Pubblicato il 24/06/2011 16:09:41
Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte mi farebbe morire. Perché il bello non è che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora, lo ammiriamo anche tanto, perch’esso calmo, sdegna distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo. E così mi rattengo e il richiamo di oscuri singhiozzi lo soffoco in gola. Ah, di chi mai ci possiamo valere? Degli Angeli no, degli uomini no, e i sagaci animali, lo notano che, di casa nel mondo interpretato, non diamo affidamento. Ci resta, forse, un albero, là sul pendio, da rivedere ogni giorno; ci resta la strada di ieri, e la fedeltà viziata d’un’abitudine che si trovò bene con noi e rimase, non se ne andò. Oh, e la notte, la notte, quando il vento pregno di cosmico spazio ci smangia la faccia , a chi non resterebbe la sospirata, che soavemente delude, e che incombe pesante al cuore solitario? Che sia forse più lieve agli amanti? Ah, loro, se la nascondono soltanto, un con l’altro, la loro sorte. Non lo sai ancora? Getta dalle tue braccia il vuoto agli spazi che respiriamo; forse gli uccelli nell’aria più vasta voleranno più intimi voli. Sì, certo, le primavere avevano bisogno di te. Qualche stella s’aspettava che tu la rintracciassi. Montava un’onda dal passato, in qua, o mentre tu passavi sotto una finestra aperta si donava un violino. Tutto questo era compito. Ma lo reggevi tu? Così sempre distratto d’attesa, come se tutto t’annunciasse un’amata? (E dove la vorresti rifugiare se i grandi, strani pensieri in te vengono e vanno e spesso si stanno, la notte?) Ma se ti struggi così, canta le innamorate. Certo, non è ancora abbastanza immortale il loro sentimento famoso. Canta di loro, delle abbandonate, tu quasi le invidi, che ti parvero tanto più amabili delle placate. Riprendila sempre l’irraggiungibile celebrazione; pensa: l’eroe perdura, financo la morte per lui fu soltanto pretesto per essere: la sua ultima nascita. Ma l’eroine d’amore se le riprende in sé l’esausta Natura come se non ci fossero forze due volte, per compiere questo. Hai cantato abbastanza di Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla cui sfugga l’amato, all’esempio esaltato di questa innamorata, senta: posso essere anch’io come lei? Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai, diventar più fecondi per noi? non è tempo che amando, ci liberiamo dall’essere amato, lo reggiamo fremendo: come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo, per superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove. Voci, voci. Ascolta, mio cuore come soltanto i Santi ascoltarono un giorno: il grande richiamo li alzava dal suolo; ma essi, impossibili, restavano assorti in ginocchio: così ascoltavano. Non che tu possa mai reggere la voce di Dio. Ma lo spiro ascolta, l’ininterrotto messaggio che da silenzio si crea. Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te. Dove entrassi tu mai nelle chiese di Roma o di Napoli, non ti parlava pacato il loro Destino? O ti si imponeva una scritta, sublime, come ieri la lapide in Santa Maria Formosa. Che vogliono da me? Ch’io debba rimuovere lieve quella parvenza d’ingiusto che turba un po’, talvolta, il moto puro dei loro spiriti. Certo è strano non abitare più sulla terra, non più seguir costumi appena appresi, alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa non dar significanza di futuro umano; quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose non esserlo più, e infine il proprio nome abbandonarlo, come un balocco rotto. Strano non desiderare quel che desideravi. Strano quel che era collegato da rapporto vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso esser morti; quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità. Ma i vivi errano, tutti, ché troppo netto distinguono. Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno se vanno tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente sempre trascina con sé per i due regni ogni età, e in entrambi la voce più forte è la sua. Infine, non han più bisogno di noi quelli che presto la morte rapì, ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente, come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno di sì grandi misteri, quante volte da lutto sboccia un progresso beato : potremmo mai essere, noi, senza i morti? Sarebbe vano il mito, che un giorno nel compianto di Lino la prima musica, ardita, pervase arida rigidezza, e che sol nello spazio sgomento, a cui un fanciullo quasi divino ad un tratto e per sempre mancava, il vuoto entrò in quella vibrazione che ora ci rapisce e ci consola e ci aiuta.
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