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Ostinato. Suite in versi

Poesia

Cinzia Della Ciana
Edizioni Helicon

Recensione di Enzo Rega
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Pubblicato il 03/04/2020 12:00:00

 

   Conoscevamo il precedente libro di poesia di Cinzia della Ciana Passi sui sassi (Effigi, 2017). Ora l’autrice ci regala questa seconda raccolta. Il postfatore Franco Di Carlo scrive che Ostinato “segue e rinnova l’itinerario creativo della poetessa di Montepulciano: i ‘passi’ e i ‘passaggi’ si fanno più serrati e rapidi, corrosivi e fluenti, assumono l’andamento di un ininterrotto, marcato registro espressionistico” (p. 163).

   Vedremo in che modo questo libro nuovo prosegue e porta avanti il precedente esperimento poetico. Intanto precisiamo il significato del titolo, che si riconduce alla poetica di Cinzia da lei già espressa con la formula “del suonar colle parole”. A sua volta il sottotitolo di Ostinato, cioè Suite in versi, ci rimanda alla sfera musicale. Ma a ben vedere è un rinvio imposto già dall’ambiguità semantica della parola “ostinato”, ambiguità semantica che proficuamente Cinzia pratica spesso nella sua poesia addensando più significati e più “svolte” nello stesso lemma. Se ostinato etimologicamente significa “star fermo saldamente” e di conseguenza il “persistere in un proposito”, dall’altro in musica indica un motivo che viene ripetuto ad oltranza restando nello stesso tempo invariato nell’altezza e nel ritmo, dunque una sorta di staticità continua che fa esclamare “eppur si muove” (al riguardo ci delucida la quarta di copertina, di pugno dell’autrice). Ma anche il suo più recente libro di narrativa, una raccolta di racconti “umoristici”, porta programmaticamente un titolo musicale, Solfeggi (Helicon, 2018), a testimonianza di una dispositio musicale (dispositio come “organizzazione” ma anche “inclinazione”) che risale ai giovanili studi di pianoforte ai quali torna con la scrittura.

   Anziché note qui abbiamo parole, è vero, ma con una particolare, ostinata attenzione al loro risuonare, alla combinazione di suoni, accenti e ritmi. Ostinato si divide in sezioni che fanno riferimento nel titolo ad altrettante danzee forme musicali. Per la precisione: Sarabanda, Aria, Passacaglia, Corrente, Pavane, einfine Stabat. Ogni sezione raccoglie testi grosso modo simili per forma ma anche omogenei nella tematica. Per esempio, l’ultima sezione, Stabat, sottinteso mater (tra Jacopone e Pergolesi), è dedicata appunto alla figura della madre (il secondo testo vede comparire Clitennestra e Agrippina, madri vittime di matricidio rispettivamente a opera di Oreste e Nerone), ma anche alla donna in generale. In Aria il riferimento è a fiori, piante, boschi e monti, cioè alla natura che in quest'aria vive e di essa si nutre. In Passacaglia protagonisti sono i luoghi, cioè il paesaggio antropizzato, urbano e naturale insieme (Napoli, Lisbona, Amalfi, Portofino ecc.): “Qui giunge cielo. / È oceano a masse / fragore gravidi di grancassa / luce virile percossa spinge / dentro. Entra rifrange / seme sul fiume e lume / rompe il Tejo in raggi / sparge incalcolabili ipotenuse”(Lisboa, p. 77). A proposito del Portogallo e dell’Oceano, vengono in mente i versi di Camões incisi su una stele a Cabo da Roca, uno dei punti più estremi del continente europeo: “Qui dove la terra finisce e il mare comincia”. Luoghi ritrovati come spazio antropologico (e naturale), di contro al mero spazio geometrico dei non-luoghi dei quali parla Augé.

  Dunque, in questo libro, e nella poesia tutta di Cinzia, la scrittura è un campo di incontro-scontro, una battaglia di grafemi e fonemi – contemporaneamente vediamo e sentiamo il loro inseguirsi, cozzare e dispiegarsi in un continuo dirsi e darsi della poesia, un divenire eracliteocome nota Di Carlo, un divenire che non a caso si concentra nel momento puntiforme del presente. Non diversamente, in fondo, da quell’ostinato che ripetendosi si muove, o si muove pur ripetendosi. Il divenire eracliteo è infatti unità degli opposti, così come appare nei versi di questo stesso libro: “Ma perenne / il movimento / sempre / forsennato orologio / innescato da Colui che non mente”, p. 26; “Fluirei impassibile al germinare di immagini / algide non morirei né diverrei / e il tempo starebbe immobile a guardare / me inane la parola al verso”, p. 31)È, eracliteamente, quella di Cinzia, una “poesia liquida”, panta rhei, e l’acqua compare anche nel titolo del suo romanzo Acqua piena di acqua (Effigi, 2016). Una poesia liquida nella sua corposità (altra coincidentia oppositorum), una corposità, una “petrosità” (più dantesca che petrarchesca)appunto già suggerita anche in questo caso fin dal titolo della sua precedente raccolta di versi, Passi sui sassi che ci fa vedere l’andare e ce lo fa anche sentire, perché il titolo all’orecchio suggerisce il rumore del piede sulle pietre.

   Ciò che l’occhio vede diventa dunque parola e suona fortemente e ostinatamente, in una poesiaecfrastica, quel genere di poesia che vuol rendere nelle parole ciò che il senso della vista ci presenta, per porgerlo quindi all’orecchio. Un esempio: “Incolonnati sporgono / ponti vegliano / sotto Superga / infilzo lo sguardo / tra balaustrati / pezzi del Po”(p. 93). Laddove la stessa scansione dei versi sembra suggerire il susseguirsi degli archi del ponte e gli squarci del fiume che tra essi, o meglio in essi, baluginano.

   Ma sono le parole a indagare la realtà, o la realtàè piuttosto un pretestoperché il linguaggio si dispieghi in una sapiente orchestrazione, perché si metta in moto la macchina della scrittura? In questo senso forse possiamo cogliere l’affermazione di Di Carlo che parla, per questa poesia, di espressionismo. Espressionismo, possiamo aggiungere, e quindi non impressionismo. Una poesia ecfrastica nella quale però non è il mondo che viene a noi, ma in cui siamo noi ad andare al mondo in una intenzionalità husserliana(nel rapporto noesi – cioè il pensiero – e noema – il pensato, che non è semplicemente il percepito); un’intenzionalità anche bergsoniananella memoria che si cerca per farsi coscienza. È dunque la “coscienza-di”(Husserl) quella che si interroga in un movimento che parte dalla nostra interiorità.

    I passi conducono la poetessa in vari luoghi, e di ogni luogo, ostinatamente, bisogna dire in una poesia perenne, in un ininterrotto componimento che si fa plurilinguismo e pluristilismo. Appunto, i titoli stessi delle sezioni suggeriscono questo diverso modularsi della voce, ma a questo ufficio adempie anche la codificazione musicale iniziale che, dopo il titolo, precede ogni testo: Andante, Adagio, Largo, Moderato, Andante variabile, Rapsodico ecc. Un’orchestrazione complessa che da un lato può sembrare un’operazione a freddo, quel tanto richiesto dal lavoro poetico – che non è solo un fatto di sentimento –, come appare in certi componimenti più tecnicamente ostinati e dove il referentesembra farsi evanescentee il testo come concentrarsi più sul significante che sul significato in una dimensione fortemente ludica(eppure, anche qui l’atto della scrittura non è mai puramente gratuito). Dall’altra però, in altri testi, la voce si fa più emotivamente coinvolta, liricamente espressiva, e più immediatamente comunicativa, come in Donne nere nella sezione Stabat: “Sono gazzelle, / danzano / senza scappare / non hanno parole / cieche scrivono / cogli occhi / neri” (p. 147). E questa scrittura, come d’altronde in altri svariati casi, si essenzializza, fino a farsi il verso olofrastico, riducendosi cioè a un’unica parola che sta per il tutto, come nella primigenia creazione del linguaggio nella quale il silenzio finalmente partorisce i suoni.

   Il divenire eracliteo – per tornare a esso – trascorre diversamente variegandosi. E così la voce passa dall’accogliere arcaismi alla costruzione di neologismi, laddove lo stesso neologismo può impastare suoni che hanno un retrogusto antico, come in Pucciniana: “Portarsi qui fino a dove il mare / è morto acché l’alma smemori / e lo spasmo ammelmi” (p. 131). E questi versi sono anche un buon esempio di quell’incontro-scontro di fonemi di cui dicevamo, ma qui il predominio della emme ammorbidisce il suono facendolo meno petroso, anzi c’è un morbido abbraccio di una terra quasi liquefatta. Qui c’è il mare. E non a caso una morbida assonanza si presenta nell’arioso dedicato all’Arno, altra massa d’acqua: “Mi siedo e attendo / che dal magma verde / salga lemma che suona, / levigato ad altri l’amalgama, / il recondito orchestra” (p. 94). E qui sembra confermata, nell’attesa del lemma, della parola, anche l’ipotesi che la realtà sia un pretesto perché sorga la parola, la parola in sé, che però è anche parola per sé, che si proietta verso l’altro a significarlo. Infatti si prosegue, illustrando anche la poetica di fondo che sottende questo libro e questa scrittura: “È il verso del fiume / fiero che a fiate fruscia / ad altre si fissa / e maggiormente fresco galoppa. / Qui s’innesta poesia / senza metro torna sorgiva / sopravvive perché melodia”.

 


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