dahomey evacua da Gaeta 600 persone tra civili e malati. Il 22 gennaio anche la flotta comincia il bombardamento da mare. Ormai siamo alla fine. Il 4 febbraio un colpo di cannone ben diretto centra la polveriera Cappelletti, dove sono 180 chili di esplosivo. Soltanto la disperata azione dei soldati riesce a dominare l’incendio ed evitare che si propaghi giungendo fino alla batteria Transilvana. Il giorno 5 febbraio alle ore 16.00 salta in aria il magazzino munizioni della batteria S. Antonio. L’esplosione crea una breccia di 30-40 metri nelle mura, sono perdute sette tonnellate di polvere e 42.000 cartucce di fucile. Nel crollo muoiono 316 soldati e un centinaio di civili. Si parla di sabotaggio, certo una palla così ben indirizztata. Fortuna, precisione di tiro? Di sicuro i piemontesi erano informati delle posizioni dei punti delicati da parte di ufficiali e soldati che avevano cambiato campo e che conoscevano bene il forte di Gaeta. A fare il colpo fortunato sono gli addetti alla batteria Madonna di Conca. Quando ci fu il tremendo scoppio e col diradare del fumo ci si accorse del danno grave riportato dalla struttura, le grida di giubilo dei piemontesi che vedevano ormai vicina la fine dell’assedio, si alzarono da tutto il fronte. Si tenta di andare all’attacco di questa breccia ma un’intensa fucileria dei borbonici impedisce ulteriori danni. Il giorno seguente il comando concede una tregua di 48 ore per assicurare l’evacuazione di altri 200 soldati feriti e malati. Il comandante di Gaeta generale Ritucci convoca un Consiglio di difesa. Finalmente il giorno 11 Francesco per evitare ulteriore spargimento di sangue consente di trattare la resa. Una delegazione composta dal generale Antonelli, dal Brigadiere Pasca e dal tenente colonnello Delli Franci esce dal forte per recarsi a Mola dove si trova il quartiere generale avversario. Cialdini intanto continua a bombardare giustificandosi con il dire che lui continuerà finchè non ci sarà la capitolazione. Alle ore 15.00 esplode la santabarbara della batteria Philippstadt e alle 16.00 anche quella della Transilvana. Il tiro continuo impedisce il soccorso dei feriti. Il massacro continua fino al giorno 13 quando il cessate il fuoco è fissato alle 18.15. Il giorno 14 alle ore 8.00 Francesco e Maria Sofia, salutati dalle truppe borboniche schierate sul molo di Gaeta e da numerosa popolazione, si imbarcano sulla Mouette un legno francese alla volta di Roma. Mentre la nave lascia il porto una salve di 20 colpi di cannoni porta l’estremo saluto al re e da terra si innalza per l’ultima volta da parte di soldati e popolani il grido: Viv’o rre! La guarnigione esce dal forte con l’onore delle armi, sfila e depone spade e fucili e poi viene imbarcata per il nord. Moltissimi saranno tenuti prigionieri nelle fortezze dell’Alta Italia e non torneranno mai più, anzi sulla loro sorte non si avranno mai più notizie certe.
Damiano Vellucci e Angelo Mallozzi furono congedati a Cisterna nel mese di gennaio 1861. Riuscirono a tornare al loro paese, insieme ai molti compaesani che avevano militato nel corpo dei cacciatori. A Traetto i liberali avevano innalzato la bandiera tricolore sul Municipio. I pochi liberali che esistevano qui prima della guerra avevano visto infittire le loro fila, specialmente da quella massa di persone che si erano tenute con prudenza defilate dal prendere una qualsiasi posizione nel momento del pericolo e che ora che le cose erano chiare e netti i vincitori, erano diventati ferventi patrioti della nuova Italia. Magari erano quegli stessi che avevano approvato la partenza dei giovani alla difesa della corona borbonica. Damiano ci provò a ritornare alla vita di prima spinto anche dalla sua promessa sposa che aveva lasciato al momento della partenza come soldato e che ora scorrazzava con lui, spesso fuggendo dalla casa colonica in cui abitava, giocando a nascondersi tra i boschi sulla riva del Garigliano. Si faceva raggiungere però e ancora ansante per la corsa, si aggrappava disperatamente a lui mentre il giovane copriva di baci il suo collo e la sua faccia. Le già difficili occasioni di lavoro per Damiano però diventavano chimere irraggiungibili, in qualche modo la sua partecipazione alla difesa di Gaeta gli veniva imputata come una colpa. Erano continue piccole questioni, continui motteggi fino a veri e propri soprusi compiuti nei riguardi dei reduci sconfitti di un esercito senza onore. Da poco era nata la Guardia Nazionale ed erano questi i più assidui nei motteggi. Nella Guardia c’era anche un lontano cugino di Damiano e questo, anziché procurargli vantaggi, contribuiva, come spesso capita nei piccoli paesi, a ingigantire piccole questioni di cortile. Da queste parti si dice. Tu vuo’ vede’ nu strunzo? Miettece na coppola n’capa. Mettigli una divisa! Niente come una divisa esalta le peggiori qualità di un uomo. Così pian piano Damiano comincia a pensare che le cose non vanno bene, non è giusto come lui ed altri vengono trattati in paese dalle guardie. Insieme ad altri sbandati come lui comincia a battere le campagne e le colline.
Una costante di tutti i tempi quella degli eserciti di rendersi invasori di un paese senza capire nulla della sua cultura, magari anche con le migliori intenzioni, come quella di portare la “libbertà” senza che questa parola abbia un significato univoco vantaggioso per il popolo e comprensibile innanzitutto. I visi pallidi scesi dal nord non comprendevano la lingua che quei neri delle province meridionali parlavano, né facevano alcuno sforzo per comprenderla. Per loro era come avere a che fare con gli africani e come africani appunto trattavano i meridionali. L’improntitudine caratteristica degli eserciti e l’ignoranza delle usanze locali, provoca tutta una serie di incomprensioni che si tramutano piano piano in veri atti di guerra. Un esercito numeroso come quello napoletano sciolto senza paga, senza pensioni di invalidità per i numerosi feriti e invalidi. Non solo ma anche sottoposto a continue vessazioni e sfottimenti, come quella dei giornali satirici che paragonavano il soldato napoletano rappresentandolo con una testa di leone, gli ufficiali li rappresentavano con la testa d’asino e i generali senza testa. Grosso modo era vero, perché i soldati in qualche modo il loro dovere lo avevano fatto, i gradi superiori a volte invece sembrava che lavorassero per l’avversario e magari era proprio vero, perché la massoneria era d’accordo tutta nel favorire la sconfitta della dinastia borbonica. Il primo grande errore che fece l’esercito settentrionale fu quello di mandare a casa senza paga i soldati che però avessero accettassero il nuovo assetto delle cose. Quelli che non volevano giurare fedeltà, invece, li deportavano e ne deportarono a migliaia, costretti dopo a tenerli per anni nei loro carceri senza possibilità di rilascio fino alla morte. Questa notizia delle deportazioni trasformò decine di migliaia di reduci in potenziali insorti, o briganti come preferivano chiamarli. Errore fu quello di permettere solo agli ufficiali dell’esercito borbonico di mantenere grado e paga entrando nell’esercito piemontese. Errore perché agli occhi dei soldati che non avevano avuto lo stesso trattamento questi apparvero come dei traditori e ne aumentarono la voglia di vendetta. Inoltre quasi tutte le innovazioni che si videro furono causa di malumore e di crisi. L’abolizione delle dogane mandò in malora la nascente piccola industria del sud, con conseguente fallimento e aumento della disoccupazione. L’abolizione dei conventi e l’incameramento delle terre favorì il latifondo che comperò i terreni a poco prezzo, senza che si potesse attuare un minimo di riforma agraria. La svendita ai capitali inglesi delle privative per la costruzione di strade ferrate, per la compagnia del gas nelle città, strangolò ancora di più la società meridionale. Tutte queste cose erano giustificate dal forte debito del nuovo stato che aveva dovuto programmare una guerra e un armamento conseguente, partendo all’inizio dal piccolo Piemonte. Ora però doveva ancora affrontare il compito della costruzione di un’amministrazione centrale unica, di un solo esercito, di una marina e queste cose avevano un prezzo che pagarono le nuove province meridionali.
Nel mese di giugno del 1861 mentre si trovavano al lavoro nelle campagne, una volta tanto che avevano trovato da lavorare per qualche giorno nelle campagne di Cellole, dalla parte del pantano di Sessa, Damiano ebbe un diverbio acceso che poi degenerò in uno scontro a fuoco con la Guardia Nazionale di Sessa. Questo episodio lo costrinse alla fuga dal paese e a riparare nello stato del papa. Accompagnato come sempre dal suo amico e compagno di sventura Angelo Mallozzi, Damiano si porta a Roma dove viene ricevuto da Francesco II, al quale giura fedeltà, prendendo l’impegno di combattere per il ritorno sul trono del legittimo sovrano. Se ne tornano i due verso il confine del regno, con loro hanno due bei fucili Enfield P53 a canna rigata modernissimi e molte pallottole. L’Enfield il miglior fucile del mondo, usato dalla fanteria inglese, era anche stato usato dai garibaldini e con la sua capacità di tiro fino a circa 2 km era l’arma ideale per un cecchino. Avevano anche un bel sacchetto pieno dei dieci tornesi falsi coniati a Roma da Francesco. Falsi, proprio falsi non erano dato che Ulloa il ministro di Francesco aveva portato con se i veri conii della moneta, l’unica differenza era che erano coniati a Roma e non a Napoli ma per il resto sono perfetti. Sono eguali. Dovevano servire a finanziare qualche impresa, dato che ancora avevano corso nell’ex regno di Napoli, ora Regno d’Italia. Era in corso la complessa opera di conversione del denaro e per questo ci volle del tempo. Anche questa operazione perfettamente logica assunse il valore della vera e propria truffa, perché il nuovo stato cambiava la vecchia piastra di dodici carlini, quelle belle piastre d’argento che pesavano 27, 53 grammi, con una moneta da cinque lire che ne pesava 25. Era chiaro che molti contadini preferivano conservare le loro piastre per tempi migliori e non le consegnavano al cambiatore. Figuratevi! Nel regno di Napoli molti avevano conservato le piastre della repubblica Napoletana del 1799 e anche le piastre di Gioacchino Murat soltanto per affetto verso quei regimi, ora che avevano visto l’imbroglio che si voleva fare a loro danno, tanto più si tennero le piastre. Ne fecero magari quadri e quadretti con le piastre in bella vista, ne fecero collane per le loro donne, ne fecero tesoretti che conservarono in buche nel giardino, nei pozzi e nelle travi di soffitta, dove ogni tanto ancora oggi vengon fuori, ma non le consegnarono. Ma che ci fai con dieci tornesi, è comunque una moneta di rame, qui l’argento e l’oro ci vuole per fare delle cose. Va bene ci penseremo, poi a finanziarci, qualcosa troveremo. Damiano dobbiamo organizzare dei rapimenti, dei sequestri di persona, magari di qualche facoltoso borghese liberale, lo teniamo nascosto nei boschi e ci facciamo pagare il riscatto dai parenti. Si questa è l’unica strada. Ci penseremo. Intanto ci serve anche una banda di una certa importanza. Dobbiamo raccogliere tutti gli sbandati che conosciamo delle nostre parti e così armarli e iniziare a dare conto della nostra presenza. Questo non è difficile farlo perché erano molti i reduci sbandati e tanta la disoccupazione, le monete poi che i due usarono con larghezza stavano a dimostrare che non tutto era perduto e che ancora si poteva ribaltare una situazione nel regno. Ben presto attorno ai due si aduna una piccola combriccola tutta di minturnesi e comunque dei paesi vicini. Non tutti avevano abbandonato la vita normale, non tutti erano se si può dire entrati in clandestinità, partecipavano a qualche piccola azione la sera magari tornavano alle loro case. Del resto questa tecnica era stata già sperimentata molti anni addietro al tempo della venuta dei francesi e i giovani avevano ascoltato molte volte il racconto delle gesta dei loro nonni raccontate attorno al fuoco nelle sere d’inverno. Così organizzarono le prime gesta seguendo gli esempi antichi, andavano all’appostamento sulla via consolare, assaltando il procaccia, derubando qualche viaggiatore, sparando e uccidendo qualche soldato se una pattuglia isolata faceva per caso il cammino reale. Piccoli obiettivi, ma efficaci nel creare panico tra la popolazione civile e al tempo stesso preoccupazione nella forza militare. Gli eserciti in tutte le parti del mondo e in qualsiasi latitudine hanno sempre avuto grande difficoltà nell’affrontare la guerra di guerriglia, dove non hai da affrontare un nemico in campo aperto ma un avversario che sfugge e che si mimetizza perfettamente in un ambiente a lui congeniale. Il raggio di azione della piccola banda si trova tra il confine del regno pontificio e i monti aurunci.
Come brillantemente esposto da Damiano, la banda organizza alcuni sequestri di persona che riescono perfettamente allo scopo di finanziare le azioni. Non è facile organizzare un sequestro di persona. Occorre prima di tutto un’azione di intelligence, di infromazione. Bisogna scegliere il soggetto adatto che sia immediatamente solvibile, che sia ricco insomma e che questa ricchezza sia reale, non supposta come di tanti che fanno una vita dispendiosa al di sopra delle loro reali possibilità perché sono degli scialacquatori e che magari anche se avevano un patrimonio lo hanno sperperato in breve tempo ed ora sopravvivono con l’allure. Quindi una volta scelto il soggetto e anche due o tre, bisogna organizzare il pedinamento per capire le sue abitudini, come vive, chi frequenta, come insomma poterlo prendere senza eccessiva fatica e spargimento di sangue. Per questo sono utili quei componenti della banda che non sono fuorilegge e che vivono una vita normale nei loro paesei. A loro è demandato il compito di fare da basisti, da informatori. Dopo infine bisogna provvedere al rifugio dove tenere il sequestrato, che sia lontano da occhi indiscreti, ma che sia possibile raggiungerlo per recapitare viveri e quanto altro possa essere utile al mantenimento in vita del sequestrato. Si perche il sequestrato non deve morire, oddio questo può capitare, ma in teoria no. Deve poter tornare a casa, spaventato ma sano, contento di aver pagato il riscatto. Così può esser da monito per gli altri futuri sequestrati, se pagheranno senza ritardi la somma pattuita, non ci saranno problemi. La somma del riscatto deve essere ponderata bene perché se è troppo forte, metteranno la famiglia nelle condizioni di non poter pagare, costringendo loro ad adottare dei metodi brutali come tagliare un orecchio al sequestrato, o anche alla fine a ucciderlo. Tutto questo era nella testa di Damiano che si accingeva a iniziare la sua carriera nel campo dei sequestri. Ne portò a termine felicemente tre nel corso della sua attività. Il primo ad esser sequestrato fu Francesco Minutillo, che abitava nel piccolo borgo di Maranola, sulla collina che si erge alle spalle di Mola di Gaeta. Lo avevano studiato bene il suo percorso giornaliero e lo sorpresero che tornava di sera da un suo campo nei pressi di Maranola. Lo fecero scendere dal calesse su cui viaggiava e si presero anche il cavallo. Minutillo era un ricco borghese di campagna e la somma di mille ducati che venne chiesta alla sua famiglia era perfettamente nelle sue possibilità, ma dovettero prima strapazzarlo un poco perché non voleva sentire ragioni e rifiutava di scrivere alla sua famiglia di propria mano dando le istruzioni su come trovare la somma. Quando finalmente si convise che la banda faceva sul serio e che lo avrebbe certamente ucciso allora scrisse alla moglie, raccomandandole di prendere i denari dove lui li aveva messi e di consegnarli al latore della lettera. Il sequestrato era stato tenuto soltanto pochi giorni in una grotta sulla montagna. Non ci fu molto lavoro da fare per assicurare il vitto giornaliero e le consegne ai due componenti della banda che lo tennero in custodia. Mille ducati, Damiano non aveva mai neanche visto una somma simile e quando se li vide davanti in belle monete d’argento, quasi mille piastre, quasi quasi non ci credeva. Mille ducati che lui divise equamente, quasi cento ducati a testa, suo padre bracciante a tre carlini la giornata avrebbe dovuto lavorare almeno per due anni, per circa 180 giornate, ma quando le trovava 180 giornate di lavoro, diciamo almeno tre o quattro anni, per mettere insieme una somma simile. Mettere insieme ma quando mai, per metterla insieme cioè per risparmiarla non sarebbe bastata una vita. I primi cento ducati di suo guadagno, Damiano li divise tra la sua sposa Gemmetella e la sua famiglia. Poi ci fu il sequestro di don Francesco Cinquanta, speziale della terra di Castelforte, un buon uomo ma l’obiettivo era facile e sicuro. E ancora quello del loro concittadino Dionisio Sparagna di SS. Cosma e Damiano. In tutti i casi il rapimento ottiene un buon riscatto e si conclude senza spargimento di sangue. Il nome di Damiano comincia a incutere terrore nella zona, il suo carattere taciturno e la sua spietatezza gli guadagna presto il soprannome di Inferno. Con i soldi la vita diventa facile, si moltiplicano gli amici e si ritrovano i parenti, nei boschi si organizzano festini e gozzoviglie con vino e spiedi con maialini e cinghialetti. Non mancano le donne e anche la sua Gemmetella che l’arciprete della collegiata gli aveva fatto sposare segretamente, veniva periodicamente a trovarlo. Ogni tanto quando la caccia al cinghiale come aveva denominato la grassazione a spese di qualche viaggiatore straniero fermato e derubato, o costretto gentilmente a contribuire alla confraternita dei Santi Cosma e Damiano, nella carrozza che faceva servizio di posta sulla strada che da Portella, all’ingresso dell’ex regno porta fino a Napoli, aveva buon frutto, allora si spingeva magari fino all’osteria di S. Maria la piana a mangiare il famoso ragù del suo oste con i maccheroni fatti in casa dalla moglie. L’omertà era sovrana, come anche la paura di subire la vendetta della banda nel caso qualcuno avesse parlato. Si presentavano i due amici accompagnati dai alcuni dei loro sgherri, Piazzavano uno all’entrata di guardia e un altro sul retro a guardia anche dei cavalli ed entravano nella locanda. Regola vuole che il tavolo cui sedere abbia buona vista sulla porta d’ingresso e poi a quel tavolo è bene sedere con le spalle al muro in modo da avere almeno le spalle al sicuro. Una volta seduti i due ecco arrivare l’oste servizievole ad acconciare la tavole in meno di un attimo e a presentare la lista delle vivande da lui preparate. Siamo venuti soltanto per i tuoi maccheroni al ragù gli dice quasi affettuosamente Damiano e intanto ha già lanciato uno sguardo alla comitiva di viaggiatori che siede ad un tavolo nella locanda. Oste dice, mandami qualcuno a tagliare la più bella rosa del tuo giardino e falla portare in omaggio a quella signora che siede a quel tavolo. Il fiore posato davanti alla bella signora inglese, suscita un movimento di reazione da parte del suo accompagnatore che viene subito represso dall’espressione del cameriere e anche dallo sguardo che l’uomo ha lanciato d’attorno, realizzando subito di che pasta sia il galante. Del resto non è difficile capirlo, sia dalla atmosfera di timore che aleggia nell’aria, che dalle armi che spuntano dalla cintola dei due avventori. Accenna allora la bella signora con il suo capo biondo un ringraziamento ed un sorriso verso la testa ricciuta e la faccia impunita e scanzonata di Damiano. Non sembra affatto un brigante quel bel ragazzone, non assomiglia ai terribili figuri descritti sui giornali di viaggio dell’Inghilterra, con tanto di tromboni e stivali, la cui lettura faceva dolcemente rabbrividire e anche sognare di un loro incontro tutte le testoline bionde d’Oltremanica nei loro avventurosi (molto poco ormai) viaggi nel sud della penisola. Del resto la figura avvenente di Damiano gli aveva permesso una volta, travestito da pacchiana di andare in paese fino alla casa della sua donna e di non essere riconsociunto da nessuno. Comunque anche se qualcuno lo avesse incontrato e riconosciuto difficilmente avrebbe parlato. Gemmetella in paese era riverita e ossequiata quando usciva per il paese, nel suo bel vestito di pacchiana. carica di cannacchi e scioccagli come la statua della Madonna delle Grazie che si porta in processione. Il 14 agosto del 1861 l’esercito italiano reagisce ad un attentato da parte di una banda di briganti con la messa a ferro e fuoco di un intero paese, è quello che sarà chiamato poi l’eccidio di Casalduni con centinaia di vittime. Questa vera e propria azione di guerra provocò una reazione molto forte facendo incrudelire la lotta delle bande.
Nel mese di gennaio 1862 la banda di Damiano partecipa ad un’azione di appostamento nei pressi del ponte borbonico di Sessa, all’ingresso della città, contro un plotone di lancieri a cavallo. L’agguato ben disposto e meglio eseguito provoca l’uccisione di sedici lancieri senza nessuna vittima nei ranghi degli insorti. La banda si era appostata dietro il muretto del semicerchio e aveva sparato a colpo sicuro sul plotone che scendeva da Sessa verso la consolare. Subito dopo l’attentato si erano dispersi nei boschi del rio Travata, dandosi appuntamento in luogo sicuro. Più che altro Damiano preferiva agire da solo, in piccole azioni di disturbo, che facevano danni ed erano relativamente sicure per se ed i suoi. Non gli piaceva concentrare le sue forze con quelle di altri capi banda per tentare azioni più clamorose. Soltanto in un caso contravvenne a questa sua regola, quando si aggregò temporaneamente alla banda di Francesco Piazza di Ittri, il famoso Curcitto. Con questo combatte contro i regolari dell’esercito italiano la battaglia detta di Fossa della Neve sulle montagne che si ergono tra Mola e Itri, il primo di luglio 1862. Ma l’esperienza di dover stare alle dipendenze di un altro capo non gli piacque e se ne tornò alle azioni solitarie. Del resto lui che era stato soldato conosceva la potenza di uno schieramento regolare in campo aperto e sapeva di non poter competere. Il suo raggio di azione era limitato alla piana di Sessa e di Traetto, in questa zona conosceva a perfezione come mimetizzarsi e come scappare, attraverso i sentieri di montagna fino ad un sicuro rifugio. Le montagne e i boschi di questa zona sembravano fatti apposta per permettere dei rapidi ed efficaci colpi di mano. I monti aurunci erano dominati dal massiccio di monte Petrella, il monte più alto della piccola catena con i suoi 1500 metri, da qui attraverso rupi scoscese e veri e propri precipizi si giungeva alla valle dell’Ausente e si poteva anche proseguire, montagna montagna, fino al Garigliano, attraversando i monti Vescini, più bassi certo e con pendii meno aspri, come monte Maio e monte Fuga, ma che intanto offrivano protezione. Damiano aveva fatto di Campo di Venza il suo rifugio preferito. Attraverso un antico sentiero da Roccaguglielma si poteva raggiungere una spianata, dove c’erano ancora uliveti ricavati sulle terrazze costruite dalla paziente opera dei contadini nel corso dei secoli nei canaloni del versante orientale di monte Finitizia. Poi iniziavano boschi di castagni secolari, con piante enormi che a volte avevano un diametro anche di quattro metri, boschi comodi per ripararsi dagli sguardi indiscreti. Di qui attraverso una faggeta si saliva ancora fino a una seconda spianata detta di Guado del Faggeto sulle pendici di monte Forte e monte Cavecce a una quota di mille metri. Qui c’è la Fossa Juanna detta anche delle streghe, che secondo il popolino ogni anno si riuniscono nella faggeta. E poi ancora salendo si giunge ad un altopiano che è chiamato Campo di Venza, il più alto di tutti. Il pianoro termina nella sella incassata di Serra di Campo che si apre tra il monte Belvedere e il monte Coculo. Da qui si domina la valle di Polleca, mentre sullo sfondo si vedono monte Petrella e monte Revole. Alcune capanne di pastori, le mannere, costruite con pareti di pietra e un tetto di paglia servivano come ricovero di pastori che portavano capre e anche vacche ai pascoli estivi. Questo sua segreto rifugio servì per i sequestri di persona fatti da Damiano che usava le molte grotte carsiche esistenti nella zona per nascondere il sequestrato. Per molto tempo il suo rifugio venne tenuto segreto ma poi alla fine l’esercito riusci a capire dove si nascondesse e con un’azione coordinata di accerchiamento riuscì nell’estate del 1863 a respingere la banda dalle campagne di Traetto sempre più in alto, mentre contemporaneamente vari contingenti di soldati convergevano sul Campo di Venza salendo da Maranola, da Itri e da Roccaguglielma, chiudendo in pratica tutti gli accessi e impedendo la fuga.

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Passeggiare non stanca

Passeggiare non stanca


Quando è sera, d’estate, la gente esce dalle case, dove è rimasta rintanata nelle calde ore del pomeriggio e si riversa per il corso principale della vecchia città.
La città fu costruita su un colle, tra due valloni fluviali, posizione ottima per la difesa, ma certamente non per il passeggio.
Il corso si snoda attraverso le vecchie case corrose dal tempo che si sorreggono l’una con le altre, contorte, mal sostenute anche nella contiguità, grovigli di case ammucchiate, cresciute su se stesse e curve, quasi, per il peso, che sembrano toccarsi in alto, scampate a terremoti e guerre millenarie e che guardano, con le occhiaie sgranate dei loro balconi dagli infissi che cadono in pezzi, con la fissità di chi guarda senza più meraviglia.
Non c’è traffico veicolare, almeno questo l’hanno ottenuto i verdi che per anni hanno strepitato in Comune, e la gente può passeggiare tranquillamente in su e in giù, come un nuotatore in allenamento che accumula vasche su vasche sempre con la stessa bracciata lenta e distesa.
La gente cammina per strada divisa in gruppi distinti: i comunisti, i democristiani, la corte di questo o quell’assessore, i socialisti, i liberi pensatori, i tifosi della squadra del Napoli, i milanisti, i cantori della corale, i difensori del centro storico, gli ambientalisti, i priori delle confraternite.
Vere monadi chiuse non comunicano tra loro.
A volte succede che qualcuno passa da un gruppo all’altro, ma questo in genere lascia supporre la capacità di ben altre acrobazie.
All’interno dei gruppi la regia è molto rigida.
Ci sono naturalmente i protagonisti, poi vengono i personaggi fissi, i caratteristi, e poi le comparse, i comodini e infine i novizi, quelli che debbono fare apprendistato, infine ci sono gli stagionali, i saltuari e quelli a mezzo servizio.
Rari sono i passeggiatori solitari ed appartengono a categorie precise ed inconfondibili: i filosofi senza accademia, i pazzi, gli scrittori di storia locale, i malinconici e gli ubriaconi.
Ci sono posti privilegiati per osservare adeguatamente il passeggio.
Tra questi oltre al Circolo cacciatori ed alle farmacie, che da sempre fungono da club politici, negli ultimi tempi una certa importanza è stata acquisita dalla sartoria di Pomicino.
Vari fattori hanno contribuito ad elevarla al rango di vera e propria istituzione culturale, ma soprattutto è la posizione che ne ha determinato lo sviluppo, situata com’è in un punto strategico del corso, proprio su di un incrocio importante, in un punto dove la discesa, o la salita, è più impegnativa e costringe a rallentare, permettendo così a chi sta seduto nella sartoria di captare qualche parola o addirittura brani interi di conversazione, che poi opportunamente ricombinati ed interpretati danno la stura a tutta una serie di congetture, oppure danno semplicemente lo spunto a qualche frequentatore per una brillante sortita in un qualsiasi campo dello scibile umano.
La sartoria è un locale grande, più lungo che ampio, ma fresco, accogliente, con le sedie già pronte che attendono i soliti frequentatori.
Il padrone di mezz’età si affatica con i suoi lavoranti, stira, imbastisce, taglia tra una chiacchiera ed un’altra, tra un pettegolezzo ed un altro, sbuffa per il caldo e allora sorbisce volentieri una granita di limone che uno dei lavoranti è lesto a portare dal bar vicino.
Piccolo, tarchiato, paffuto, dal viso giocondo, rubizzo e quasi imberbe ascolta volentieri il chiacchiericcio dei suoi aficionados mentre continua febbrilmente il suo lavoro.
L’industria del prêt à porter l’ha distrutto, non sono molti ormai quelli disposti a farsi l’abito su misura, ma l’uomo si arrangia in mille modi.
A dire il vero qualche anno fa, pensando di poter fare ancora concorrenza alla nascente industria dell’abbigliamento confezionato, aveva cercato di brevettare un suo rivoluzionario metodo di ricavare la taglia precisa dalla semplice fotografia, evitando così i fastidi delle prove ai clienti, ma allora i sarti erano ancora dei sarti, non erano gli stilisti di oggi e la sua tecnica rivoluzionaria, senza l’appoggio di uomini politici potenti e dei mass media, si risolse in un fallimento anche economico perché il poveretto dovette pagare di tasca sua tutte le inserzioni pubblicitarie sui giornali.
Oggi però ha l’appalto di tutti i negozi d’abbigliamento cittadini e fa la piega ai calzoni che questi negozi vendono ai clienti.
Aiutato dalla moglie organizza poi gite turistiche dappertutto, gite a prezzi popolari, tutto compreso, colazione a sacco, partenza in pullmanns di lusso, sfacchinate sotto il sole cocente, ritorno in nottata, dopo centinaia di chilometri di viaggio con canti e cori di aridammi lu fazzolettino e montanara bella da Lourdes, Fatima, Cascia e Assisi, o S. Giovanni Rotondo da qualche tempo assurto agli onori di meta preferita, ma anche Gallinaro, per gli itinerari religiosomisticomiracolistici.
Oppure gite godereccie per pensionati a Rimini, Cattolica, S. Marino per il tour gastronomicoultrapopolare.
Inoltre s’incarica delle prenotazioni per le pomeridiane dei loggionisti del S. Carlo.
La sartoria ha ospiti fissi e selezionatissimi.
Innanzitutto Melenso capoufficio dell’Anagrafe, fonte informatissima ed inesauribile di pettegolezzi del centro e del circondario.
Melenso è molto compreso dell’altissima funzione e del posto che occupa all’interno della complessa burocrazia comunale.
La prima cosa che fa entrando ed occupando la sua sedia nella sartoria è il racconto minuzioso e circostanziato della sua attività giornaliera, di come ha redarguito il sindaco o quel dato assessore che volevano con la loro invadenza entrare nelle sue specifiche competenze, di come con solerzia e capacità ha sbrogliato qualche matassa cartacea mandando avanti il paese di un passo sulla via del progresso.
Poi c’è Ninitto, ex procuratore delle Imposte in pensione, ora caposcuola della neoavanguardia poetica locale.
Ninitto in tutta la sua vita di funzionario statale, trascorsa in diversi uffici del nord, non è riuscito a mettersi da parte neanche un soldo ed ora vive stentatamente con la sua pensione di statale.
Era un impiegato integerrimo, o come vuole qualcuno non troppo sveglio, se dalla sua attività di censore, che altri hanno saputo far fruttare così bene, riusciva solo a guadagnare qualche paio di scarpe o a scroccare qualche cena, ogni volta che per pietà qualche usciere suo dipendente gli cedeva la pratica di qualche commerciante.
Ritiratosi al paese natio, vive attorniato da una specie di corte dei miracoli di poeti naif di cui è stata sempre prodiga la nostra terra e che lo hanno eletto caposcuola, dato che anche lui scrive poesie, e gli portano a correggere i loro parti già pronti per essere inviati a concorsi e premi letterari ed intanto gli scroccano sigarette e cappuccini.
Ninitto siede nella sartoria per un’oretta la sera, per lo più tace, acconsentendo per quieto vivere alle dotte affermazioni degli altri soci, specie a quelle del professor Attonito, onore e vanto della cattedra di belle lettere del locale liceo classico, altro frequentatore fisso di Pomicino.
Attonito è scapolo, per libera scelta s’intende, non di castità però perché lo punge e parecchio il rimpianto di quel sesso di cui ormai ha vaghi ricordi e che cerca invano di richiamare alla memoria guardando con ingordigia il petto procace di qualche allieva.
Lui non si sposò per non perdere l’intimità con se stesso.
Ormai ha oltrepassato la sessantina, obeso, rubizzo per l’ipertensione del ghiottone inveterato, accidioso e scroccone, è proverbiale in tutto il paese per la sua avarizia.
Trascorre la vita cambiando la sedia della sartoria, con la poltrona della TV che per lui, che non è mai uscito dal paese se non per concorsi e commissioni d’esami, costituisce una vera finestra sul mondo.
E’ lui, comunque, che lancia le frecciate più velenose contro Ninitto il quale, nonostante l’età e i dubbi che in gioventù ci furono sulla sua virilità si permette il lusso, a sessanta anni suonati, di intrattenere una relazione amichevole, e fino a che punto amichevole e intima è un mistero che affascina il pubblico della sartoria, con la bella Maddalena, l’austriaca che si è trasferita nel ventre della vecchia città, dove ha comperato e restaurato una casa proprio sulle mura che guardano nella valle.
Ninitto sorride sornione e si schermisce, lui parla il tedesco e questa è forse la ragione della sua amicizia con la donna, con la quale si limita in fondo ad ascoltare Beethoven.
Il padrone è onorato della presenza dei suoi frequentatori ed ascolta rapito le conversazioni di così illustri personaggi.
Ma la situazione diventa incandescente quando s’accende la polemica fra Castruccio e Geppetti, una polemica affascinante che da decenni avvince il paese intero, che ora pende per l’uno, ora per l’altro.
I due sono i capifila locali di due tendenze della critica letteraria, la critica acritica e la critica ipercritica.
Da anni non si parlano nemmeno, se non per interposta persona.
Anche la polemica va avanti così per terze persone.
Castruccio si siede nella sartoria, lancia il suo attacco polemico e se ne va.
Più tardi passa Geppetti, gli viene riferita l’invettiva del primo alla quale risponde per le rime e se ne va anche lui.
Si continua così da anni con quella sedia che serve a tutti e due e che viene lasciata libera apposta solo per loro.
I due non si incontrano, non debbono incontrarsi, dice qualcuno, come non può succedere per la processione pasquale del santo patrono e della Madonna, che seguono percorsi diversi e non s’incontrano pena la sciagura per la città, ricordo storico di un accoltellamento quando, per motivi di precedenza di una o dell’altra processione, morì uno dei figli del duca Marzano.
La stesa cosa si pensa avverrebbe se s’incontrassero l’uno o l’altro.
Queso fatto è diventato proverbiale, tanto che qualche cittadino, passando dinanzi alla sartoria, accompagnato da parenti del circondario, mostrando la sedia esclama: chesta è ‘a seggia!
Castruccio, comunista feroce, con i catenielli al naso, per sbarcare il lunario ed essere assunto al Comune dovette organizzare una conversione che fece scalpore.
Si gettò letteralmente ai piedi della Madonna portata in processione solenne nel ’48 da padre Juè, attendendola all’incrocio solito delle conversioni vicino alla cappella dei carcerati.
Infatti questo è un espediente ricorrente nella storia cittadina e ancora oggi viene usato in diverse occasioni, da potenti che hanno qualcosa da farsi perdonare, o da semplici cittadini per essere riammessi nella ecclesia.
Questa è la vera Corte d’Assise, non quella di S. Maria.
Ladri pubblici, amministratori disonesti, delinquenti comuni, camorristi, falliti, tutti la Madonna ricopre col suo manto misericordioso.
Geppetti è segretario particolare del notaio Siafatta (la sua volontà) e dal suo posto privilegiato, attraverso un complicato gioco di piccoli piaceri, carte sbrigate prima di altre, capacità personale di ricordare notizie e date e persone è stato capace di ritagliarsi una piccola fetta di potere. I due hanno in comune la passione per la lettura.
Castruccio è un divoratore di libri, è impossibile vederlo passeggiare senza un libro tra le mani. Anche per la strada continua a leggere con le sue lenti spesse, ignaro del mondo che lo circonda. Legge soprattutto romanzi, storie d’amore e d’avventure.
Geppetti è abbonato a tutte le riviste letterarie d’Italia e non legge nulla se prima non ne ha letto la critica. Insomma uno legge romanzi e l’altro finisce per leggere soltanto la critica dei romanzi. Due posizioni inconciliabili. Prima o poi tra i due succederà qualcosa di brutto. La sartoria funziona da sempre da luogo di conversazione libera, vi si può parlare di tutto, senza limiti o falsi pudori, unico tasto da non toccare sono i sindacati.
Pomicino diventa una bestia al solo sentirne parlare, lui che è così mite.
Lui personalmente non ha mai avuto storie con i suoi lavoranti che tratta come persone di famiglia, il fatto è un altro.
Al tempo della sua lotta contro l’abito confezionato si era ritrovato un po’ alle strette economicamente. Allora per andare avanti, mentre cuciva un vestito, portava ad impegnare al Monte di Pietà tutti gli altri tagli di stoffa che gli portavano i clienti.
Cominciava così una lunga trafila di finte prove e controprove, di rinvii, con i clienti che andavano e venivano, appuntamenti saltati perché il padrone non si faceva trovare, bugie pietose, minacce, appostamenti in strada o nel portone di casa, finché poi, avuto il saldo dell’unico abito messo in lavorazione, non andava a ripigliarsi al Monte un altro taglio di stoffa e andava avanti così con vestiti estivi consegnati a Natale.
Nessuno se ne sarebbe mai accorto e tutto sarebbe andato liscio, nonostante le proteste dei clienti, ma un bel giorno i dipendenti del monte dei pegni, diventati dipendenti di una banca vera e propria, che aveva assorbito il monte, non avessero iniziato un lungo sciopero per adeguare il loro stipendio a quello di tutti gli altri dipendenti della banca.
La cosa venne risaputa per forza ed il maestro dovette spiegare la situazione ai clienti e perdere la faccia e stava per perdere anche il lavoro e tutto p’a bbella pippa ‘e Lama.

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La pietra della minestra

La pietra della minestra.

Abitava con la moglie e i numerosi figli nati dal matrimonio nel vecchio casolare dell’Assunta. Lavoro da queste parti ce n’è sempre stato poco e il piccolo appezzamento di terreno permetteva soltanto di sopravvivere. Era quindi costretto a cercare di vendere la fatica a giornata, quando ci riusciva. Se ne usciva di casa la mattina presto e si ritirava soltanto alle prime ombre della sera.
Apriva la porta che malamente chiudeva l’apertura dello stanzone a pianterreno e la riaccostava, sbarrandola poi con il paletto passato dietro gli scuri dell’uscio, mentre la moglie e i figli gli si facevano dattorno. Gli sguardi erano tutti volti su di lui, ormai era ora di cena e da lui si aspettavano di che riempire lo stomaco.
Sul focolare del camino ardeva lento un fuoco tenuto vivo dalle fascine e dagli sterpi raccolti nella selva di monte Ofelio durante il giorno, un treppiedi annerito dal tempo e dall’uso sorreggeva un capace recipiente di rame, ma che ormai del rame non aveva più il colore, perché il continuo uso ne aveva annerito la superficie.
Dentro il paiolo bolliva l’acqua.
Beh? Non avete preparato ancora nulla per la cena?
Il tono era sempre leggermente scherzoso. Aspettavate me, non è vero? Ma anche oggi io non ho trovato lavoro e ho girato tutto il giorno per il pantano.
I ragazzi delusi si scostavano dal padre, si accucciavano vicino al fuoco, qualcuno tornava a qualche suo giocherello solitario. La cena rischiava di saltare.
Allora l’uomo dopo aver girato uno sguardo sui figli, appendeva il cappottaccio militare al chiodo infisso a questo scopo nel muro e poggiava a terra il tascapane bisunto che recava a tracolla.
Animo, anche questa sera faremo ricorso al nostro segreto di famiglia e faremo un buon brodo caldo con la nostra pietra fatata.
Sopra la trave che faceva da mensola per il camino era conservata in un angolo una bella pietra di fiume tutta liscia e nera. Questa pietra fatata, diceva l’uomo, prendendola e portandola a risciacquare al mastello dell’acqua, ve l’ho già raccontato mille volte, venne regalata da una fata al nonno del nonno di mio nonno. E’ la pietra della minestra, quando proprio non c’è niente da mangiare, con la pietra si prepara un pasto caldo e nutriente. I ragazzi si avvicinavano, avevano già vissuto altre volte questa storia, però ogni volta si facevano prendere dalla magia del racconto della fata buona che aveva donato quella pietra a quel loro antenato misterioso.
L’uomo faceva cadere la pietra ormai pulita e luccicante nel paiolo con l’acqua bollente.
Ecco fatto, ora la pietra è a bagno nell’acqua e tra poco si compirà di nuovo il prodigio. Ma ora vediamo come possiamo accompagnare il brodo che verrà fuori dalla pietra.
Si dirigeva allora verso il tascapane e vi affondava una mano estraendo due belle grosse cipolle rosse, si cavava di tasca il coltello a serramanico e lestamente le sbucciava, le spaccava a metà e, dopo averle risciacquate, le metteva nel paiolo con l’acqua e la pietra.
Di nuovo affondava la mano nel tascapane e questa volta venivano fuori due o tre grosse rape, belle rape bianche, che presto sbucciate e fatte a pezzi seguivano la stessa sorte delle cipolle. Poi ancora dalla borsa estraeva due carote e un mazzetto di asparagi selvatici che aveva raccolti nella pineta vicino al mare.
Anche questi finivano nella pentola, un mestolo di legno era lì pronto a girare lentamente la pietra e il resto.
Mettiamoci un po’ di sale per dare un po’ di sapore, affermava rimestando col cucchiaio di legno e assaggiando a volte in fil di labbra e soffiando per non scottarsi.
Dal tascapane venivano fuori ancora due o tre patate, raccolte chissà dove, e queste anch’esse sbucciate e tagliate a tocchi finivano nella pentola.
Secondo me, ci stanno bene anche quattro o cinque pomodori vernini, vanne a prendere ragazzo!. Ordinava al figlio maggiore che aperta la porta ne staccava qualcuno dalla treccia appesa sulla facciata del casolare e rientrava porgendoli al padre. E anche un paio di cerasielli, i peperoncini rossi dalla forma di ciliegia e poi naturalmente un filo di olio che veniva versato con grande attenzione dal recipiente di latta col beccuccio.
Dal tascapane usciva ancora un mazzetto di erba cipollina, la bietola, un poco di finocchietto selvatico, l’erba stella, tutte erbe che l’uomo conosceva bene e che raccoglieva nel pantano. La moglie, intanto, che la storia la conosceva a fondo, aveva già tirato fuori la tavola dove si stendeva la sfoglia nei giorni di grascia. Dal sacco nascosto sotto il lettone cavava un paio di mestoli di farina e lestamente con l’aiuto di un poco d’acqua calda impastava quel po’ di farina e la stendeva con il mattarello e poi la tagliava in listerelle sottili.
Dal paiolo ormai saliva un odore di buono e i ragazzi erano tutti lì attorno in attesa del miracolo della zuppa che si era avverato ancora una volta. Ma la storia ancora non era finita, il tascapane non aveva finito ancora le sue sorprese, come per magia dal borsone venivano fuori due uova di gallina.
Figuratevi che stamattina, mentre cammino sullo stradone vicino alla masseria di don Peppe, una gallina esce dal campo vicino al rivolo e mi cammina dinanzi, ed ecco che si dirige sotto un albero e dopo un po’ sento il verso che fanno le galline quando hanno fatto l’uovo, mi avvicino e vedo quest’uovo caldo caldo appena scodellato, e accanto ce n’era anche un altro. I gusci venivano rotti e le uova sbattute in una piccola terrina, intanto le listerelle di pasta erano andate a raggiungere la zuppa e alla fine veniva versato e rimestato anche il liquido dorato delle uova che presto si rapprendeva in più o meno grandi grumi giallognoli.
Una grande zuppiera di ceramica bianca, leggermente scrostata, e finemente segnata da lunghi righi neri, ricordo di tempi migliori, accoglieva quindi l’abbondante zuppa e veniva trionfalmente poggiata proprio al centro del tavolo.
La pietra fatata intanto veniva recuperata amorosamente dal fondo del paiolo e messa nel mastello affinché si ripulisse dall’unto. Ognuno si avvicinava pronto col suo cucchiaio di legno mentre la madre tagliava da un grosso pane raffermo qualche fetta.
Avete visto che buona zuppa è venuta fuori dalla pietra anche stavolta!

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Ubaldo

Ubaldo

Aveva riempito la sua vita di grida e dei sibili acuti del suo fischietto da arbitro e dei proclami che andava scrivendo sui manifesti e sui muri delle case del paese, ma quando morì, se ne andò in silenzio ed in punta di piedi.
Di mestiere faceva lo stagnaro.
Aveva un buco di negozio proprio vicino alla chiesa grande dell’Annunziata e qui lavorava preparando, per tutta la settimana, ogni sorta di pentole e coperchi di tutte le misure e recipienti di latta che avrebbe poi esposto per venderli al mercato del giovedì.
Col suo mestiere aveva mantenuto, finché era campata, la moglie invalida e costretta a letto e l’unica figlia zitella.
Ma oramai erano pochi quelli che comperavano i suoi manufatti ed insieme al gozzo bitorzoluto che gli sformava il collo cresceva ad Ubaldo una specie di rabbia sorda contro quel sistema che imponeva modelli di vita e pentole di lusso.
Poteva mai cambiare mestiere, quando era già vecchio?
E poi non sapeva fare altro che questo.
Finché un giovedì se ne uscì improvvisamente di senno e gettò via dal negozietto, tra la folla che assisteva divertita allo spettacolo fuori programma, tutto quello che aveva: pentole e coperchi, ventagli per attizzare il fuoco dei bracieri, scope di saggina e randelli per stendere la pasta.
E anche gli strumenti di lavoro furono gettati via e, da quel giorno, per tutto il tempo che gli rimase da vivere non volle lavorare più.
Girava il paese d’inverno coperto malamente con un cappottaccio grigio e d’estate in pantaloncini da spiaggia e maglietta, sempre con una bottiglia di birra tra le mani e con il fischietto che, ogni tanto, portava alla bocca soffiandoci dentro e traendone fischi acutissimi.
Chissà forse aveva in mente, con quei suoi fischi, di ordinare delle punizioni, dei calci di rigore, lui, che amava il gioco del calcio e la squadra del Napoli, ma, dopo un breve periodo di stupore, la gente del paese non faceva più caso alle sue stravaganze.
Era diventato un particolare del paesaggio e solo qualche ragazzino, ormai, reagiva scompostamente alle sue apparizioni improvvise ed alle grida inintelligibili che gli uscivano dalla strozza, sempre più sformata dal gozzo.
Incapace di farsi comprendere aveva preso l’abitudine di scrivere i suoi messaggi sui manifesti e sui muri con dei grossi pennarelli di colore bleu.
Erano messaggi brevi e sempre gli stessi, quelli che scriveva.
UBALDO AMA IL MARE.
Oppure VIVA IL NAPOLI e, negli ultimi tempi, sempre più ossessivamente UBALDO AMA ANNA DI ROCCAMONFINA.
Forse l’aveva vista al mare, questa ragazza e se n’era innamorato, o forse era innamorato della giovinezza che aveva perduto.
Voleva cantare gli occhi azzurri e i capelli biondi di Anna.
Senza pudore riempiva il paese di queste sue dichiarazioni semplici e lapidarie.

Era andato perfino a Roccamonfina, per scrivere là su tutti i muri del paese, la sua ingenua passione per Anna, per farla meglio apprezzare dai suoi concittadini che non conoscevano quale tesoro era da loro posseduto.
Ma quei montanari non avevano capito e anzi era stato brutalmente picchiato, tanto che dovette essere medicato in ospedale.
Ma il giorno dopo, imperterrito, Ubaldo ancora pesto e con un occhio gonfio era tornato alla carica.
ANNA E’ BELLA E UBALDO AMA IL MARE solo a tratti inframmezzando ABBASSO TUTTI VIVA UBALDO.
Aveva anche l’abitudine di interrompere i comizi elettorali, specie quelli della DC e questo suo vizio di fischiare, sempre con il suo strumento, insieme alla testardaggine di voler per forza portare dei garofani rossi all’oratore di turno, gli fece passare qualche brutto momento, come quando volevano farlo arrestare e fu malmenato da qualche agente in servizio, quando interruppe il comizio del ministro.
Negli ultimi tempi, vecchio e malandato ormai, girava ancora sulle sue gambe gonfie, con gli occhi spiritati ma abbronzato dal sole, perché, nonostante tutto, continuava ad andare al mare tutti i giorni con la corriera.
Era diventato insensibile a tutto.
A volte lo sforzo che metteva nel fischiare gli faceva svuotare la vescica enorme per la birra e per la prostata gonfia come una patata.
Ma lui non se ne dava peso, menava un po’ la gamba, facendo defluire le ultime gocce e poi continuava la sua incessante peregrinazione.
Una sera stanco si mise a letto ed in sole 24 ore se ne andò senza un grido, strozzato dal suo cuore troppo grande.





*

Proprio una bella pensata


Proprio una bella pensata!

Don Annibale Struffi era grande e grosso, come la quercia centenaria che si stagliava, robusta e nodosa, contro il muro della canonica di Rongolise.
Ancora adesso che andava quasi per i sessanta, don Annibale poteva fare a gara, se voleva, in prove di forza con i più giovani del paese.
Del resto lui la vita se l’era presa comoda e non si faceva mancare niente, ma proprio niente, per rendersi piacevole quello che gli restava da vivere.
L’affitto delle grasse terre della parrocchia gli dava una buona rendita.
Erano terre da olio e da vino quelle!
E su quelle colline le terre migliori, quelle meglio esposte al sole, erano da secoli di proprietà della Chiesa per antiche concessioni e donazioni.
I mezzadri del parroco conoscevano perfino il rumore dei passi di don Annibale che, al contrario dei tanti grossi proprietari del circondario, spesso e volentieri si presentava sui fondi criticando i metodi di lavoro e lesinando fino al centesimo il valore del raccolto, che si trattasse di olio, di vino o di grano.
Altro che i nobili che risiedevano in città e in campagna ci venivano nei giorni di sole, col calessino ad assaggiare i primi fichi.
Questi che di lavoro non capivano nulla se ne rimanevano tutti contenti a bersi le lamentele dei loro soprastanti.
Una volta la pioggia, una volta la grandine, c’era sempre una disgrazia cui poter addebitare lo scarso raccolto.
Ma con don Annibale non ci si cavava un ragno dal buco.
In tempo di raccolto se ne veniva sui fondi, tralasciando ogni ministero, e non se ne andava fin quando non aveva avuto il suo e perfino più del suo, perché si riprendeva, e con gli interessi, anche tutti i soldi che durante l’inverno aveva anticipato ai suoi contadini.
In punto a mezzogiorno sedeva alla tavola che le donne gli apparecchiavano all’aperto, ricoprendola di abbondanti portate: i ziti al ragù, con un pennacchio bianco di formaggio che sembravano monte Redentore coperto di neve, poi un pollastro arrostito e intere ruote di parmigiana e fiaschi di vino rosso freschi e sudati di cantina.
Mangiava allegramente, don Annibale, e beveva a garganella, slacciandosi il colletto bianco, acceso in viso come un peperone, ma non per questo riuscivano a stordirlo, né a fargli perdere il conto dei sacchi di grano.
Quando se ne andava la sera, pieno di vino e di umori, era accompagnato da un coro sommesso che a tutta prima sembrava un saluto reverente ma che, a saper leggere sulle labbra, si rivelava un coro di imprecazioni e di maledizioni.
-Ti vada di traverso quello che hai ingozzato, brutto avaro-
Questo gli dicevano a mezza bocca quei contadini ignoranti che si inchinavano al suo passaggio e gli annuivano quasi benedicenti.
E don Annibale lo sapeva bene.
E il vino allora gli andava di traverso per davvero.
Quelli credevano che era l’ultimo fesso sulla faccia della terra.
Ma lui c’era nato in campagna, sulla masseria di don Paolo, e certi trucchi li aveva visti fare già a suo padre, buonanima.
Così mezzo ebbro e con il sangue in rivolta se ne tornava alla canonica, dove poi Nunziata, la donna che veniva a fargli le pulizie, ne faceva le spese.
La prendeva con furia, piegandola sul tavolo rozzo della cucina, ributtandole in capo la sottana e, mentre ci dava dentro con impegno, continuava ancora ad imprecare contro quei cialtroni.

* *
Quell’anno era da poco terminata la guerra e gli uomini ritornavano dal fronte e dai campi di prigionia.
Era tornato anche il marito di Nunziata e girava per il paese, inquieto e solitario.
Si avvicinava la Pasqua.
Piscinacca, il sagrestano, glielo ripeteva ogni giorno a don Annibale:
Don Annì quest’anno la Pasqua dobbiamo celebrarla in modo speciale. E’ finita la guerra. La gente è come eccitata, vuole che le cose cambino.
E che deve cambiare da queste parti, povero scemo: il povero resta sempre povero ed il ricco resta sempre ricco.
I contadini vogliono le terre, don Annì!
Ebbene? Si piglino le terre del Comune, mica vorranno quelle della Chiesa!
E chi li capisce? Molti sono stati lontano tanto tempo e , adesso, quando parlano non li capisco più.
Il povero Piscinacca era storpio ad una gamba fin dalla nascita e a suo modo era fedele a quel prete al quale s’era attaccato fin dalla gioventù.
Erano invecchiati insieme. Lui sempre trattato come un cane, però lo aveva assistito in tante faccende, quel prete, anche nelle più sporche.
E’ vero Piscinacca la rivincita se la prendeva a modo suo.
A don Annibale gli pisciava ogni mattina nel vino della Messa.
Non tanto però, appena quel giusto!
E il prete s’era abituato talmente al sapore del miscuglio, che, una volta che Piscinacca si era alzato tardi e non aveva fatto in tempo, l’aveva rimproverato, trovando diverso il sapore del vino, accusandolo di aver fatto qualche intruglio.
Quell’anno a Piscinacca girava un’idea per la testa.
Don Annì, perché non organizziamo una processione vivente per la Pasqua? Con i paesani travestiti da soldati romani, facciamo una rappresentazione sacra come nel Medioevo. Eh? Che ne dite?
Sulle prime il prete ci aveva riso sopra, ma poi, ripensandoci, aveva trovato che l’idea non era tanto stupida.
Le bizzoche che venivano a confessarsi la mattina presto l’avevano trovata sensazionale, anzi tra loro già litigavano a chi dovesse fare la parte della Madonna o di S. Anna.
Indubbiamente la processione avrebbe attirato un sacco di gente, le osterie avrebbero avuto il loro guadagno e le offerte sarebbero state più generose.
Quel Piscinacca aveva avuto proprio una bella pensata!
Il paese fu in breve tutto rivoluzionato da questa iniziativa.
Bisognava preparare i vestiti dei soldati romani, con tanto di mantello rosso, di elmo e di spada.
E poi la scenografia.
E imparare le parti della Via Crucis, bisognava trovare i personaggi.
Un comandante dei legionari romani fu subito trovato in Gennaro, uno dei figli di un massaro di don Annibale, un giovanottone robusto e dai capelli ricci.
Pilato, Hannah e Caifa e i vecchi del sinedrio furono racimolati tra gli anziani del paese.
La stessa cosa per Maria, S. Anna e le altre donne che furono tutte reclutate tra le pie donne.
Per la Maddalena all’unanimità il paese scelse Nunziata, che aveva anche una bellissima e folta capigliatura nera.
Tutte le notizie venivano riportate da Piscinacca, sempre più eccitato, a don Annibale che non riusciva neanche lui a nascondere un certo interesse per tutta la faccenda.
Don Annì, non riusciamo a trovare la persona adatta per rappresentare Cristo, se ne uscì una volta il sagrestano.
E, giorno dopo giorno, riferiva al prete che la difficoltà a reperire un Cristo all’altezza del compito era enorme.
E senza Cristo tutto era inutile, era lui il personaggio principale.
Ci voleva un uomo alto, robusto e di bella presenza.
Doveva trascinarsi addosso una croce per tutto il tratto in salita che portava alla collinetta che si ergeva proprio dietro il paese e, vestito solo di uno straccio attorno ai fianchi, e quell’anno faceva anche freddo.
E dove trovarlo questo Cristo, con tutti questi uomini tornati dalla guerra che sembravano tanti scheletri.
E l’avevano vinta, figurarsi se l’avessero perduta!
Don Annì. se ne uscì un mattino Piscinacca, mentre aiutava il prete ad indossare la pianeta in sacrestia, Perché non lo fate voi?
Chi?
Gesù! Voi avete la figura adatta, un bell’uomo forte come voi. Che bel Cristo che sareste!
Ma sei pazzo del tutto? Rispose il prete, infastidito, aggiustandosi addosso la sottana e dirigendosi verso l’altare.
Ci manca pure che mi metto a fare il pagliaccio, pensava, mentre recitava il formulario latino della Messa.
Ma Piscinacca, imperterrito, tutto il giorno ed il giorno dopo ancora, gli ripeteva l’invito, insinuando nella mente del prete l’immagine della rappresentazione, con lui, Gesù, protagonista, primo attore, con una folla plaudente.
E chissà come sarebbe piaciuto quel suo corpo ancora asciutto e muscoloso e quanti pensieri avrebbero fatto le donne del paese a vederlo.
E tanto fece e tanto disse che don Annibale cominciò a vacillare.
Cominciò con l’opporre qualche ma alle argomentazioni del furbo sagrestano, ma quello aggirava ogni ostacolo, superava ogni opposizione, presentava la cosa sotto gli aspetti più accattivanti, finché don Annibale, ormai convinto da tempo, disse di sì.
Finalmente.
Trovato il protagonista, si poteva dare inizio alle prove che furono lunghe ed estenuanti, perché don Annibale volle rispettata in pieno la lezione dei Vangeli.

* *
Quell’anno il mese di Aprile fu veramente rigido.
Sembrava ancora inverno.
Don Annibale si era alzato tardi quel mattino.
La notte aveva dormito male, s’era girato e rigirato nel letto e solo verso l’alba era caduto in un sonno pieno di strani pensieri e poco ristoratore.
A Piscinacca che era andato a svegliarlo aveva confessato di essere preoccupato per la storia del pomeriggio, chissà se aveva fatto bene ad accettare, era un sacerdote, lui.
Ma che dite, don Annì! Forse avete mangiato troppo ieri sera. Ve lo dico sempre che la menestrella vi fa male. Avete fatto pure voi come il principe di Condè, ve lo ricordate, quello dei Promessi sposi?
Sarà! Rispose il prete alzandosi ma non si sentiva risollevato dalla spiegazione fisiologica del sagrestano.
Per tutta la mattinata se ne rimase in casa, ciondolando qua e là, assorbendo tutta la sua attenzione in mille piccoli particolari senza interesse, vecchi conti, fatture scadute, sfogliando qualche libro, preso da una scansia e riposto subito dopo.
All’ora del pranzo il solito Piscinacca gli diede la bella notizia che Nunziata non era venuta.
Si stava preparando alla recita anche lei.
E poi, scusate, non è meglio digiunare, pensando un po’ alla parte che dovete rappresentare?
Non hai tutti i torti, fece il prete, ricordando le sue raccomandazioni di rispettare la vigilia.
Vorrà dire che stasera, mi preparerai tu una bella cena sostanziosa, per riprendermi dal freddo che devo affrontare.

* *
L’appuntamento era stato fissato attorno alle tre del pomeriggio.
Questa era stata l’unica stonatura, ma era stato necessario qualche ritocco al Vangelo, per far svolgere tutta la rappresentazione in un tempo non eccessivamente lungo.
Don Annibale, ricoperto da una bella veste, fu dapprima portato davanti al Sinedrio e poi da Pilato.
C’era veramente tutto il paese ed un sacco di gente era venuta anche dai paesi vicini.
Don Annibale cominciava a pensare che aveva fatto veramente bene ad assecondare la pensata di Piscinacca.
Cominciava a rinfrancarsi finalmente dalle perplessità notturne.
Dopo la rinuncia di Pilato, don Annibale fu condotto alla colonna.
Qui fu denudato ed assaggiò una decina di frustate.
Veramente Gennaro ci aveva messo un po’ di foga in quelle frustate.
Don Annibale le aveva sentite eccome e ne portava anche i segni sulla schiena.
Quel cretino fa sul serio, disse a Piscinacca che stava sempre vicino a lui, dovendo rappresentare Giuseppe d’Arimatea.
Non fateci caso, don Annì! Fanno bene per il freddo. Tenete, fatevi un goccio adesso, che fuori si gela davvero.
Venne il momento della croce.
Don Annì, scusate, disse il falegname del paese, uno dei tanti che ricorrevano per un prestito al prete. Non ho trovato legno di abete.
Dicendo questo fece calare la croce sulle spalle del prete.
Era fatta con un bel tronco di quercia.
A don Animale tremarono le gambe, ricevendo il peso.
Ma che siete pazzi? Io non ce la faccio a portare questo affare fin sopra la collina.
Mentre rivolgeva queste parole al falegname ed ai suoi aiutanti, fu raggiunto sul dorso da una frustata terribile.
Il prete sobbalzò e lasciò sfuggire un gemito.
Forza, don Annì! Fatevi forza e camminate, gli disse Piscinacca. Ormai siete in ballo e la rappresentazione dovete farla.
Il prete mosse il primo passo tra due ali di folla vociante.
Mosse il secondo passo.
Largo. Fate largo. Gridavano i soldati che gli si misero a fianco.
Lentamente la processione prese la via del Golgota.
Innanzi venivano i soldati romani, soltanto preceduti da due carabinieri in alta uniforme, mandati dal centro cittadino e che si pavoneggiavano ignari con il loro pennacchio.
Poi i condannati, tra due ali di legionari, dietro le donne con Maria Maddalena un po’ discosta e con lo sguardo basso.
A morte. Portatelo a morte! Gridava la folla inferocita.
Don Annibale guardava quelle facce di contadini e si meravigliava di come si fossero calati nella storia che rappresentavano.
Era assorto in questo pensiero, quando sentì arrivare sul dorso una nuova terribile frustata che lo fece cadere in ginocchio.
Qualcuno lo aiutò a rialzarsi.
Il prete si era arrabbiato adesso, voleva piantare tutto ed andarsene a casa, erano veramente pazzi se credevano di continuare in questo modo.
Don Annì oggi dovete farlo veramente il calvario. Lo avvertì allora minacciosamente Gennaro, tirandogli una nuova frustata.
Questa è per la vostra solerzia nel dividere il raccolto.
La folla quasi fosse avvertita cominciò ad urlare contro il prete.
Impiccatelo davvero questo strozzino.
Giuseppe d’Arimatea si avvicinò al prete, asciugandogli la faccia con un panno.
Don Annì, questi sono impazziti, andate avanti, non provocateli.
Il prete faticosamente riprese il cammino in salita.
Una donna uscì dalla folla e gli sputò in faccia.
Mentre si asciugava col dorso della mano, la riconobbe.
Era Menica, una vedova, che aveva cacciato dal fondo che teneva in fitto, quando le era morto il marito in guerra.
Una nuova frustata lo raggiunse.
I carabinieri erano lontani e non avevano capito nulla di quanto stava veramente accadendo.
Doveva andare fino in fondo.
Allontana da me questo calice, Signore!
Perché gli vennero in mente ed alle labbra queste parole, proprio allora?
La salita era faticosa e la croce era pesante e ad ogni passo diventava sempre più pesante.
Sudava abbondantemente adesso, nonostante il freddo intenso.
Ma gliela farò pagare a questi bifolchi.
Pensò per un attimo, ma fu un attimo, perché subito dopo, come in un film, gli passò dinanzi agli occhi la vita che aveva condotto in tutti quegli anni.
Me la stanno facendo pagare a me, questa vita.
Una pietra bella grossa lo colpì in piena fronte, facendogli schizzare sangue sul selciato.
Don Annibale cadde una seconda volta, la vista gli si era annebbiata.
Il sangue colava abbondantemente dalla ferita.
Fu soccorso, una vecchia gli diede da bere, un uomo, che gli sembrò ancora Piscinacca, mortificato, gli tamponò la ferita.
Tutta colpa di quel cretino.
Ma dovette rimettersi in piedi e camminare, sospinto dalla folla e dalle frustate.
Era in vista della cima della collina, ormai.
Ma non ce la faceva più, il cuore sembrava scoppiargli in petto.
Don Annibale crollò sotto la croce per la terza volta.
Una frustata lo raggiunse sulla schiena, una nuova frustata, ma niente, stavolta il prete non ce la faceva a rialzarsi.
Un uomo uscì dalla folla e si avvicinò al prete, come per aiutarlo.
Era il marito di Nunziata.
Il prete alzò lo sguardo e lo fissò in volto.
Questa è per Nunziata, disse l’uomo.
Estrasse dalla tasca del cappotto militare che indossava una piccola roncola affilata e calò un terribile fendente, recidendogli la carotide alla gola.
Don Annibale reclinò il capo senza un grido, rimanendo così in ginocchio sotto la croce.




*

Terre maledette

Terre maledette

Una volta in quella casa ci abitava una famiglia di coloni.
Cacarovagna si era accosciato su una grossa pietra bianca accanto al fuoco acceso sull’aia, e mentre la cena lentamente cuoceva nel paiuolo messo sul treppiedi, andava ingollando grossi sorsi di vino da un fiasco che teneva sempre a portata di mano.
La giornata di lavoro era finita ed anche la padrona con il nipote che trascorreva le vacanze estive con lei al paese, insieme ai braccianti rimasti per le ultime faccende, venivano in circolo attorno al fuoco.
Adesso, alle parole dell’uomo, si voltavano a guardare nel buio crescente la sagoma nera del casolare mezzo diroccato e abbandonato, sopra il quale dietro la macchia di fichi d’India era appesa una luna piccola e rotonda.
Ero giovane allora quando i coloni presero in fitto il podere.
Prima di Garibaldi anche la Santella era proprietà della Chiesa, poi venne espropriata dallo stato e venduta, così continuava il vecchio gravemente.
Ma quello che l’aveva comperata non riusciva ad abitarci in questo posto maledetto, specie poi da quando i soldati avevano ammazzato un colono e la sua giovane sposa, appena sgravata, perché dicevano che aiutassero i briganti.
I piemontesi durante una perquisizione avevano trovato un fucile, quello che l’uomo si era portato dietro quando l’esercito di Franceschiello si era disciolto e lo usava per la caccia.
Ma i soldati non vollero sentire ragioni, o forse non le capivano neanche, perché parlavano un’altra lingua e lo avevano ammazzato come un cane davanti alla casa, lui e la moglie che proprio pochi giorni prima si era sgravata di un bambino che era morto subito dopo la nascita.
Mio padre me lo raccontava sempre, perché era venuto anche lui a vedere i due corpi stesi contro il muro della casa, coperti dalle mosche e mi diceva del petto gonfio della donna dal quale era uscito sangue e latte.
Per molto tempo nessuno volle affittare questo fondo, anche se la terra era buona ed il proprietario si lamentava che aveva fatto proprio un bell’affare a prendere le terre della Chiesa.
Niente, la gente preferiva morire di fame o emigrare in cerca di fortuna, piuttosto che venire a lavorare alla Santella.
Ma poi il tempo fece dimenticare tutte le vecchie storie.
Una famiglia prese in fitto la terra per pochi soldi, era tanto ormai che era abbandonata e se ne venne ad abitare nella casa.
Avevano un bambino ancora lattante.
Al mattino uscivano sui campi e la madre lasciava il piccolo nella casa disteso a dormire in una cesta appesa al gancio del soffitto di travi per paura che i topi glielo azzannassero.
La donna cercava di tenersi sempre ad una distanza tale da sentire il pianto del bambino per accorrere subito, ma quello non piangeva e se ne stava buono buono per tutta la mattina senza strepitare.
Ormai tutti erano interessati al racconto attorno a Cacarovagna che, magnanimo, faceva girare un po’ il fiasco ad asciugare il sudore nelle grosse maglie di lana degli uomini ed i brividi che il racconto metteva loro nelle ossa.
Un giorno torna dal campo sotto la mezza per preparare il pranzo e trova il piccolo immerso in un sonno profondo con gli occhietti infossati che non si svegliava nemmeno per succhiare il latte. E la cosa strana era che non stava nella culla, ma proprio in mezzo alla stanza, come se qualcuno l’avesse messo a terra appositamente.
Intanto la cena era pronta e la padrona cominciava a distribuire in giro, nelle gamelle di latta che gli uomini portavano con se, ricordo della vita militare, i fagioli cotti con un gambo di sedano, diversi peperoncini rossi e qualche pomodoro di quelli piccoli e tondi, di secca un po’ asprigni al sapore.
Sul fondo della gamella venivano adagiate grosse fette di pane e sul tutto qualcuno provvedeva a spargere un buon dito d’olio d’oliva da un piccolo recipiente di rame con un beccuccio.
E poi?
La voce del ragazzo usciva tremolante nella domanda, mentre nel buio che si faceva sempre più cupo si accostava al corpo grande e caldo della zia, quasi a volersi nascondere sotto le sue sottane, per stare al sicuro ma al tempo stesso curioso di sentire il seguito della storia.
E poi, e poi…. Cacarovagna continuava, mangiando e bevendo mentre tutti gli sguardi degli altri passavano dal fondo della scodella su di lui, da quel giorno il bambino cominciò a deperire, a deperire. Non c’era verso di farlo mangiare, niente. Non voleva più allattare.
La madre disperata non si staccava un minuto da lui durante il giorno, ma il giorno il bambino dormiva sempre profondamente.
Finchè una vecchia comare la consigliò di far chiamare ‘zì ‘nTonio il vecchio magaro che abitava vicino al fiume dopo la scafa di Mortola.
E venne il vecchio.
Io me lo ricordo ancora, ero piccolo, ma questi fatti che racconto, li dovete credere perché ne sono stato testimone io stesso, con questi occhi.
Cacarovagna girava attorno lo sguardo quasi a volersi sincerare che qualcuno potesse mettere in dubbio quello che diceva, ma nessuno se la sentiva di contraddirlo.
Tutti erano presi dalla magia del racconto.
Continua ‘stu cunto, Giuva’! Esclamò uno dei braccianti, il più interessato di tutti, mentre scolava il fondo del fiasco per darsi coraggio.
Il magaro venne, era lungo e magro, nero come la pece e l’inferno, con tutto il suo armamentario per gli scongiuri.
Ascoltò tutta la faccenda dalla bocca della povera madre.
Poi seduto accanto al camino raccontò l’antica storia della casa.
Nunziata la donna ammazzata, la moglie del colono, era figlia di una strega, lui lo sapeva.
Ed era lei che tornava nella casa dove aveva abitato e dove aveva trovato una fine orribile e Nunziata dava a succhiare il latte delle sue mammelle al bambino, quelle mammelle che non avevano potuto saziare il suo piccino morto.
Per salvare questo bambino dall’influenza della strega bisognava fare in modo che Nunziata non potesse più avvicinarsi.
Allora il vecchio confezionò con le sue mani un abitino contro il malocchio, avvolgendo in un sacchetto una figurina di S. Antonio nemico del demonio e due foglie di erba ‘nnammuratella che era andato a cogliere sotto la macchia di fichi d’India dietro la casa. Cavò dalla tasca del pantalone un sacchettino che conteneva della cenere che lui stesso aveva preparato bruciando in una tegola della chiesa vecchia di monte Ofelio, nella giornata dell'8 dicembre, il giorno della Madonna, tredici foglie di ulivo e tredici foglie di palma benedetti che lui aveva conservato dalla domenica delle Palme.
Legò l’abitino al collo del bambino addormentato e recitò una preghiera, mentre gli segnava la croce sulla fronte.
Ebbene voi non ci crederete, lo so, ma io vi dico che il bambino vomitò una grande quantità di latte verdastro dalla bocca e subito si sentì meglio.
Era il latte della strega, quello.
Non lasciarlo mai solo-, disse alla madre, portalo con te sui campi e di sera, appendi questo sacchetto di sabbia dietro la porta, così se viene Nunziata, si mette a contare i granelli di sabbia e passa la notte e appena spunta il giorno le streghe debbono fuggire.
Il racconto era finito, ma la compagnia accanto al fuoco indugiava ancora, quasi che preferisse rimanere piuttosto che affrontare il viaggio di ritorno verso casa, per la strada che attraversava il bosco.
Fu la padrona che iniziò allora a raccontare.
Una sera come questa mio padre ritornava al paese dalla campagna. Vide un uomo camminare davanti a se, tutto intabarrato nel mantello a ruota nero.
Il padre non aveva paura di nulla, era stato in Brasile emigrante da giovane e poi negli Stati Uniti e ne aveva viste e vissute di tutti generi, ma il fatto che gli accadde quella sera gli rimase impresso talmente che lo raccontava sempre.
Vide quell’uomo che faceva la stessa strada e pensò di raggiungerlo per fare un tratto insieme.
Aumentò il passo per raggiungerlo, ma niente, lui aumentava il passo e quello aumentava anche lui e non riusciva a raggiungerlo, gli diede la voce, ma quello non rispose, non si girò neanche.
Camminava davanti a lui, ad una curva di distanza, sui tornanti di monte Ofelio, finché all’altezza della Chiesa vecchia tutt’a un tratto sparì.
Il nipote non era riuscito neanche a finire la sua cena per l’orrore del racconto precedente e a questa sortita della zia non riusciva a capire come potesse la donna raccontare certe storie, quando sapeva che dovevano passare proprio per quella strada, nel bosco fino alla chiesa per tornare verso casa.
Gli adulti sono incomprensibili per i ragazzi.
Non sapeva che la donna aveva più paura di lui e che parlava per darsi coraggio, come fanno spesso gli adulti che alzano la voce, quando si sentono a disagio e in difficoltà.
Finalmente la compagnia si apprestò a fare ritorno a casa.
Domani bisogna raccogliere i fagioli, mi servono ancora dieci braccianti, disse la donna a Cacarovagna, chiama gli stessi dell’anno scorso mi raccomando.
Sceglieva sempre gli stessi, la donna, che a suo dire erano i più fedeli, quelli che lavoravano sodo, senza rubare al padrone che gli dava da campare.
Era Cacarovagna il soprastante che dava loro la voce la sera, avvertendoli e quelli all’alba aspettavano seduti sul bordo della strada all’ingresso del fondo, con gli arnesi a tracolla ed un fazzolettone a quadri nel quale portavano il loro pane giallo.
A volte erano in soprannumero e quelli scartati perché vecchi o malfidati se ne andavano verso altre proprietà in cerca di lavoro, mentre gli altri entravano nel fondo e si sparpagliavano per i campi.
Era notte inoltrata ormai quando la donna, inforcata come cavalcatura il vecchio asino di casa con davanti a se il ragazzo, mosse il passo del ritorno.
La mulattiera che portava al paese costeggiava con tutta una serie di tornanti una collina verde che sorgeva nelle immediate vicinanze del borgo.
Il sentiero passava attraverso una folta vegetazione di castagni che stillavano tutta l’umidità della notte.
La strada era buia ormai tra gli alberi e la luna appariva solo a tratti ad illuminare uno scosceso sentiero, reso ripido e malsicuro dal dilavamento delle acque piovane, ma sul quale il vecchio asino si muoveva con sicurezza.
Il ragazzo in silenzio ripercorreva col ricordo le storie che aveva ascoltato e chiudeva gli occhi nel timore di trovarsi davanti l’uomo nero.
La strada non finiva mai.
Un urlo di un uccello notturno che svolazzava all’improvviso tra i rami, una volpe che attraversava il sentiero fuggendo nel bosco, lo faceva sobbalzare e rintanare sempre più sotto una specie di mantello che la donna si era buttato a tracolla.
Ecco il punto più pericoloso, l’arco sotto la chiesa vecchia e abbandonata con il campanile diroccato e la campanella che rintoccava ad ogni soffio di vento.
Antico ricovero di briganti si raccontava.
E di briganti uccisi si narrava, che ritornavano al loro antico covo per vegliare sui loro tesori sepolti chissà dove tra i boschi di castagni.
Passata la chiesa, la strada si allargava, diventava piana e più sicura, persino più illuminata, sgombra degli alberi che nascondevano la luna che ora risplendeva, chiara, proprio in direzione del paese.
Dopo la curva, ecco il paese addormentato nella notte chiara e, rassicurante, la sagoma fedele e tranquilla della torre medievale vicino casa.
Finalmente i pensieri ritornavano a fluire tranquilli e quasi a sfidare la paura provata, mille particolari venivano alla mente del ragazzo delle storie sentite, mille piccoli particolari incompresi, mille domande affioravano alle labbra.
Ma che era l’erba ‘nnammuratella, e lo scongiuro, che preghiera diceva il magaro, la conosci, zia?
E infine ma che gliene fregava alla strega di sapere quanti granelli di sabbia c’erano nel sacchetto?



*

Gelosia

Gelosia


C’erano i soliti seduti intorno al grande tavolo da gioco.
Nel salone in penombra del Circolo operaio solo una grande luce centrale illuminava violentemente i volti affilati dei giocatori ed il fumo delle sigarette, che saliva al soffitto, e le carte da gioco, disposte sul ripiano del tavolo, e i soldi delle puntate sui quali erano fissi gli sguardi dei giocatori e anche di quelli che non giocavano e si accontentavano di assistere a quello strano spettacolo del va e vieni della sorte.
Era Mimì che tirava la mano della zecchinetta ed era un piacere starlo a guardare.
Quando aveva la mano calda, nessuno era meglio di lui!
E stasera l’aveva calda davvero, le carte uscivano proprio come voleva lui.
Dapprima resistevano, ingannavano, convincevano anche i più restii a puntarci sopra e, quando sulla carta era puntato un bel malloppo, eccola uscire dal mazzo, proprio lei, tra un coro di imprecazioni e bestemmie.
Non c’era niente da fare, quando Mimì aveva il ciclo buono, questo poteva durare dei mesi interi.
Bisognava solo avere pazienza ed aspettare che passasse, perché tanto passava.
Mimì cominciava da zero, organizzando dei miseri giri di zecchinetta a cento o duecento lire a puntata con i ragazzi che facevano filone a scuola.
Li ripuliva per bene e poi passava nelle osterie ai giri di mille e duemila, poi risaliva tutta la scala dei bar e delle pizzerie giocando le cinque e le diecimila.
Infine arrivava pieno di soldi al Circolo operaio.
A quello degli impiegati, no, non lo facevano entrare, ma a questo, se aveva i soldi, poteva giocare.
E ci volevano tanti soldi per tirare la mano.
A volte sul tavolo erano puntati anche quattro o cinque milioni.
Quando gli girava bene, Mimì continuava a giocare giorno e notte, anche per settimane di seguito.
Non sapeva più dove mettere i soldi, le mazzette da centomila gli sformavano le tasche dei pantaloni e della giacca.
Non sapeva fermarsi, questo era il suo difetto.
A un tratto, e lui non sapeva neanche il momento preciso, non se ne accorgeva, la sorte cambiava e lui cominciava a perdere.
Era già successo più volte, da cinquanta milioni di vincita, aveva finito col vendersi la casa che gli aveva lasciato il padre morendo.
Ma quella sera gli andava bene.
Era brillante, aveva la battuta di spirito pronta per stimolare alla puntata i renitenti.
Sembrava un altro, persino le spalle gli si erano raddrizzate.
Sotto quella luce che gli illuminava il volto non sembrava più quella specie di uccello dalle piume arruffate, che camminava rasente ai muri senza mai alzare lo sguardo, che di solito nei momenti neri incontravi per strada.
Adesso le mani addomesticavano le carte, mischiando il mazzo con una rapidità che si poteva capire perché al Circolo impiegati era corsa la voce che sapesse sfilare la carta al momento giusto.
Attorno a lui una umanità varia e verminosa, bocche spalancate a mostrare i denti rotti e guasti del fumatore incallito, gli occhi liquidi, la bava giallastra per la nicotina a seguire le evoluzioni delle carte, mentre, dopo averle mischiare, Mimì scopriva le tre carte per la punta e quella per se.
Asso spia a Re, Donna, due in culo!
Le solite credulonità, la cabala spacciata per certezza assiomatica ed ecco spuntare qualche banconota da cento : Mimì gioca con un due, come fa a vincere, nessuno vince col due!
Operai per la maggior parte, e disoccupati che la mattina erano sul Comune a chiedere un sussidio, qualche commerciante, il pizzaiolo che veniva a giocarsi l’incasso della giornata tutte le sere, il panettiere che tirava a far l’orario per il forno, molti studenti, rari i professionisti, quelli frequentavano altri Circoli, ma qualcuno veniva all’abbraccio del popolo ruspante e preferiva la zecchinetta al più nobile baccarat.
Nella saletta antistante su un grande divano di pelle, Vincenzo era disteso con la sua enorme mole.
Lui non giocava mai.
Veniva al Circolo, perché soffriva d’insonnia.
Intanto e , solo per amicizia s’intende, faceva il cambiasoldi.
Prestava novantamila contro centomila a un mese.
Vincenzo era quasi un analfabeta, ma teneva tutti i conti a memoria.
A volte accettava in pegno qualche collanina o un braccialetto d’oro, anche cambiali, assegni ballerini, accettava tutto.
Solo dal dottore non accettava assegni, tanto quelli erano fasulli.
Ormai lo sapevano tutti ed i bei libretti colorati del Credito del Golfo erano carta straccia, però lo facevano giocare lo stesso sulla parola.
Il dottore era stato un personaggio politico e ancora credeva di esserlo, e poteva sempre venir buono avere un credito con lui e poi era una carta perdente e si poteva stare tranquilli che non avrebbe vinto mai.
Era capace di fare toppaculo anche dieci volte di fila in una stessa serata.
Infatti quando la mano toccava a lui, se per caso aveva cambiato un assegno buono, bisognava sbrigarsi a puntargli contro, prima che finissero i soldi, altrimenti non si faceva a tempo.
La gente abbandonava le altre sale del circolo, dove stava magari giocando a scopa o a guardare la televisione e veniva a puntargli contro.
Qualcuno chiamava i soci persino dalla finestra che dava sul corso cittadino.
Era una bonafficiata!
Fante, Cavallo e Re, toppaculo senza vedè!
Il dottore perdeva con classe.
La classe del giocatore si vede quando perde, vincere sanno farlo tutti.
Il gioco, questo c’è di buono, tira fuori la vera indole della gente, la carogna viene fuori ed il gentiluomo anche.
Comunque questi erano spiccioli rispetto alle centinaia di milioni perduti sui tavoli dei Casinò di tutta Europa dal dottore, al tempo che era sindaco, quando in due anni aveva concesso cinquemila licenze edilizie sul litorale.
Lui era conosciuto e riverito a Sanremo e a Venezia, dove godeva di un trattamento di favore, e dove ogni tanto ancora oggi trascinava qualche amico che voleva provare l’emozione del gioco, perdendo a spese sue e trascinando anche l’altro in perdite disastrose.
Un male lento ed inesorabile lo minava da anni e lui giocava contro la morte.
Era la vita che inseguiva tra quelle quaranta carte ed era convinto che, finché fosse riuscito a giocarsela, l’avrebbe tenuta a bada.
Al suo fianco per antico rispetto sedeva Vincenzino.
Da ragazzo aveva fatto disperare il padre, che voleva farlo studiare, ma Vincenzino testardo aveva voluto fare il mestiere del padre: il lattaio.
Fin da ragazzo era stato affascinato da questo modo di entrare nelle case della gente, di mattina presto, quando i mariti erano usciti per lavoro, e di trovare tutte queste donne ancora calde di letto, discinte, in vestaglia, scarmigliate e scalze, donne generose, come sanno esserlo solo le massaie.
Quante volte era dovuto fuggire su per i tetti, abbandonando il secchio del latte, per evitare il ritorno di mariti gelosi.
Già allora aveva preso il vizio del gioco che alimentava in tutti i modi, cercando di allungare il più possibile il latte, moltiplicandolo quasi e facendo la cresta sull’incasso.
Ma fortunato in amore, era jellato al gioco.
La sfortuna non lo abbandonò nemmeno quando, sotto i cinquanta, il sesso gli piaceva solo vederlo e non faceva più il lattaio.
Ormai il latte fresco non lo comperava più nessuno.
E gli era venuto a ciccia avere uno dei rarissimi crediti proprio con il dottore che, in cambio della cancellazione del debito, lo aveva fatto assumere come stagionale alla Forestale.
Da allora lavorava sei mesi l’anno ed aspettava l’indennità di disoccupazione gli altri sei.
Ma Vincenzino s’era giocato gli stipendi dei prossimi cinque o sei anni e le indennità di disoccupazione e s’era giocato persino i soldi che il vecchio padre si era messo da parte per il suo funerale.
Qualcuno c’era però che al gioco doveva tutto.
Tonino per esempio era uno che giocava di mestiere.
Attraverso i canali della politica era riuscito ad ottenere una pensione d’invalidità, una la percepiva sua moglie.
Ma il suo lavoro vero, per tutta la sua vita è stato il biliardo e le carte.
Adesso non ci vede più tanto bene ed il biliardo lo ha abbandonato, ma alle carte riesce ancora a guadagnare la giornata: una partita a scopa, un giro di tressette, un ramino, quando trova il tipo adatto anche un pokerino, magari con un compare.
La sera qualche puntata a zecchinetta e via a casa.
Del resto questo è il solo modo di vincere: un poco per volta senza farsi prendere dalla febbre del gioco.
E’ il metodo di Pasquale, uno che vince sempre, cento o duecentomila, ma vince sempre.
Pasquale viene al Circolo tutte le sere, come al posto di lavoro, metodico, puntuale, non beve, fuma poco, segue il gioco, non chiede la mano, aspetta a giocare il momento propizio, non si fa trascinare alla puntata.
E spizzica sempre, punta per il banco o contro indifferentemente, alla zecchinetta chiede la scafetta a chi tira la mano favorevole.
Amicone, pronto al riso, alla lode sperticata nessuno gliela rifiuta.
Col gioco si è comperata la casa nuova, la macchina, le vacanze tutti gli anni.
Il custode del Circolo dovrebbe essere l’unico altro a vincere, perché riscuote la mancia ad ogni giro ed in più c’è da pagare, dopo una certa ora, la campagna, ricordo dell’antica abitudine dei portieri dei palazzi napoletani, quando si tornava tardi la notte e si trovava il portone chiuso.
Ma tutti i custodi che si sono avvicendati nel Circolo, sono sempre finiti male perché si giocavano le mance e l’incasso della bouvette e il guadagno del Circolo e la loro paga.
Intanto al bancone della bouvette Gennaro sorseggia lentamente un liquore.
E’ un po’ nervoso, controlla l’orario, stasera Mario è in ritardo sul suo solito.
Mario è un gran lavoratore, ma la sera, se non viene al Circolo dopo cena a passare qualche ora, non è lui.
Finalmente la porta si spalanca ed entra Mario, che va difilato a sedersi al tavolo da gioco.
I due non si guardano neppure, non si salutano.
Dopo poco Gennaro saluta i presenti, recupera il cappotto ed esce.
Mario gioca, qualcuno è sempre pronto a buttar giù qualche battuta maligna sulle donne in generale.
Mario sorride amaro, risponde anche lui con una battuta.
Al Circolo si parla spesso di donne, delle donne degli altri s’intende, perché ognuno la propria se la tiene stretta e sottochiave, per portarla in giro al guinzaglio per la passeggiata per il Corso la domenica e i giorni di festa, sottobraccio con i bambini più avanti di un passo, rispondendo cento volte al saluto di altre coppie che s’incontrano salendo o scendendo.
Ma è proprio l’animale rinchiuso, quello che desidera più la libertà.
E qui libertà vuol dire in fondo soltanto prendersi qualche libertà, per vincere la noia, per reazione, per provare qualche cosa di nuovo.
Così quando Mario viene al Circolo, Gennaro da anni va a casa sua a far compagnia alla moglie.
Ormai in paese lo sanno tutti e la cosa è talmente vecchia che non fa nemmeno più notizia e scandalo.
La moglie di Mario è ancora una bella donna, ma una volta era un vero splendore, una di quelle more dalla pelle olivastra e dagli occhi profondi, una donna opulenta dagli ampi fianchi, che non avevano conosciuto la maternità, e dai seni ricolmi, che facevano impazzire Gennaro, ogni volta che la vedeva spenzolarsi dal balconcino, tra i vasi di gerani rossi, con quella sua vestaglia aderente che la fasciava tutta e che prometteva più di quanto lasciasse scorgere.
Quella di Gennaro era stata una corte lunga e per tanto tempo senza speranza.
Tutte le aveva tentate.
Sguardi intensi, cenni, ammiccamenti e poi appostamenti, incontri che sembravano casuali.
Aveva preso persino l’abitudine di andare a fare la spesa, per incontrarla tra le cataste di scatole di conserva e pile di formaggi, scambiando così qualche parola di soppiatto.
Niente, la donna era incrollabile.
Allora aveva cominciato il gioco duro.
Le aveva spiattellato come il marito la trascurasse per il gioco, e quanto perdesse, le aveva mostrato effetti cambiari e assegni del marito, che aveva provveduto a recuperare.
Non era meglio con quei soldi che le comprasse un anello, o un brillante, portarla al cinema, al passeggio la sera?
Ma niente!
Finché trovò il modo adatto, o forse la donna aveva già deciso di cedere.
In queste cose è sempre difficile stabilire qual è la verità.
Una sera tardi, mentre il marito come al solito stava al Circolo, Gennaro si nascose nel portone della donna.
Poi, quando vide che a circa cento metri, stavano avvicinandosi delle persone, uscì con fare circospetto.
Gli altri lo raggiunsero per la salita e gli diedero la voce, conoscendo la sua fama, chiedendosi tra loro chi fosse lo sfortunato becco che abitava in quel portone.
Gennaro si schermiva dicendo che era andato semplicemente a soddisfare un bisogno fisiologico urgente e basta in quel portone.
La cosa finì per quella sera.
Qualche giorno dopo, nel solito supermarket, fu avvicinato dalla donna.
Questa gli disse che una sua amica, la moglie di uno di quei passanti, le aveva detto, che aveva saputo, non si sapeva da chi, che si diceva in giro che tra loro c’era una relazione.
Quanta gente cattiva c’è in paese.
Ma ormai che la cosa era risaputa, tanto valeva che succedesse davvero.
Così cominciò la storia tra i due.
Almeno così Gennaro la raccontava.
E poiché infine quello che non si dà al marito, si dà all’amante, e le cose rubate hanno più sapore, e l’erba del vicino è sempre più verde, questa relazione divenne travolgente e con il passare degli anni, invece di finire con il termine di una sola stagione, come in genere finiscono queste storie, si irrobustì e prese corpo.
Così si andava avanti, tanto il marito è sempre l’ultimo a sapere, e c’è sempre un ultimo più ultimo degli altri.
Una sera Mario perdeva di brutto, Vincenzo il cambiasoldi se ne era andato a dormire, nessuno gli faceva credito, anzi molti gli consigliavano di smettere, ma lui era convinto di rifarsi.
Si alzò per fare una corsa a casa a prendere altri soldi.
Salì di corsa le scale, aprì la porta, in cucina la televisione era accesa, ma la moglie non c’era.
Sentiva dei rumori provenire dalla camera da letto.
Entra e trova la moglie sul proprio letto nuda e Gennaro in una posizione non proprio classica e da missionario.
Per la sorpresa non riuscì neanche a spiccicare una parola.
La donna lo investì con una bordata di contumelie: lui poteva rovinarli al gioco, e lei?
Mario si avvicinò al mobile con lo specchio, aprì un cassetto, all’angolo aveva nascosto una busta con lo stipendio che aveva ritirato proprio quella mattina, afferrò la busta e si voltò:
-Dopo ce la vediamo, ora ho da fare- disse e scappò via.
Ma, poi, seduto di nuovo al tavolo da gioco, mentre guardava le carte disposte sul piano di vetro lucido, sotto gli sguardi impietosi dei presenti, curiosi di spiarne tutte le reazioni, avendo previsto quello che poteva essere successo, pensava e ripensava.
Che fare?
Far ridere tutto il paese? Lasciarla quella troia? Ucciderla? Uccidere Gennaro? E poi? Uccidersi?
Meglio far finta di non aver visto nulla, di non sapere.
E da allora va avanti questa staffetta, anzi Gennaro ogni tanto lascia un po’ di contanti per giocare, quando le carte gli buttano male.
E poi la donna non gli fa mancare nulla, come dice sempre il dottore, le corna sono la gioia della casa, a sera trova la cena pronta quando rincasa, i vestiti stirati, e a letto, a pensarci bene è persino eccitante quello scoprire le tracce dell’altro, e in fondo sembra più matura, più disponibile, più fantasiosa.
A vederci bene, tutto è guadagno.





*

L’acchiappo

Perché vede signore oggi l’acchiappo non è affatto facile.
In verità facile non lo è stato mai, ma ora con l’età non più verde, occorre inventarsi sempre qualcosa.
Discute con garbo, seduto al tavolino d’angolo del bar di Subba, nella piazzetta che i cittadini di Lipari hanno voluto dedicare all’Arciduca d‘Austria, antico frequentatore delle Eolie ed estimatore, pare, delle selvagge bellezze locali.
Situazione logistica che gli consente uno sguardo strategico del corso, mentre lentamente inzuppa pezzi di brioche nella sicilianissima granita di caffé con panna.
E’ uno dei tanti naufraghi approdati in queste isole e qui restati.
Le isole da sempre attraggono un certo tipo di personaggi, deracinées, scampati a mille naufragi e fallimenti, alla ricerca dell’isola che non c’é.
Gesticola, muove le mani a sottolineare le parole. Dal modo con cui le usa, tradisce l’origine napoletana, veste di un casual colorito e sfoggia un’abbronzatura che sembra procurata da una lampada.
Maschio sciovinista, tipico rappresentante di una sinistra elitaria e decadente, come Rosencrantz o Guilderstern inviato in missioni sempre meno pericolose ha perduto l’orientamento.
Io ad esempio, continua, ho dovuto inventarmi, per sbarcare il lunario, l’acchiappo in libreria, una variante dell’acchiappo intellettuale.
La libreria di Belletti più che una libreria tradizionale è una miniera, entri e trovi cataste di libri tra le quali devi cercarti un passaggio per avanzare fino al bancone, dove sono esposti giornali e riviste.
Il locale è ampio e anche un po’ buio, un antro misterioso le cui pareti sono ricoperte da scaffali ricolmi di libri.
Una miniera perché a volte ti capita di trovare, dietro una pila di volumi, anche vecchie edizioni, ormai introvabili, ancora con il prezzo in lire, sopravvissute a tante stagioni.
In quello che appare un disordine, anche se forse un ordine (arcano per te) ci deve essere, sono ammucchiate le ultime edizioni, ma insieme ce ne sono anche di più vecchie, i titoli sono esposti in modo accattivante ma neanche Marco e Davide i giovani figli del proprietario potrebbero spiegarti perché il blu di Sellerio sta proprio lì e accanto magari un titolo di Feltrinelli o una nera Guida Chatwin.
Forse solo il vecchio Belletti potrebbe spiegarlo, l’ordine è il suo e obbedisce a un moto interno della sua sensibilità, mossa chissà dalla macchia di colore, dal formato, dal corpo tipografico, se non da un intervento ultraterreno del protettore dei librai e dei bibliofili, il buon Anatole France tramite l’accademico Bonnard.
Comunque nel caldo estivo la libreria e la sua penombra complice sono un rifugio sicuro. Avanzi cautamente nella ressa fino alla mattonella giusta, posta in un preciso punto di fronte al bancone, che tu sai ricevere il soffio gelido dell’aria condizionata.
Ti piazzi e scorri con fare distratto le pagine di un giornale, scambi qualche parola con Roberto, il non più verde giovane di bottega che sbriga con celerità lo scambio di giornali e riviste contro monete, di cui è fatto gran parte del suo lavoro quotidiano.
Ti guardi intorno, ecco la bella pensierosa, col ditino sulle labbra, eccola la scosciata abbronzatissima, un tantino stagionata ma ancora potabile, con gli occhiali da sole rialzati sui capelli, scorrere con fare smarrito una fila di volumi.
Che giornale ha comperato, quale rivista, anche se puoi andare sul sicuro, tanto quelle di destra non leggono.
Per quanto anche con la destra colta non mi sento a digiuno, posso sempre parlare di Xavier de Maistre e del suo Voyage, oppure sempre verde citare Il tramonto dell’occidente di Spengler, ho letto perfino Piccoli borghesi di Drieu La Rochelle e avrei molto da dire sulla Ubermenscheit. Forse con una di destra sarebbe anche più facile, al liceo eravamo un circolo chiuso nel quale non si poteva essere ammessi se non si era capaci di distinguere almeno tra Arriano, Appiano, Ammiano, Aviano, Oppiano e Avieno, basterebbe farla sentire entrata nel grande cerchio.
Posso aiutarla signora la vedo incerta, ha già un libro in testa o posso permettermi un suggerimento, ti lanci, cercava qualcosa di preciso?
E lì butti giù la prima citazione.
Io in genere parto con Bulgakov, le donne lo trovano irresistibile.
Sono il gatto di Woland, dico, ricorda Il maestro e Margherita?
Il gatto che riporta il manoscritto che lo scrittore aveva bruciato, i manoscritti, sa, non bruciano mai.
E via, ormai sei lanciato, la citazione ti permette di spaziare sugli scrittori russi, sulla letteratura sovietica, Zdanov, forse sul concetto di estetica nel marxismo, forse qualcuno conosce ancora Lukacs, forse qualcuno consoce ancora la biografia di Trotszkj di Isaac Deutscher, magari anche il Gramsci di Valentino Gerratana.
Puoi buttare lì con nonchalance il Griboedev di Che disgrazia l’ingegno. Arrischiare Solokov e Il placido Don e perché no, anche il dottor Zivago e il Pasternak poeta o Evtuschenko. Da quando ho cominciato a fare il book promoter ho preso l’abitudine di spingere la lettura di Cataluccio, forse di là è, o era meglio, sul serio. Con Cataluccio posso spaziare sul mondo slavo, ebreo ashkenazita, tra le lingue polacca ceca, yddish, russa e oltre.
Il gatto di Wooland poi mi permette anche di scivolare in una serie di citazioni dal povero come un gatto del Colosseo, al magro come un gatto d’agosto, e di qui passare magari al gaddiano Ingravallo, o alle strane dicerie che contristano i Bertoloni.
Oggi va di moda citare Zafon, naturalmente in lingua castigliana, La sombra del viento, e la libreria dei libri perduti e la Barcellona notturna cantata anche da Montalban, Valvidrera e le ramblas, la cucina catalana e gallega, le variazioni della paella, il vero fidelì alla catalana e il jamon serrano. Siviglia e Granada, il flamenco e il canto yonde, e la poesia di Garcia Lorca e il ristorante Il Vaquero, frequentato dal poeta e oggi dal giovane principe di Borbone.
No quiero ver el sangre de Ignacio, né a las cinco de la tarde e neanche a la maňana, Hemingway e Fiesta, la fiesta de San Firmino a Pamplona, me perdirè en el tu pais moreno e di lì passi con naturalezza alla letteratura sudamericana. Cominci blandamente con Macondo che non delude mai e el colonel Buendia no tien qui le escribe, e la storia della candida Herendira, da Marquez a Rolo Diez, a Paco Taibo uno y dos, a Fuentes Padura e la sua Cuba maneggiona e infida, Jorge Amado e doňa Flor e i suoi due mariti.
E’ una fatica, gliel’assicuro, gli italiani poi, con la loro cronica incapacità di scrivere storie senza sdrucciolare nel lacrimevole, con l’intemperanza di una scrittura che vuole essere sempre d’avanguardia, con la ricerca spasmodica di un titolo che sia un ossimoro magari, ma comunque tu devi conoscerli, apprezzarli, a volte, suggerirli, l’Agnello e la sua zia, la Maraini, e un po’ di nebbia danubiana di una Trieste di ritorno, e marioceani caramellosi e scuri e Schnitzler, questo è d’effetto, Doppio sogno, e le edizioni Adelphi, Sandor Marai e quanti mitteleuropei santi bevitori vuoi.
Ti devi tenere aggiornato sulle polemiche letterarie, Scurati, lo Strega ormai è diventato un Campiello, l’ultimo Arbasino, finalmente sessualmente esplicito, qua e là anche Manganelli e persino Citati va bene.
Perché devi parlare sempre e in continuazione senza fermarti mai, e poi magari lasciar cadere il discorso sopra il silenzio incantato di Salina e il tempo, il diverso scorrere del tempo nelle isole, un tempo diverso da quello del continente, ha notato che qui scorre più lentamente?
Nel silenzio di Salina ho letto finalmente i frammenti dei Presocratici con il testo greco a fronte, L’Orestea e una volta anche Finnegans wake, potresti,a questo punto dato che ci sei, anche consigliare di affrontare Wittgenstein for beginners.
No, Tre metri sopra il cielo, no, La solitudine dei numeri primi, meglio il libro della figlia di Toni Negri, sa bisogna diffidare del successo di pubblico troppo facile.
L’aggancio è fondamentale, perché al consiglio, specie se accettato, deve seguire l’invito per una granita con panna, o un cannolo da Subba o magari la sera incontrarsi a Marina corta dopo cena al chitarra bar da Nicola, per un drink nello sfondo complice e ruffiano di una luna tonda appesa sull’isola di Vulcano e l’accompagnamento di qualche motivetto facile e romantico, oppure jazz, o magari la chitarra di Giovanni Ullu che canta blues con la sua voce negra e la compagnia di bevitori engagés da Dora sulla Marina lunga alla Luna quinta. Le parole volano e si inseguono nella notte ovattata di fine estate e la luna ocheggia sopra monte Rosa. Il whisky scorre a fiumi, la musica in sottofondo ti culla, qualcuno balla, qualcuno abbracciato si coccola nella penombra ruffiana. In un angolo seduto su un divano Kurt, con la sua barba da saggio, beve e dispensa pillole di saggezza a donne sull’orlo della menopausa che lo ascoltano con l’occhio liquido delle ultime occasioni.
Sa qui abbiamo fondato un circolo per la lettura aperta di Goliarda Sapienza con i migliori margaritas del mondo.
Da Dora è tutto un altro mondo, un porto di mare, con gli equipaggi delle barche che approdano ai pontili, le lingue che si inseguono, francese, inglese, spagnolo, ed Helène che viene dalla Bretagna e da Brest per rinfrescare il suo italiano e intanto ci ha donato il suo charmant pommehelène, succo di mela verde e grappa.
Insomma come vede signore, un gran sacrificio, un gran dispendio di energie intellettuali, ora adesso la prego mi permetta di leggere il supplemento letterario del Corriere, arrivederci.