Si sente, da sempre, in Italia parlare del sud, o meglio del mezzogiorno, che arranca, che non tiene il passo con il resto del Paese. Ed ecco che anche Raffaele Montesano ci dice la sua su di un paesino della Lucania negli anni Settanta, in cui anche le notizie più clamorose filtrano a rilento, distorte dall’aria immobile che regna nella zona, tant’è che anche un caso eclatante, come fu quello che vide protagonista Aldo Moro, era per Rosa, una delle protagoniste del romanzo, poco più di un mistero la cui eco le era giunta chissà come. Il romanzo si snoda, sornione, tra i vicoli scoscesi e le vecchie case di Borgo Nemone, l’autore rende intatte al lettore le vicissitudini e il sentire di quella che non si esiterebbe a definire “povera gente”. Povera al punto che un’automobile o una scalcinata Ape Piaggio, glorioso emblema della modernizzazione del caro carretto, sono segno di distinzione e modernità. E, proprio su questo sgangherato mezzo di trasporto, la protagonista sbandiera il suo emblema di donna rimasta sola con un figliolo da crescere e mille incombenze ma che non si arrende e, come e meglio di un uomo, sbarca dignitosamente il lunario.
Come ogni borgo che si rispetti, anche quello raccontato da Montesano ha le sue figure chiave, il medico, il gestore del bar e così via, ognuno di loro ha la sua piccola o grande storia da presentare agli occhi del lettore, il quale non tarda ad affezionarsi a questo microcosmo che, sebbene ormai distante, ha un richiamo nel cuore e nei ricordi di pressoché ciascuno di noi. Montesano ricrea egregiamente l’aria di paese, coi pettegolezzi e i fatti antichi che diventano quasi mitologia, personaggi che vanno o che restano; grandi e piccoli scandali servono a tenere vivo e mobile il tessuto sociale. In fondo le cosiddette guerre, viste dal di fuori, sembrano più che altro scaramucce o piccole schermaglie ma dentro l’ambiente conchiuso sono dei veri e propri fatti epocali. A smuovere le acque stagnanti del paesello giunge la sorella di Rosa dal Canada, portando con sé la figlia seducente. Quest’ultima porterà ulteriore scompiglio in città, coi suoi modi di fare “moderni” ed emancipati e, soprattutto, per una abitudine che viene vista con un misto di sospetto e soggezione, ella, infatti, ama leggere. L’introdurre un elemento così misterioso ed estraneo alle abitudini locali, quale è l’amore per i libri, fa da elemento catalizzatore, facendo scorgere nuovi assetti nelle placide vite dei campagnoli. E il più colpito, sia dalla leggiadra fanciulla sia dagli inseparabili amici cartacei, è il figlio di rosa, adolescente pacioso e sornione che verrà catapultato nel ruolo primario della vicenda sino a diventare portatore della verità ultima della narrazione. E potrei riassumere questo pomo dorato, nascosto nella crepe di una vecchia dimora, come l’illuminazione che tutti attendono, non importa come e da dove giunga, anche per la mente che apparentemente è la più ottusa e refrattaria, basta un piccolo raggio di luce proveniente dal sapere per creare uno sconvolgimento capace di creare un uomo nuovo, con occhi nuovi in grado di vedere, oltre i viottoli polverosi, oltre le cime degli alberi che circondano il paesello, il Mondo che vive e palpita. Penso che questo sia il nocciolo del romanzo, dopo aver incuriosito e divertito il lettore coi fatti di Borgo Nemone, d’un tratto Montesano squarcia il fondale agreste del teatrino e dice al lettore che va bene gingillarsi coi fatterelli della propria aia, ma se si vuole iniziare a vivere veramente, per sé e per la società che ci culla fra pettegolezzi e vecchie storie, bisogna aprire gli occhi e imparare a leggere il mondo che ci circonda e aspetta di essere conosciuto.