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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Sul collasso della critica

Argomento: Società

Articolo di Mario Lunetta (Biografia)

Proposta di Redazione LaRecherche.it

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Pubblicato il 17/10/2009 20:14:12

(L'articolo originale è sul sito www.retididedalus.it)

*

Perché ‘saper leggere’ è inutile nel tempo del marketing letterario

*

Amare e lucide riflessioni sulla eclissi storico-epocale della Lettura come esercizio rigoroso di approfondimento ed analisi dei testi, indispensabile premessa all’esistenza di una Letteratura ancora degna di tal nome. A tal proposito, lo sfacelo della scuola e dell’università è il più evidente sintomo di una crisi culturale generale che si riflette nelle dinamiche dell’industria editoriale, oramai interessata soltanto a sfornare prodotti di genere, di facile intrattenimento e di rapido smercio, che hanno bisogno unicamente di pubblicità, di mera attività promozionale, mai interrogativa e men che meno dubitativa. È qui la palese “sconfitta della ‘forma’ intesa come individuazione degli ombelichi generativi del conflitto nel teatro della scrittura”.


*


“Esistono libri che fanno violenza al lettore”.
Walter Benjamin


Ora che alla Letteratura intesa come esercizio alto – e altamente irriducibile – di intelligenza combinatoria, sapienza sguincia del montaggio, percezione e controllo del ritmo, mobilità del punto di vista ecc. ecc., tocca l’indifferenza perfino delle fasce sociali genericamente connotate fino a un trenta-quarantennio fa come borghesia istruita, convinte di essere le naturali titolari di quell’entità strana e incostante denominata cultura, non è forse inutile tentare una riflessione su certi dati di fatto (e di memoria) connessi appunto in varia misura con ciò che continua a chiamarsi Letteratura.


Proviamo a partire dalla Lettura, che il vecchio Valéry Larbaud argutamente definiva vice impuni, per ricordare che l’Italia, a nessuno seconda quanto a Vizi & Affini, continua ad essere un paese di non-lettori. Il fatto è che la lettura è una cattiva abitudine, perché, alla fine, è un lavoro. Leggere sul serio significa esplorare, andare alla ricerca di qualcosa che non si sa se davvero ci sia e dove sia, dal momento che le pagine del libro che si “ara”, come volevano i nostri remoti progenitori dell’Indovinello veronese, possono anche celare un inganno, restituire in cambio della fatica di averle percorse soltanto il vuoto. Certi grandi lettori, da Benjamin a Borges a Bazlen a Manganelli, hanno sempre saputo che la lettura è un gioco di fantasmi, quindi una fatica (meravigliosa fatica) a ridosso del nulla: ma di un nulla che può risultare estremamente produttivo, basta saperlo maneggiare. “Le ultime pagine di un libro che già si conosce” dice Benjamin (Ombre corte, Einaudi, Torino 1993) “non si schiudono mai come quando si è nella propria stanza, la sera. Ci sono uomini, e fra di essi anche i possessori di un’intera libreria, che propriamente non comprendono mai un libro, perché non lo leggono una seconda volta. Eppure è soltanto allora che – come quando, bussando, si esamina una parete e si ottiene qua e là una cupa risonanza – ci si ferma e ci si imbatte in tesori che il lettore precedente – che in realtà eravamo noi stessi – vi aveva sepolto”. A proposito di lettura e scuola, Manganelli osserva che “Il motivo per cui lo studente ‘non sa leggere’ non accade malgrado i suoi studi, ma a causa dei suoi studi” nei quali evidentemente è la noia il dato determinante (Il rumore sottile della prosa, Adelphi, Milano 1994), perché poi, alle corte, “Leggere è un compito preciso, regolato da convenzioni e ubbidienze vincolanti soltanto a scuola; e ciò spiega perché la scuola, questa gigantesca istituzione contronatura, riesca a insegnare così poco, a parte il disgusto per tutto ciò che è bello, intelligente e umanamente persuasivo. Leggere è un atto squisitamente passionale, come dimostrano i successi strabocchevoli di certi libri, è un caso di innamoramento mentale (non necessariamente intellettuale)” (ivi, p. 128). Infine, com’è noto, l’autore di Ficciones si dichiarava più orgoglioso delle innumerevoli pagine che aveva letto che di quelle che aveva scritto, e ha espresso ripetute volte la convinzione che uno scrittore è soprattutto “un grande lettore”. A certificare la sua buona fede, basterebbe, credo, aver composto la vertiginosa allegoria che – appunto in quel gran libro che è il citato Ficciones – ha titolo “Pierre Menard, autore del ‘Chisciotte’”, in cui si narra che il poeta Menard “Non volle comporre un altro Chisciotte – ciò che è facile – ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell’originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes”.


“Ci si dovrebbe chiedere una buona volta” dice lo scrittore svizzero Peter Bichsel (Il lettore, il narrare, Aelia Laelia Edizioni, Reggio Emilia 1985) “se la lettura migliori o peggiori il rapporto con la realtà. È incontestabile che la lettura cambi il rapporto con la realtà. Ma è anche risaputo che la nostra epoca considera ogni mutamento del rapporto con la realtà pericoloso per l’ordine costituito”. In verità, si tratta di una vecchia storia. In tutte le epoche la cultura che si è rifiutata di ricoprire un ruolo di portavoce del potere ha corso rischi anche pesanti. In certe fasi storiche, anche solo leggere certi libri è stato pericoloso: e ancor oggi, presso civiltà particolarmente integraliste sul piano religioso, vediamo come continuino a imperversare censure e condanne persino capitali.


La lettura, si sa, somiglia a una caccia; e meno la caccia si fa confusa, più nitidamente insomma si percepisce la traccia da seguire, più è grande la soddisfazione del cacciatore. E va bene. Tutti questi sono osservazioni o rilievi di sottile (e magari anche spiritosa) estemporaneità, ma è pure innegabile che qualche spiegazione o qualche ipotesi si possono azzardare per tentare di capire il granitico dato di fatto per cui gli italiani, che non cessano di essere un popolo di poeti e di artisti in senso vulgar, puramente quantitativo insomma, occupino nella lettura uno degli ultimi posti della graduatoria europea.


La scuola, per esempio. A me, che di scuola ne ho macinata abbastanza da entrambe le parti della barricata, pare che troppo spesso nella pratica “educativa”, come si dice, sia soprattutto carente il gusto dell’azzardo, quindi della libertà che il discente dovrebbe sperimentare entrando nello sterminato corral dei testi da leggere. Da lui la lettura è percepita come puro fardello impositivo, se non come corpo del reato di cui in qualche misura rispondere di fronte a una commissione inquirente/giudicante: qualcosa, quindi, di prossimo alla costrizione, alla sofferenza, se non all’incubo. In genere, in questo rapporto in cui non è mai assente un filo di sadismo, il lettore coatto e irresponsabile, cioè la negazione del vero lettore, esce con un fondo di limaccioso disgusto. Per lui, ancorato alla noia ricattatoria della lettura obbligata (e solo e sempre di certi testi, davvero scritti per l’eternità), l’atto del leggere resterà nella maggior parte dei casi legato alla memoria spiacevole di un’afflizione, piuttosto che di una soddisfazione, e ciò che Barthes chiama plaisir du texte (per non parlare dei testi più impervi e succulenti, che il critico francese definisce textes de jouissance) rimarrà escluso per sempre dall’orizzonte della sua immaginazione.


C’è, quindi, un problema di metodo, che dovrebbe stimolare nei discenti un embrione di coscienza critica, prima che nei confronti dell’atto del leggere, della propria esistenza e del proprio sé nel mondo. Ma quasi sempre, ohimè, i docenti sono i primi ad annoiarsi nello svolgimento della loro funzione, e quelli di letteratura solo raramente dispongono della cultura e della sensibilità necessarie a trasmettere interesse per un’attività apparentemente così inutile come la lettura. Nessuno, ovviamente, pensa alla scuola come a una fabbrica di fini analisti o di ben attrezzati critici letterari: ma soprattutto a un luogo in cui il discente possa cominciare a sperimentare le proprie potenzialità di cittadino consapevole anche attraverso il confronto (sempre più autoregolamentato) che l’atto del leggere implica.


La lettura autentica è una palestra di comparazione continua. Una volta acquisitane la tecnica profonda come curiosità sconfinante e capacità di progressivo affinamento valutativo, il lettore assisterà alla propria metamorfosi in professionista involontario del godimento ininterrotto. Come un buon nuotatore che con l’allenamento e l’esperienza sostituisce la durezza della fatica iniziale con la voluttà della ripetizione/invenzione ritmica in acqua, così il lettore in possesso del proprio metodo sarà sempre più capace di degustare un testo, di valutarne il peso specifico, di assimilarlo o di respingerlo. Come uno scrittore degno del nome è soprattutto un grande lettore (Borges dixit), così un lettore esperto – quello che i media chiamano “forte” – sarà più portato di chi non frequenta abitualmente la parola scritta (nelle sue più acuminate articolazioni di pensiero e di forma) ad essere una persona civile: cioè una persona, un individuo tra individui.


La lettura, quindi, è senza dubbio, prima che un gradus ad Parnassum, una piattaforma di democrazia da ri-conquistare e ri-sperimentare senza sosta. La gabbia scolastica, come si è cercato di mostrare, non aiuta questo processo. La media superiore e l’Università funzionano ormai secondo la ratio impoverita della logica binaria. La cultura in quanto responsabilità (anche avventurosa) del singolo ha subìto un irrimediabile appiattimento, perché è sulla microdimensione a-dialettica del quiz e sul raggelamento del format che si fondano i presupposti del sapere pragmatico, incuranti dello spessore della conoscenza complessa. L’umiliante stato di depressione di scuola e università dà conto della loro emarginazione nella società del produrre, o più precisamente, del vendere. Le classi dirigenti, che un tempo in quei luoghi si formavano, sono interessate ad altri modi di mantenimento dello status quo e del consenso: non più un certo sapere (concepito naturalmente anche come piedistallo mobile di egemonia), ma altre reti di superficie improntate soprattutto alla visibilità. L’Esserci è nell’Apparire. I media dell’icona pagano immediatamente in termini di seduzione, quindi di potere. Ecco allora che lo scollamento tra luoghi dell’istruzione e società è fortissima, prossima a una cesura non rimarginabile, nel momento stesso in cui si cerca di far credere a una loro massima interazione (finta, perché puramente tecnicistica). Lo stesso ridicolo proliferare dei corsi di cosiddetta Scienza della Comunicazione sono lì a mostrare platealmente questo gioco mistificatorio, carico di una sostanza reazionaria e oscurantista (pensiero unico, totale dominio dell’attualità, reale carenza di metodo critico). In questi ultimi vent’anni l’insegnamento non ha saputo trovare alla propria crisi, sofferta dentro la più generale crisi della società come corpo autogiudicante delle proprie laceranti contraddizioni, altra risposta che una progressiva burocratizzazione e tecnicizzazione. Lo spazio per la curiosità intellettuale si è drasticamente ridotto – e, più precisamente, ha cambiato di segno: da passione strategica verso il mondo si è fatto imitazione passiva dei modelli che chi il mondo domina propone con brutale arroganza. “Gli intellettuali, gli universitari e altri esponenti del sapere costituito” rileva convincentemente Michel Maffesoli (v. “Apocalissi del consenso”, intervista di Marco Dotti, il manifesto, 14.8.09) “tendono a cedere sempre di più alle sirene mediatiche, fatto che favorisce la proliferazione di ‘falsi professori’ e la moltiplicazione di opere ‘di serie B’ che scompaiono al primo soffio di vento. Il problema è grande e soprattutto grave: le élites hanno perso il loro tradizionale senso di responsabilità e, quotidianamente, sono indaffarate a soddisfare un gusto o un’opinione effimera. Fatto che permette di capire ancora di più la ragione di questa sfasatura, del divario che c’è tra intellighenzia (coloro che hanno la possibilità e il potere di fare e di dire) e il popolo in se stesso. Negli ultimi due decenni, abbiamo visto che il sospetto colpiva e pesava soprattutto sui politici, successivamente si è rivolto nei confronti degli intellettuali. Ma oggi, questo sospetto pesa soprattutto sui giornalisti”. In effetti, e qui da noi in misura esorbitante e addirittura scandalosa, la soggezione della stampa al potere politico ha assunto – anche grazie a una rete estesissima di conflitti di interesse – un peso che solo una società sempre più priva di volto e di coscienza critica come quella italiana (per tradizione cresciuta dentro sacche di estesa inconsapevolezza civile) riesce – unica in Europa – a sopportare, come facendo vista di non rivestire il ruolo di vittima/connivente, ma di semplice spettatrice.


La semplificazione è da sempre nemica del sapere composto, che ha bisogno di procedere per continue affermazioni e negazioni, verifiche e pentimenti. La complessità dei linguaggi e delle procedure è all’opposto della linearità robotica.


Aquila non captat muscas, dicevano i latini. Ma l’attuale divisione del lavoro (e del lavoro culturale, anche) quasi non concede più spazio all’iniziativa individuale. Anche questo contribuisce a spiegare l’organizzazione accelerata delle offerte che da anni – da quando i settori commerciali sono diventati il motore e il centro decisionale delle aziende, secondo una vera e propria filosofia ideologica a senso unico, di cui l’editor è la figura emblematica, troppo spesso nefasta – frena le potenzialità non solo culturali, ma industriali, dell’editoria. Si pensi inoltre al nostro sistema di distribuzione, paurosamente concentrato in una sorta di piramide medievale. Si aggiunga a questi mali il mancato raccordo con la scuola e l’Università, che in tutti i sensi resta un luogo largamente separato rispetto al contesto produttivo. Manca ormai perfino la voglia di riflettere malinconicamente sulle varie apparizioni/sparizioni dell’ombra della Legge per il Libro e sulle infinite volte prospettate (e mai seriamente attuate) campagne per la lettura e la letteratura di qualità, che non possono certo limitarsi a quegli appuntamenti editorial-mondani che sono i vari Festival di Letteratura, ormai ridotti a clamorose passerelle di vip, vetrine delle star di turno…


Chi opera come produttore nel cosiddetto mondo della cultura è sempre più incline ad uniformarsi alla macrotendenza semplificatoria dell’attuale industria della comunicazione. È quindi disposto, anche nei casi di maggiore attenzione ai diritti dello specifico – dell’intelligenza letteraria, in questo caso – a precostituirsi una sorta di alibi di “irresponsabile” leggerezza nei confronti della plumbea lourdeur del mercato. È una questione di velocità. Oggi – si dice, magari senza provarlo – tutto si brucia in tempi brevissimi. Notizia scaccia notizia. Icona scaccia icona. Ecco allora che anche la scrittura diventa “immagine”, nel senso di uniformarsi alla percezione basica del fruitore, che è essenzialmente visiva, priva di profondità, e non intende misurarsi con la contraddizione. Il nuovo feticcio editoriale si chiama emozione, si chiama soggettività. La distanza (critica) nei confronti del reale magmatico sembra venuta meno. Non è più la dimensione analitica dei fenomeni, la ricerca della concatenazione e delle cause-effetti a contare, ma il coinvolgimento, l’abbandono cieco alla voluttà di ciò che accade: inconsapevole rimessa in circolo dell’adagio di Wittgenstein secondo cui “Il mondo è tutto ciò che accade”. Il feticcio dell’informazione è, alla fine, una maschera che si ricicla assumendo tratti continuamente diversi. Con qualche paradossale crudeltà, non priva peraltro di una rispettabile dose di verità, Baudrillard ha scritto (Fragments. Cool memories III, 1990-1995): “La possibilità per un cittadino di farsi un’opinione a partire dall’informazione è altrettanto inesistente quanto quella di potersi fare un giudizio estetico a partire dal mercato dell’arte”.


Nello Specchio de “La Stampa” del maggio scorso curato da Andrea Cortellessa, alcuni addetti ai lavori nell’editoria lamentano la progressiva evanescenza di una critica di grande profilo, pronunciandosi alcuni per una nuova attrezzatura teorica, davvero interrogativa dei fenomeni, davvero problematica e in grado di controbattere la moda di una light criticism che contamina sportivamente cronaca e riflessione rapida, attualità e spezzoncini di pensiero (ovviamente “debole”); altri (v. le risposte davvero “leggère” di un editor come Anna Gialluca, della Laterza) sembrano appiattirsi sull’esistente, una volta caduto il ruolo forte dell’interpretazione: “nei rapporti fra autori e lettori si sta producendo una rivoluzione copernicana: se prima era il lettore a regolarsi sull’autore, ora è l’autore a regolarsi sul lettore. Nessun lettore oggi può essere dato per scontato”. Come dire, assai disinvoltamente, che gli autori – se ancora vogliamo chiamarli così – faranno bene a guardarsi attorno e fornire al lettore – se ancora vogliamo chiamarlo così – la biada che suppongono si venda meglio.


Intervenendo sulla crisi della critica, Daniele Giglioli dà alcune risposte esatte, di concretezza non “spregiudicatamente” relativistica, sulla necessità di connettere giudizio (anche estetico) individuale e condivisione, in un circuito comunicativo non preordinato. “Con al fondo una promessa: che ci spetti qui e ora, e non in un aldilà che beato chi ci arriva, la possibilità di attingere a qualcosa di universale, se non proprio all’Universale dei filosofi. Un uso adulto della ragione e dell’esistenza. Una limitazione degli spazi in cui il potere decide per noi, parla per noi – e perfino per bocca nostra”. Aggiunge lo studioso: “Viviamo in una società post-critica (c’è chi ha parlato di post-democrazia), scettica e insieme facile da abbindolare, che accetta tutto perché non crede a nulla, che non vuole scegliere ma delegare, che si governa attraverso gli stereotipi, aspira a un padrone e ha il terrore del conflitto e della libertà. La critica è il contrario dell’autorità, ma tutti vogliono essere governati. La critica è il contrario della proprietà (non c’è tuo e mio, vale solo ciò che può essere messo in comune), ma noi anneghiamo nell’individualismo proprietario. La critica è il contrario della paura, ma la paura è divenuto il collante sociale più efficace. La critica è il contrario di ciò che si vuole identico a se stesso, ma l’ossessione più forte è la salvaguardia della propria identità. La critica sostiene che se una cosa è bella sarebbe bello ne godessero tutti, ma il marketing funziona al contrario: devi goderne perché ne hanno già goduto tutti. Altro che crisi della critica, dei suoi metodi e delle sue istituzioni. È del collasso dello spirito critico tout court che stiamo parlando, della fine di una speranza, di una resa senza condizioni al diritto del più forte. Un problema per tutti, non solo per i critici”.


Ha osservato di recente Romano Luperini, sconsolatamente: “Oggi manca, intorno ai critici, una società civile: il critico ha intorno a sé il vuoto” (v. “l’immaginazione”, 247, giugno 2009). Personalmente, andrei un po’ più in là: il vuoto circonda ogni manifestazione della vita sociale, che si svolge in un pieno costipatissimo in realtà vuoto di sé, perché vuoto di un senso che lo avvalori per tutti. Si tratterebbe, nientedimeno, che della premessa minima per una democrazia degna del nome, soprattutto intenta a sanare le proprie interne contraddizioni: in primis, l’ingiustizia che umilia i propri cittadini, la maggior parte dei quali vive una condizione di democrazia virtuale e di sudditanza reale, a fronte di una minoranza privilegiata. Il fatto è che il magma dissociatorio delle componenti sociali (la pappa a vario tasso illegale e/o criminale che mangiamo ogni giorno, l’impasto di mezza verità-totale menzogna che ci fa persone sbigottite e divise) ha sostituito il modello della parità dei diritti (peraltro senza parità di condizioni) che ha fin dal Settecento costituito la grande ipocrisia delle democrazie formali. Quindi, anche nel dominio della cultura, della letteratura, della critica, non si può che optare per la scelta del conflitto contro la pacificazione del marketing, che sembra avere ormai conquistato, addomesticandole alla propria dieta, le moltitudini di coloro che, se in passato furono lettori, fruitori, insomma interfaccia attiva del testo (del documento, della proposta, ecc.), oggi sono soltanto utenti; non si può che onestamente lavorare per l’incremento della coscienza critica, sia nello specifico letterario che nello specifico sociale.


Un’impresa, sic stantibus rebus, per molti versi disperata. Ma io mi ostino a credere che, proprio perché la partita appare perduta, la partita vada continuamente riaperta. La storia non è ancora finita, come vorrebbero certi esegeti alla Paul de Man per i quali – sulla scia del loro maestro, il cui percorso critico non si è mai troppo curato delle condizioni storiche, in sostanza prescindendone – non è mai cominciata; e di storicità siamo fatti, di storicità sono fatti gli eventi e le scritture. Il vuoto pneumatico nel quale tutti i centri di potere sono interessati a convincerci di trovarci “fraternamente”, in forza di un’astratta quanto insondabile condizione umana (in fondo immersa in una vicenda indifferenziata, in una sorta di bagno ontologico di tutto uguale a tutto) in cui anche i salti epocali, le fratture, le discontinuità (sempre così fortemente considerati da Benjamin, per esempio) sarebbero semplici dettagli sul tapis roulant di una continuità inesplicabile, non è altro che una mistificazione, perché in realtà si tratta di un vuoto programmato e gestito. Chi ha pensato L’autore come produttore (1934) non s’è mai stancato di dire che la critica letteraria ha il compito di “passare a contrappelo” la storia nella sua concretezza, nella sua contraddittoria materialità. Sono convinto che soprattutto da queste premesse ci si possa oggi provare a costruire (nella confusione di un presente che tanto recalcitra a fare i conti con se stesso senza azzerare la dialettica col passato) un discorso non narcisistico sulla legittimità di una letteratura e di una critica capaci di leggere il mondo attraverso lo spazio dell’immaginario.


Le condizioni date sono sicuramente ostili. “Critica c’è – avverte Francesco Muzzioli in un recente pamphlet sull’esercizio della critica (Quelli a cui non piace, Meltemi, Roma 2008) – quando si procede criticamente. Sennonché – ecco il punto – è diventato sempre più difficile farlo, e questo sia per quanto concerne gli spazi pubblici concessi, sia – e ancor di più – per quanto riguarda l’incentivo all’atteggiamento critico da parte della collettività”. L’intervento del critico-scrittore romano è brillante ma non esibizionistico, feroce ma non épatant. Muzzioli ricerca certe cause profonde dell’odierno degrado culturale di una società intera, e le mette lucidamente allo scoperto. Al cinismo dei conservatori del Sistema della Confusione fa comodo emarginare la critica come attività inutile al Progetto (di mantenimento e espansione cieca), così come è da cancellare ogni discorso teorico o di tendenza. Il prodotto-testo parla da solo; da solo si costruisce la sua aura, e va sostenuto dall’industria editoriale appunto per la sua “unicità” irrelata e in qualche modo miracolosa. “In una letteratura interamente gestita in termini di mercato – scrive Muzzioli - la critica altroché non serve, ma non ha senso neppure: per le esigenze promozionali serve piuttosto la pubblicità, e la pubblicità non può mai essere ‘negativa’ (non può neppure prevedere di esserlo), né prendere alcuna distanza. È discorso o immagine-discorso tutto interno al suo prodotto”. A dettar legge sono i due totem dell’emozione e dei contenuti. La fiction è regina incontrastata, nella poltiglia degli “specifici” (narrativa svelta, cinema, tv da soap opera, vissuto, cronachismo spicciolo). Trionfa il genere. Ogni densità problematica è cancellata: sempre più sistematicamente, il romanzo somiglia a una pre-sceneggiatura.


È, come da tempo vado sostenendo, la sconfitta della forma intesa come individuazione degli ombelichi generativi del conflitto nel teatro della scrittura. È la sconfitta dell’intelligenza interrogativa, e di conseguenza dell’intelligenza critica. Ma quest’ultima ha ancora un compito, nella Crisi Ecumenica che investe (e trasforma) gli assetti materiali e gli assetti comunicazionali e di pensiero – ed è un compito che, forse oggi più che mai, dal fondo dell’indifferenziato e dell’indifferenza, rivela una sua profonda necessità insieme conoscitiva e politica, dal momento che – argomenta Muzzioli – “è impossibile discorrere della crisi della critica settorialmente; occorre inquadrarla innanzitutto nella crisi e nel degrado della letteratura, nell’ambito di una guerra dei media per ora vinta dalla televisione che impone la cosiddetta ‘agenda’ e, ormai, anche i personaggi protagonisti e il linguaggio con cui esprimersi. E occorre discuterne all’interno di un problema culturale che è immediatamente (data ormai l’interconnessione dei messaggi e delle merci, dell’economia e della comunicazione) un problema politico. Più si stringono i fili che tengono avvinti i consumatori e più la questione della critica si pone come la questione, intrigante e inestricabile, pressoché un enigma, del disinvestimento”. Come dire, della disconnessione, del sabotaggio ai danni di un macromodello dell’indifferenziato a bassa scala, com’è quello imposto dal sistema mediatico senza fessure che intride di sé ogni cellula dell’esistenza associata. Ad evitare l’inevitabile avvitamento del quale, credo e spero, non sarà più sufficiente “ringiovanire” con un veloce make-up la stanca epidermide dei prodotti che la grande editoria commerciale continua a confezionare, e sicuramente neppure l’immensa discarica della rete, coi suoi semilavorati in serie che nascono come alternativa di libertà creativa selvaggia e indomabile, e che – sia sul piano della narrativa che sul piano della critica, risultano in grande maggioranza rispettivamente conati e punti di vista ignari di qualsiasi logos dialetticamente aperto al confronto.


PS. Della poesia e del suo penoso naufragio, che moltitudini di spettatori ignari guardano dalla spiaggia senza capirlo, si parlerà un’altra volta. Forse, proprio perché si tratta di un genere del tutto fuori mercato, ma così diffuso nel senso comune, non sarà inutile farlo.

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