Pubblicato il 24/06/2009 00:49:55
La durata della poesia. Un problema che non si affronta quasi mai, se non di sfuggita e nei manuali di filosofia, è quello della durata della poesia o dell’arte in genere. Sembra che poeti, pittori, scultori e musicisti lo evitino perché investe non solo la loro concezione estetica, ma anche quella religiosa, etica, storica. Che differenza c’è tra un’opera considerata un semplice documento, testimonianza di un’epoca, e un’opera che va oltre il documento e resiste al mutare del gusto, alla frenesia delle mode, a qualsiasi consunzione? Com’è ovvio immaginare, le risposte sono state infinite, in sintesi potremmo dire che, pur nelle opposte concezioni e nelle diversificate metodologie, opera d’arte è considerata, per esempio, un poema che nel tempo è riuscito e riesce a trasmettere più del mero dato. Ciò significa che nonostante i mutamenti, a volte radicali e totali, l’uomo, nel tempo e nello spazio, ha saputo tenere un rapporto vivo con quell’opera e che l’opera contiene elementi tali da poter andare perennemente oltre la propria misura temporale e spaziale. Ma quali possono essere questi elementi? È quasi impossibile stabilirli. Gli studiosi di estetica ci hanno provato e riprovato, ma si tratta ovviamente di parametri discutibili, tanto è vero che le confutazioni sono ricorrenti e le opposizioni, a volte, totali, con chiusure che condannano ciò che precedentemente è stato affermato. Sicuramente ogni opera d’arte, ogni opera di poesia, è prima di tutto un documento che parla della sua epoca, ma individuare la scintilla che la rende per sempre attuale e presente è come comprendere appieno l’origine e il fine della vita. Io un’idea semplice (o se volete semplicistica) ce l’avrei: la misurazione può avvenire soltanto verificando ogni volta se l’uomo di quella determinata epoca riesce a completarsi con l’opera e se l’opera riesce a completarlo. Un azzardo, lo comprendo bene, perché così tutto viene messo nell’equazione uomo-arte… e naturalmente le implicazioni d’ordine estetico si amplificano e si complicano. Ma prima di vedere in che misura i poeti italiani nati negli ultimi sessanta anni possono sperare di diventare eterni, cioè entrare nella durata, cerchiamo di chiarire che cosa si deve intendere per durata e per eternità. L’uomo scrive per testimoniare la sua presenza nel mondo e la sua maggiore aspirazione è quella di lasciare una “traccia” del suo passaggio, un segno che non si cancelli. Non so quanto serva lasciare un segno: col passare dei decenni e poi dei secoli sparisce completamente l’identità dell’artista e al più ci si ricorda e ci si incontra con la sua produzione, con la sua “traccia”. È più viva e vera Beatrice anziché Dante, Anna Karenina anziché Tolstoi, Laura più di Petrarca, Silvia più di Leopardi, Margherita più di Goethe, Giulietta più di Shakespeare e tuttavia l’artista si affanna e insiste, consuma, a volte, l’intera esistenza nel realizzare una scultura, uno spartito musicale, una pagina di poesia in cui è immessa l’essenza e l’imponderabilità che dà il senso e la riconoscibilità di arte. Non c’è negli artigiani l’ansia, l’affanno, la preoccupazione che il loro manufatto diventi misura e anima del tempo e dello spazio; egli lavora e realizza l’oggetto e non si preoccupa di nulla, non lega se stesso a quell’oggetto, non vi s’identifica, non lo sente significato eterno. Si tratta di semplice lavoro di routine per sbarcare il lunario. Il suo compito finisce nel momento stesso in cui l’oggetto si separa da lui. La gente semplice non si pone neppure il problema di lasciare una traccia: l’operatore ecologico lavora, ridà, per esempio, a Roma la sua immagine pulita e non si domanda se le sue azioni giornaliere potranno essere, domani, un segno che conti e abbia senso oltre la pura funzione del pulire. Così è per tutti gli uomini dediti a un lavoro; così non è per gli artisti. In essi c’è una dose di presunzione che determina l’atteggiamento che li divide e li allontana da coloro che fanno un qualsiasi altro lavoro o è invece la divinità che si annida nel loro animo a pretendere una fetta del futuro? Per quale ragione? Ragioni pratiche non se ne sono mai riscontrate, dunque?... E come fare affinché la pretesa si realizzi e trovi riscontro? Che cosa immettere nei versi, per restare alla poesia? Tra un libro costruito alla perfezione da un abilissimo facitore di versi, da uno che a freddo sa organizzare ritmo, suono e senso e interpretare, seppure senza coinvolgimento, lo spirito del suo tempo, e un libro scritto da un poeta che si è abbandonato alla frenesia mettendo nei versi se stesso, la sua rabbia, il suo cuore, la sua misura etica, il suo abbandono e la sua esaltazione, la sua indignazione, la rabbia e la perdita di se stesso, come si fa a individuare il più o il meno di poesia? Carlo Giulio Argan rispondeva che la sola maniera per comprendere era educarsi, cercare i confronti, misurare le opere con cuore e intelletto dopo lungo, lunghissimo tirocinio. Il trascorrere del tempo farà il resto e quando saranno passati molti anni o molti secoli sarà più facile distinguere e individuare la poesia dove vive. Il documento ha una sua fisionomia arida e fa presto a diventare notizia opaca. Ci sono delle teorie che non hanno trovato molto credito e che comunque ad ogni occasione di discussione estetica ritornano in ballo. Sono quelle delle interpretazioni legate al magico. Si sostiene: se un libro di poesia è veramente tale, se è riuscito a sintetizzare forma, contenuto, duende, musica e senso, se i versi sono vivi e parlano al cuore (quanti cuori purtroppo sentono voci che nascono dalla superficie più banale e più ovvia!), se le poesie trasmettono pathos, sentimento, emozione (quanti si suggestionano nel leggere sciocchezze combinate da accorti artigiani o da imbonitori!), allora vuol dire che nelle parole del poeta è transitata una porzione della sua anima e una porzione dell’anima del tempo e resteranno sempre nei versi, anche col passare dei secoli. La teoria è suggestiva ma ingenua. O invece ha un suo fondamento? Ma allora bisogna far chiarezza sul concetto di gusto e cominciare da Hegel che, nelle lezioni di estetica, affermava che il bello “rimane inaccessibile al gusto, poiché tale profondità esige non solo il senso e le riflessioni astratte, ma la piena ragione e il solido spirito, mentre il gusto è rivolto solo alla superficie esteriore, intorno a cui i sentimenti potevano giocare e principi unilaterali farsi valere”. Da qui le problematiche della valutazione o della fruizione che hanno visto, soprattutto nel nostro secolo, degli scempi incalcolabili. Per scendere nel concreto e sempre restando nell’ambito della poesia, valutazione e fruizione si sono scontrate con la logica dell’industria culturale e con quella dei partiti politici legati al carro ideologico. Le conseguenze sono state deleterie, fino ad arrivare alle affermazioni degli ultimi decenni che ad alcuni sono parse gratuite e innocue, ma che miravano a ridisegnare la mappa della poesia italiana con ragioni che vanno al di là dell’etica e dell’estetica e si collocano su registri ambigui da cui ripartire per collocare se stessi critici-poeti (si fa per dire) al posto dei poeti. I casi di Franco Fortini e di Alfredo Giuliani sono emblematici, frutto di una politica accorta e tendenziosa che ha prodotto un effetto di dilatazione sullo stesso piano creando i partiti del più grande poeta del Novecento. Da qui le appropriazioni indebite e le esagerazioni che hanno tentato di imporre Tessa come il più grande poeta dell’ultimo secolo (grazie al gusto? Alla egemonia della inventata linea lombarda?) fino a che non si è pensato che il più grande invece fosse Rebora. Operazioni mostruosamente campanilistiche. Ma non sono mancate anche altre attribuzioni dovute a scrittori come Pasolini che hanno posto in primo piano Sandro Penna, naturalmente per mummificarlo e metterlo in soffitta in modo da prendere il posto del padre omosessuale della poesia italiana. Siamo davvero allo sfascio, alle improvvisazioni, alla difesa dell’indifendibile. Ci fu perfino chi scrisse, in anni lontani che i grandi poeti del secolo fossero Lino Curci, Renzo Laurano, Lionello Fiumi. Contro Quasimodo invece fu organizzato un ostracismo compatto e deciso; a Saba fu riservato il posto che si assegna a un padre rincoglionito da mettere nell’ospizio, nonostante la forza dei saggi di Debenedetti e la difesa di Giovanni Giudici; a Ungaretti un posticino un po’ si e un po’ no; a Montale un ruolo di riguardo ma perché redattore de “Il Corriere della Sera”. Di Cardarelli, di Betocchi, di Gatto, di Parronchi, di Vigolo, di De Libero, di Sinisgalli neanche a parlarne. Questi ultimi avevano offerto tutti una produzione di documento e non erano riusciti a entrare nel clima della durata? E per quali ragioni ci sarebbero entrati Tessa e Rebora? Per quali ragioni poi vi entrerebbero soltanto quelli che ruotano attorno all’asse milanese che gestisce il canone minimalista e intimista? Chi ha stabilito ciò, direbbe Stevenson, lo ha fatto a capriccio, traendo scarso profitto “dalle grandi generalizzazioni speculative derivate dalle scienze e poste in concorrenza con esse e si sono affidati ai sentimenti estetici, secondo la definizione di Ayer, ai quali più agevolmente opporre i propri sentimenti estetici, “così non ha senso chiedere chi abbia ragione perché ambedue i contraddittori non stanno asserendo una vera posizione”. E così si torna daccapo a domandarsi, allora, che cosa dev’esserci nella poesia per poter transitare attraverso i secoli non come semplice notizia da manuale letterario o di sociologia della letteratura. La domanda diventa ancora più assillante oggi che siamo nell’euforia più sfrontata della società dei consumi, nella dilagante “comodità” del vuoto a perdere. Se ogni prodotto altro non è che risultato del proprio tempo, e anche la poesia è un prodotto, non siamo forse arrivati al punto in cui i poeti sono diventati strumento cieco (o forse non tanto cieco, in alcuni meno dotati) di questa società senza memoria, priva di radici, che fa dire a Woody Allen con supponenza (la supponenza è maggiore in chi cita Allen) aforismi presi di sana pianta da Aristotele, Platone, Shopenhauer, La Rochefoucould, Wilde o Montaigne? O la poesia dovrebbe essere l’opposto della filosofia del vuoto a perdere e tenere salda l’entità umana rinnovandone la sostanza giorno per giorno? I poeti sono eterni o no? E la loro poesia dura in virtù di che cosa, se dura? Quando ci si pone simili domande il rischio è di diventare crociati in senso stretto e di appellarsi immediatamente alla intemporalità come contemporaneità o alla durata indefinita del tempo, che poi sono i due significati fondamentali di eternità. Eraclito diceva che il mondo “era da sempre”, e sarà fuoco sempre vivo che si accende a intervalli e a intervalli si spegne; e Parmenide: “L’essere non era né sarà, ma è nel presente tutto insieme, uno, continuo”. Platone contrappone i due significati, Aristotele li unifica, in qualche modo poi Plotino sintetizza asserendo che l’eternità è “ciò che persiste nella sua identità, che è sempre presente a se stesso nella sua totalità, che non è ora questo e poi quello ma è, tutto insieme, perfezione indivisibile, come quella di un punto in cui s’uniscano tutte le linee senza che si spandano al di fuori: un punto che persista in se stesso nella sua identità e non subisca modificazioni, che esista sempre nel presente, senza passato né futuro, ma sia ciò che è e lo sia sempre”. A me sembra il ritratto del poeta che si fa presente perenne, eterno, fuori dai condizionamenti della storia, a costo di ignorarla, di tradirla o di sorpassarla. Se il poeta non è presente eterno, allora automaticamente diventa appena una notizia, documento valido in un determinato tempo e in un luogo specifico. Naturalmente sull’argomento i trattati sono numerosi e sarebbe interessante seguire gli eventuali sviluppi del concetto, da S. Agostino a S. Tommaso, da Locke a Lavelle, a McTaggart, ad Hamburger, a Celan, a Borges, ma mi sono reso conto che alla fine si ritorna, come in un circolo vizioso, al punto di partenza e che le medesime domande acquistano ancor più forza, perché le analisi chiariscono i percorsi, ma non danno esiti certi al fine di stabilire se la poesia debba entrare o no nelle eccezioni di eternità e di durata. È ancora Aristotele a dire che la durata “abbraccia il tempo di ciascuna cosa vivente e fuori del quale nulla della cosa stessa naturalmente accade”, è cioè eternità nel senso di un indefinito permanere dell’esistenza del tempo. E la poesia non è stata sempre ciò? Da quando ha cominciato ad essere altro? E perché? Può essere altro? Può, la poesia, ignorare la durata, non legarsi alla durata e vivere lo spazio d’un mattino? E allora che differenza ci sarebbe tra il presente-presente e il presente del sempre come condizione irreversibile della bellezza e delle emozioni? Sostengono alcuni che la poesia d’un paesaggio, per esempio, non è immutabile. Il Monte Bianco con le sue vette è uno spettacolo di poesia senza pari. Eppure arriva la primavera, si sciolgono le nevi e lo spettacolo muta. Muta nella sua oggettività, non nella percezione, anche se resta poetico. Insomma, la poesia resta, ma essendo “spettacolo” di poesia conta moltissimo proprio il discorso sulle percezioni: in casi simili anzi è preponderante, più di qualsiasi altra cosa anche se i discorsi sono diversi quando si tratta di opere naturali o di opere realizzate dall’uomo, creazioni sentite e realizzate dall’intelletto e dall’anima. Comunque la si legga, la durata, come eternità o come tempo considerato nella variazione sottile di Bergson, se la leghiamo alla poesia, opera costituita di parole, cioè da suoni che devono racchiudere mondi profondi di pensiero e di emozioni, di concetti e di sentimento, diventa difficile comprenderla nella sua essenza. E tuttavia, senza andare alla ricerca di nuove categorie estetiche, possiamo ritenerci paghi nel pensare in maniera piana e nell’evidenza di credere che la durata della poesia dipenda da quanta energia si riesce a immettere all’interno del significato semantico, nella strutturazione interiore delle parole, nella rispondenza di armonie e di abbracci prodotti dai corti circuiti delle sillabe non utilizzate a caso. Un poeta resta (e la sua poesia avrà valenze d’attualità a fronte di qualsiasi rivolgimento o capovolgimento, mutamento o crisi) se avrà saputo immergersi totalmente in ciò che ha espresso e se avrà saputo farlo svincolandosi dagli artifici delle contingenze, se avrà saputo dare voce al particolare facendolo diventare universale. I poeti dei nostri giorni hanno saputo trovare, sanno trovare, questo perdersi e riconoscersi nella parola? Hanno saputo, sanno essere interpreti d’uno spirito perenne che trova fruitori nello spazio e nel tempo? O la misura del tempo e dello spazio non è più quella che conosciamo e se n’è creata un’altra con le caratteristiche della società del vuoto a perdere? Anche i risultati scientifici ormai si muovono nell’incertezza e Ilya Prigogine, per esempio, fa discorsi nuovi con uno sguardo interessato alle divinità magiche della poesia rimettendo in gioco la fantasia, la creatività e tutto l’armamentario che appartiene all’arte. Ma non è questo il punto; si tratta piuttosto di stabilire se l’uomo ha rotto un principio e una condizione in cui per millenni ci eravamo adagiati o se invece, non essendo mai stato possibile riuscire a sapere che cosa cova in un’opera di poesia, adesso ha deciso di scrollarsi di dosso le alchimie dell’imponderabile e vuole a tutti i costi chiudersi in una formula, verificabile ad ogni istante, e prevedibile. Se così è, allora è inutile ragionare di estetica, di durata e di poesie. Basta prendere atto che la poesia è diventata notizia banale di cronaca e tutto va a posto. E se qualcuno invoca il rapporto miracoloso che scavalca il messaggio tout court, niente da fare! È perfino banale sostenere che un qualsiasi professore di scuola media che oggi insegna fisica ne sa più di Albert Einstein, perché la fisica è una conquista che si sviluppa in continuazione e ciò che era valido un tempo adesso è soltanto notizia storica che è servita al dopo. In poesia non avviene niente di simile. Dante Alighieri è vissuto otto secoli fa e nonostante che dopo di lui ci siano stati altre migliaia di poeti, resta il più grande, non è soltanto notizia storica, anello per il dopo. Ancora una volta ci viene da domandarci: quale la ragione? Non quella che lo vuole padre della lingua italiana, sarebbe povera cosa e andrebbe, tutto al più, nel novero dei primati. Allora? Per come ha adoperato il “codice”? E dopo di lui, forti del suo metodo, nessuno è riuscito a trovare una svolta che porti oltre? Ma c’è un oltre per la poesia? O che cosa? La durata, la sua eternità, dove attengono? Mi piace ripetere spesso che da ragazzo mi capitò di leggere i classici russi, francesi, tedeschi e spagnoli in traduzioni approssimative, spesso “purgate” con forbici da giardiniere. Eppure quelle traduzioni, quelle “versioni” conservavano la loro forza originaria e la trasmettevano senza che gli autori venissero a perderci troppo. Conosco le obiezioni: se le traduzioni fossero state perfette, se si fosse rispettato al millesimo il “senso” della loro poesia, avremmo avuto una sensazione ancora più forte, uno scossone più energico… eccetera. Proprio vero? Einaudi, nel 1972, ha pubblicato Accordi di parole di Tudor Arghezi. La traduzione di Marco Cugno è filologicamente impeccabile e rispetta per filo e per segno la lingua rumena, ma io non cambierei la traduzione che Quasimodo ha fatto di Arghezi per nessun motivo. Quasimodo è riuscito a trovare una chiave (impropria? E pazienza…!) che ha portato Arghezi in Italia e lo ha imposto e ce lo ha fatto godere. Lo stesso si può dire della traduzione dei testi di Lorca fatta da Carlo Bo. Quella di Macrì è sicuramente più precisa, ma meno poetica, meno appetibile. C’entra molto la sensibilità e le affinità; Quasimodo è un poeta, Cugno no. I classici da me letti da ragazzo, anche quando venivano tradotti da un’altra traduzione, poiché sono stati scritti per “necessità”, conservavano un’aura d’incanto, l’anima degli autori. E in tutto questo non ci può essere nessuna spiegazione filologica, estetica, letteraria o d’altro genere. Semplicemente quei testi sono testi di poesia autentica e anche mutilati conservano la loro sostanza. Hanno quel quid che va oltre tempo e spazio e perdura rendendo le pagine perennemente presenti, fonte di riscontro per ogni epoca. Mi sono preso la briga di trascrivere in un quaderno centinaia, se non migliaia, di definizioni di poesia. Quelle che i poeti hanno dato inavvertitamente e quelle dei teorici, dei critici, dei filosofi. Spesso una definizione contraddice l’altra, la offende, la nega, eppure non sono riuscito a ricusarne neppure una. Mi sembra che ognuna abbia ragione pienamente ed è strano che anche i poeti più laici, più agnostici o calati nella “divina indifferenza” facciano ricorso a una divinità che sovrintende alla creazione poetica. Perfino Baudelaire e Mallarmè si sono allineati, perfino gli autori della beat generation.. Evidente, dunque, che è impossibile riuscire a stabilire un criterio unico e valido ecumenicamente che definisca gli ingredienti della poesia, che cosa essa deve avere per dirsi tale, per imporsi. Certo è che ci si rifà a degli archetipi che dovrebbero circoscriversi nel tempo e nello spazio e che invece si rompono e si ricompongono, come una dottrina religiosa che sa affrontare e adeguarsi alle rivoluzioni dell’uomo e anche ai cataclismi che cambiano l’aspetto del mondo e la vita degli uomini. Il linguaggio invecchia, invecchiano le strutture del linguaggio, muta l’angolo prospettico dell’uomo singolo e della collettività, vengono distrutti parametri d’ogni genere, cancellati mondi, innalzati monumenti contro il nucleare, si fanno viaggi su Marte, si clonano gli animali (presto anche l’uomo), si coltivano piante transgeniche e di conseguenza si rigenera, nel bene e nel male, la sostanza del mondo, e alla fine se viene chiesto a un intellettuale, a un uomo di media cultura, a un giornalista, a un poeta chi sono i grandi della poesia, la risposta è sempre identica: in Italia sarà fatto il nome di Dante, in Gran Bretagna quello di Shakespeare, in Russia quello di Puskin, in Germania quello di Goethe, in Spagna quello di Lorca, negli Stati Uniti quello di Whitman. Allora forse ha ragione ancora una volta Salvatore Quasimodo: Sei ancora quello della pietra e della fionda / uomo del mio tempo, e infatti è in questa direzione che dobbiamo cercare gli indizi: le opere di poesia avranno da dire sempre qualcosa all’uomo, anche quando la società sarà completamente robotizzata . Più vivremo dentro la virtualità, più saremo spogliati della nostra parte di bellezza e di diversità e più sarà necessario inseguire una fata morgana per non perire dentro l’uniformità e dentro il grigiore del non detto. Tutto ciò a patto che la fata morgana non diventi un surrogato e una finzione dell’illusione. Ogni opera poetica riuscita è come il cuore di Prometeo; si rigenera, e più l’aquila della sociologia, della politica, della scienza, della tecnologia morde e inghiotte e più la poesia trova la strada per riappropriarsi dell’uomo ridandogli legittimità d’essere, di esistere con identità distinte. Ecco perché la poesia non ha bisogno di concatenamento e di crescita . Nella bagarre e nella confusione di tendenze, di scuole, mistificazioni, gruppi, camuffamenti, rivalutazioni, mutamenti e trovate la poesia imbocca sempre il varco per ritornare padrona, per restare più che un sostantivo, un aggettivo. Non solo, anche nelle considerazioni dei critici hanno poco valore e poco peso le distinzioni e le esasperazioni, e se nel pieno della dittatura di una “scuola” viene fuori un poeta che ha altro timbro e altra natura, non si fa fatica a riconoscerlo. Il caso di Penna valga per tutti: in pieno ermetismo si afferma un neogreco. L’eternità, la durata non amano le distinzioni dei generi, delle scuole. Posizioni d’avanguardia, di retroguardia, di eccessi si perdono col passare del tempo. Certo, la novità suscita interesse nel momento in cui si affaccia, ma se poi non dimostra di non essere appena una trovata, non resiste. I secoli pareggiano il conto. Quando noi adesso diciamo “classico” non ci soffermiamo a pensare che tra Omero e Virgilio corrono dei secoli, e così tra Virgilio e Dante, tra Dante e Campanella, tra Tasso e Foscolo. Messa una pietra sopra le agitazioni delle avanguardie, sulle recriminazioni, e stemperate le passioni, chiarite le posizioni ideologiche e metodologiche che hanno sempre sapore “politico” (non è casuale che fino a cinquanta anni fa i cattedratici non si occupavano, non volevano occuparsi di poesia o narrativa contemporanea), rimangono i testi, creature nude alle quali potremmo togliere perfino la paternità e l’appartenenza a un’area geografica, a un momento storico. Se questa nudità saprà trovare ad ogni epoca successiva un vestito (non per coprirsi, ma per adeguarsi alle mutate condizioni) e saprà accendere lo sguardo di qualcuno, l’interesse, la curiosità, vorrà dire che avrà saputo conservare la purezza, la bontà, la concretezza originaria, la verità del sempre, e troverà con naturalezza l’accoglienza del lettore che non si sentirà appendice lontana nel tempo, ma consanguineo e perfettamente dentro la solarità accesa delle sillabe, a tu per tu con il senso del divenire. Ma qui il discorso diventa metafisico e forse un tantino “astratto”. Meglio lasciarlo aperto, sempre sotto l’idea che qualcosa di mistico e di irrazionale cova dentro la verità inafferrabile della poesia… Sempre è stato così. O a un certo punto abbiamo perduto la memoria delle ragioni dell’arte? Del suo corpo, delle sue qualità, delle sue capacità prive di qualsiasi barriera? Non bisogna dimenticare che quando Adamo ed Eva uscirono dal Paradiso Terrestre erano analfabeti e non furono sfiorati dai problemi della durata della poesia. Fu allora, comunque…?. Viene da chiedersi se recentemente non sia stato ribaltato anche il concetto di durata e di eternità, rendendolo più limitato, smarrito in una identità ambigua e sfuggente e se addirittura non si è riscritto un trattato di sociologia che confonde la durata con la precarietà, la cronaca con la storia. Se così è, allora bisogna cancellare le biblioteche, raderle al suolo e ricominciare da zero. Un imperatore cinese tentò una simile operazione per far ripartire la memoria da lui. Vogliono forse, seppure con mezzi diversi da allora, anche Maurizio Cucchi, Riccardi, Vivian Lamarque, Valentino Zeichen, Roberto Mussapi, Mario Santagostini, Tiziano Rossi, Angelo Lumelli, Mario Baudino, Franco Buffoni, Jolanda Insana, Biancamaria Frabotta, Franco Loi, Luigi Ballerini, Gianni D’Elia e Pier Luigi Bacchini azzerare la storia, cambiare il concetto di durata? Siamo a un bivio? Allora mettiamoci al lavoro, ricusiamo ogni cosa, distruggiamola. Le fiamme rigenerano. Non deve restare un solo verso di tutto ciò che è stato scritto e edito fino al 2006. Sgombriamo i cervelli, i cuori, le anime, la psiche, ripartiamo, ma per non essere comunque mai notizia, cronaca, enunciato, balbuzie, gesto gratuito, se vogliamo rifare poesia. La poesia non sopporta ingerenze estranee, anche se si serve di tutto e di tutti. Il partito di quelli che credono che senza i grandi poeti del passato saremmo arrivati al medesimo grado di civiltà odierno esiste. Ma i ciechi, ahimé!, purtroppo ci sono sempre stati. Si sente ripetere che la poesia è inutile, ma poi tutti la praticano, magari senza leggerla. Sì, c’è un grande bisogno di scrivere poesie (non di leggerla). Ma chi ce l’ha questo bisogno? E perché? Che sia eco di eventi perduti o ritrovati, non porta giovamento che si possa verificare. Allora? Qui si aprirebbe un altro interessante capitolo. Ma se le domande si affollano è anche perché lettori e giovani poeti sono disorientati, anche quelli che ostentato iattanza e arroganza. Lo sconcio è stato perpetrato, gli esempi sono visibili a tutti: la maggior parte della poesia degli ultimi cinquanta anni è immondizia. Non produce echi, non stimola, non accende, non indigna. Piccoli ragionamenti che i poeti fanno addosso a se stessi, con un io logoro e disorientato e privo di qualsiasi coraggio. Non è questa, la poesia, ma altro, sicuramente un gesto di sorpresa che sorprende e porta in dimensioni che esulano dalla quotidianità. Per questa bastano i giornali e la televisione, roba che si consuma in un batter d’occhi. Chi vuole fare poesia invece deve prendere la corriera che parte a capriccio e non va in nessuna direzione. L’incanto è nel viaggio, la scoperta è nell’incontrare la parola che illumina e come un fuoco d’artificio ci fa scoppiare nelle mani e negli occhi il senso dell’immortalità vissuto , purtroppo, per un attimo. Ma si tratta di un attimo da cui è visibile passato, presente e futuro, proprio come ci racconta Borges.
(Tratto da Polimnia n7, Editoriale, Dante Maffia, www.polimnia.it)
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