Amelia Rosselli scopre Roma e l’Italia nel dopoguerra democratico. In realtà non è proprio Roma: è un grosso spazio, tutto marcio, obbligato al modello arcaico di un’allucinazione biblica e letteraria. Nelle Prime prose italiane del 1954 la visione è così: “Roma città eterna che silenziosamente di notte ti bevi il tuo splendore hai tu nulla da predire. Ti sei fatta principessa e languisci. […] Il fiume delicatamente si torce. Bello che sei fiumicino cadaverino. Ti pescano. Siedi come un cane”.
Sono gli anni della Roma innocente in cui si esprime – e si esalta; esaltandola – anche Pasolini, ed è il tempo leggero di Poveri ma belli e della Dolce vita. Ma Rosselli non trova tutta questa goliardia: Roma è morta e decaduta, bloccata come Gerusalemme nell’incipit delle Lamentazioni di Geremia.
Alla fine, Roma si ridurrà ad un ossimoro potente: “[…] oggi ancora vivo a Roma, in una specie di fango esaltato”, in un’intervista del 1992 a Milo De Angelis e Isabella Vincentini. Così nel “fango esaltato” si vive “oggi ancora”, come possono viverci i vermi: non gloriosamente, e con l’esitazione depressa che porta ad un suicidio. Chi vive nel ventre sporco della vedova diventa vedovo: si vive oggi ancora, ma dubitando.
Anche Cristina Campo vive a Roma, dove non è nata. Passa anche lei dal tempo di Poveri ma belli alla nouvelle vague postconciliare. E anche Campo ha l’assoluta certezza che Roma non è patria, ma vedova, come la capitale di Geremia e la città eterna e paradossale di Rosselli.
Nell’intimità delle Lettere a Mita l’inconciliabilità con Roma è drammatica, avvertita nel corpo, che è sensibile a tutto. Il 9 novembre 1971: “Tante volte ho cominciato a scriverle, cara. Ma, o non bastava la forza, o l’incertezza sull’arrivo della mia lettera me la toglieva. Chi sa se lei mi ha scritto? Tutto è un po’, ormai, come in tempo di guerra, questa città sempre più simile a una città assediata”.
5 novembre 1973: ritornando a Roma, “ricominciarono i vomiti, le angosce, i sogni di claustrofobia – e con quale sentimento di panico può immaginare, dopo una remissione completa di quasi un mese. (Pesa d’altronde su questa città una spaventevole energia negativa. Se non camminassimo su sangue di martiri, saremmo forse tutti già periti. Tutte le forze di maledizione che possono convergere su una Città Santa che non ha più custodi si sono date convegno qui)”.
Il 4 dicembre 1975, nell’ultima lettera a Mita: “Tornata a Roma dopo un lungo periodo al mare (duro e difficile questa volta, per molte ragioni) il rigetto di questa città ormai maledetta, che me ne aveva spinto via alla fine di settembre, si è manifestato di nuovo, e violentemente, con tutti i fenomeni che lei sta sperimentando a Chicago: malesseri d’ogni genere, vomito, e quell’angoscia, quel taedium profondo che può mutarsi, instaurarsi ogni giorno in depressione – il mio principale terrore!”.
“Questa città” è determinata ma scissa dal vero nome. “Questa città” è assediata o maledetta, e il suo avverbio è ormai (“ormai, come in tempo di guerra”, “ormai maledetta”). Nella città senza nome, Cristina è senza forza (1971), nauseata fino al vomito (1973, 1975), angosciata (1975). Il corpo a corpo con le “forze di maledizione” è reale come la lotta di Rosselli con le voci, quando “la malattia era la CIA”. Il degrado – la sporcizia vera o presunta, materiale o religiosa – comporta il rigetto, come in un trapiantato: Roma è un corpo estraneo alla sensibilità affilata di Campo, Campo è estranea a Roma.
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