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Quasi un diario

Narrativa

Elio Pecora (Biografia)
Edizioni Empirìa

Recensione di Anna Maria Vanalesti
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Pubblicato il 01/01/2021 12:00:00

 

Quando la scrittura diventa innanzitutto una restituzione a se stessi e agli altri, della vita e dell’esistenza quotidiana? Quando è poetica, quando si arrende alla poesia come via del rifugio e si lascia dominare da essa. È accaduto nell’ultimo libro di Elio Pecora, che si annunzia dal titolo con discrezione, come un diario, ma con la premessa di quel “quasi” che ne limita il carattere personale di confessionabilità e ne accentua la segretezza. Tutto nasce da un desiderio di ordine, da parte di un poeta che ha attraversato e traversato il nostro tempo, sempre da testimone attivo, mai da fustigatore altero che, un giorno, lo dice lui stesso, si ritrova davanti ad una mole di quaderni, di appunti, di diari e viene preso da “una febbre illusoria” di ricomporre e ricostituire lacerti di pensieri e riflessioni, disseminati per anni lungo il cammino, “scaturiti da eventi quotidiani oltre che da letture e riletture”. Una sorta di operazione da “salva con nome”, da realizzare più mediante tagli, eliminazioni e omissioni, che mediante recuperi integrali e totali. È un viaggio, iniziato tempo fa, che continua e prosegue con soste cercate, non obbligate, per riconsiderare e apprezzare “quel poco” che si è ricevuto ma che in verità è “tanto”. Si, perché Elio Pecora è forse l’unico poeta dei nostri giorni che abbia capito come la felicità consista in quel poco che abbiamo, nel godere dell’istante e trattenerlo. Le soste in questo libro coincidono con le quattro sezioni che lo compongono: Pensieri incolori, Scoloriture apprezzabili (Quasi un diario), Citazioni, La poesia. Quattro sezioni dense di vita e di pensiero, nelle quali si evidenzia un andare incessante, “lungo i giorni e le notti guardando, attendendo, cercando”. A governare tale cammino c’è la scrittura, c’è la parola scritta che reca in sé una grande responsabilità, quella di “consegnare” agli altri l’invito a resistere, senza disperare, collocandosi fuori e lontano dall’immenso “chiacchierio” che caratterizza questo tempo. Il poeta che sin dalla giovinezza ha creduto nel dovere di “restare”, compiendo ciascuno con integrità morale il proprio compito, conferma nel libro “quasi diario”, che ripercorre e riassume la sua esistenza, il patto giovanile stretto con la poesia, di non abbandonare mai la via dell’onestà, un patto che discende da Leopardi e passa per Saba e Penna, seguendo la via del canto.

“Chi può in un’epoca come questa – si chiede il poeta – starsene abbarbicato a una totalità impossibile, inesplicabile? Già è sorprendente ritrovarsi in qualche frase, averla consegnata al sé stesso che forse la rileggerà”. È un modo per abbattere le barriere tra sé, gli altri e le cose, così come la poesia è la stanza alta e irraggiungibile nella quale il poeta se ne sta contento.

Il concetto della “stanza del poeta” è connaturato alla poesia di Pecora, questa stanza alta e irraggiungibile è la meta che ha sempre inseguito, un rifugio segreto, un altrove ove tutto acquista senso e significato. Il poeta si rapporta continuamente con tale stanza, che è anche interiore ed è solo da lì che riesce ad aprire le porte della mente e a tenere a bada le cose e gli altri, ad allontanare le ombre, come ad allontanare le tenebre dai sogni.

Entra nei giorni l’autore del diario e li affronta con umore diverso, ora cupo, ora allegro, persuadendosi che ordinare il disordine della vita, comporta difendersi dalle paure e accettare le insicurezze, liberando i propri bagagli del superfluo, per viaggiare leggero, come aveva capito anche Giorgio Caproni e poter tenere sempre a bada se stesso.

Il fatto è che nella lunga strada percorsa ha incontrato tanta gente, amici e non, moltissimi viandanti e con loro ha conversato, dialogato, intrecciato esperienze, che sono rimaste dentro di lui e non si possono cancellare, perché sono momenti di vita e di formazione.

Leggendo questi passi, che si succedono nel libro apparentemente senza un ordine cronologico, ma in realtà secondo un iter continuativo interiore, il lettore si accorge che al di sopra delle sezioni o capitoli, si configurano alcuni grandi temi, o meglio alcuni grandi valori che il poeta ha individuato nella sua esistenza e che hanno via via segnato delle tappe precise della sua moralità e del suo carattere: la regalità, l’invitta giovinezza, la bellezza, l’estraneità dell’io ingovernabile e il giardino, il tempo degli insicuri, la promessa di salute, l’onestà delle parole, il sogno della mente. Forse nemmeno lo stesso autore si rende conto che il suo quasi diario ha rintracciato inconsapevolmente una mappa del viaggio, ritrovando e riscoprendo tesori nascosti, che amabilmente restituisce a se stesso e a noi altri. Proviamo a conoscere meglio tali tesori, cominciando dalla regalità.

Che cos’è la regalità? Un atteggiamento? Un comportamento o un portamento? Un insieme di dignità, decoro e nobiltà d’animo, che caratterizza una persona speciale, una creatura che naturalmente può essere considerata al di sopra degli altri, non perché abbia un titolo, o discenda da una stirpe nobile, ma perché sa essere se stessa in ogni circostanza e ha saputo raggiungere un’altezza mentale che inevitabilmente la rende fuori dal comune. In sostanza un tale individuo consegue una sorta di primato che lo contraddistinguerà per sempre. I due esempi che Pecora porta, di Rodolfo Wilcock e di Sandro Penna, sono molto eloquenti: entrambi assoluti padroni di se stessi nella povertà in cui vivevano, non curandosi affatto di ciò che loro mancava, ma accettando il poco che avevano dal punto di vista materiale e tenendosi il tanto che avevano dal punto di vista mentale e spirituale. La loro grandezza consentiva di accostare il tanto e il poco, facendoseli bastare, mettendo sul medesimo piano i due estremi e controllando il vivere quotidiano con la disinvoltura e la forza di un re. La stanza caotica e misera di Penna non ne sminuiva la regalità, anzi l’accentuava, così come la squallida baracca di Wilcock non gli toglieva quel suo aspetto regale, nel gestire i propri giorni. In tutto questo è implicito il concetto che Pecora ha di come dovrebbe essere l’uomo, e come quell’alterezza e quella apparente superbia che a volte sembrano esserci in un individuo, altro non sono che aspetti della sua regalità.

L’invitta giovinezza. L’aggettivo “invitta” significa invincibile, ma anche non vinta, indomita, eroica, indomabile. Ora, che la giovinezza come migliore età dell’uomo sia invincibile, nel senso che finchè dura è forte, combattiva e non fiaccabile, è un dato di fatto, ma nel concetto poetico di Elio Pecora sembra che vada al di là di questo letterale significato, perché la giovinezza può essere non soltanto un’età, ma una condizione perenne dell’animo, custodita e mantenuta attraverso “lo stupore”, la capacità di stupirsi sempre, malgrado l’avanzare degli anni. È proprio qui sta l’invincibilità della giovinezza, che quando diviene uno status dell’animo, acquista una durata perenne e manda lampi, accende bagliori, fa guizzare raggi di luce, alimentando l’amore e l’innamoramento, mai paga di porre al centro delle cose il cuore. È il segreto della “giovanezza leopardiana” a cui è “germano” l’amore ed Elio, ripercorrendo la sua strada a ritroso, si accorge della invitta giovinezza che porta dentro di sé.

La bellezza. Nessun poeta ha mai ignorato la bellezza, tutti ne hanno fatto un obiettivo da raggiungere e contemplare nelle proprie opere, ma i modi di perseguire la bellezza e raggiungerla sono stati differenti. Elio Pecora si lascia sorprendere dalla bellezza e non la trova soltanto nella natura, nei colori, nei suoni, nelle forme spettacolari che ci circondano, che rappresentano gli aspetti più facili e più consueti da vedere, ma anche nel gesto di un padre che bacia i capelli d’oro del suo bimbo, o di un cagnolino che smette di guaire quando da dietro la porta sente fermarsi una persona che lo chiama e non lo fa sentire solo. In sostanza la bellezza non è solo apparenza esteriore, ma è commozione, tenerezza, purezza interiore ed è propria della poesia, perché è la poesia che si riconosce in lei, non viceversa. Questo accade di continuo nella poesia di Pecora che sfiora cose e situazioni, penetra persino nei piccoli esseri che abitano un giardino e ne coglie il fremito, trasformandolo in parola, per restituire in forma di vita quella bellezza nascosta e segreta.

L’estraneità dell’io ingovernabile e il giardino. L’uomo non si rende conto che il primo estraneo con cui deve avere a che fare è il proprio io, che lui crede di conoscere, ma in realtà è un perfetto estraneo, non soltanto per le reazioni inconsulte che spesso ha, delle quali lui stesso si stupisce, ma per il suo continuo alfieriano volere e disvolere, che rappresenta la parte più ingovernabile di sé. E dunque il poeta prova a governare l’io, scrivendo, aggiungendo, abbandonando alcune pagine, per poi riprenderle, come per un gioco ininterrotto, che si compie a latere, oltre le sciagure quotidiane di cui parlano i giornali, oltre le vicende d’ogni giorno, oltre l’infinito chiacchierio e pettegolezzo di cui son pieni i media. Poi, tornando nella sua casa-giardino, l’uomo ritrova la pace e il poeta ritrova la poesia, che è lì ad attenderlo tra i meravigliosi verdi, splendenti dopo la pioggia e le piccole rose spuntate forse per salutarlo. Questa casa lui l’ama, ma dovrà lasciarla, per tornare a Roma, città che lo incanta ma pure lo incatena, intanto nel giardino scrive qualcosa che “gli pare riuscito”, in quel giardino che “compensa le mancanze” e che “parla una lingua senza parole, indenne da ogni sviamento e balbettio”, le due cose dalle quali Pecora si è sempre tenuto lontano. L’io non è più estraneo a se stesso.

Il tempo degli insicuri. Che tempo è quello nostro, vorticoso e tremendo, che fugge, mentre noi vi stiamo dentro ed esso sta dentro di noi? Tutto corre, tutto precipita, gli anni, gli amori, la prestanza del corpo, mentre noi siamo “il sogno che chiamiamo vita”. Il poeta scopre che, anche se il tempo gli fugge addosso, egli ne avverte l’eternità, oltre alla caducità e alla provvisorietà, il tempo lo consuma, ed egli consuma il tempo. Noi cambiamo, ma siamo ancora quello che eravamo prima, diversi e uguali. Eppure se ci guardiamo intorno scorgiamo una folla di insicuri, chini sui cellulari, sugli ipad, a caccia di distrazioni, più che di notizie, con cui autoingannarsi e ingannare il tempo. Dai media si attendono certezze e giungono invece annunci di catastrofi, discorsi colmi di insulti, si schierano su fronti opposti, uomini da poco che vogliono tenere il potere e comandare il paese, senza saper nemmeno comandare a se stessi. In contrasto con tutto questo la pubblicità impazza mandando immagini di vita felice, di piaceri impagabili che inaugurano ogni nuovo mattino, di famiglie serene, di volti contenti, come se fuori regnasse una serenità sovrana e non ci fosse alcun pericolo. Bisognerebbe mettere ordine nel tempo, cercare soluzioni semplici per una realtà complessa che sarebbe da scomporre. Bisognerebbe avere una maggiore capacità di comprensione, smettere di autogiustificarci come facciamo, attribuendo agli altri ogni causa di male.

Una promessa di salute. Il poeta prova a risalire alla prima volta in cui la scrittura si “palesò”in lui e arriva così all’adolescenza, ove ritrova la “consegna” che gli fu fatta, quella della scrittura appunto, non per diventare un suo bene esclusivo, ma per essere una “restituzione”. Avvenne allora il mirabile patto: poichè aveva ricevuto questo talento, “quello che avrebbe scritto di suo, sarebbe stato tutto da consegnare a sua volta, a quanti sostassero anche solo per poco nelle sue paginette”. Da quel momento non ci fu mai la resa. Bisognava guardarsi per scrivere ed Elio lo fece, bisognava aver certezza di sapersi guardare ed egli l’ebbe, né gli sfuggì che quella consegna fosse una promessa di salute, una voglia ostinata di restare. Per un poeta che ha sempre creduto nella responsabilità di rimanere al proprio posto e di farsi bastare quello che si ha, “restare” è un dovere, un’avventura, come egli stesso la definisce, alla quale non ci si può sottrarre. Scrivere è il modo di restare nelle cose e nel mondo, ma non per una fama acquisita, bensì per una partecipata esistenza insieme agli altri e a questo punto interviene la poesia che va al di là dei suoni e delle parole, valica “il niente” e accenna al mistero.

L’onestà delle parole. Dell’onestà della poesia ha parlato Umberto Saba una volta per tutte. La poesia non può che essere onesta ed Elio Pecora, che dopo Saba e Penna ha portato avanti la linea del canto, ha fatto propria questa regola. “La poesia - egli dice - vigila sulla nettezza e sull’onestà delle parole”, la poesia significa “fare” e non può essere fatta da bugiardi. Pecora prende le distanze da tutto ciò che è falso e vuoto e quindi anche da una lingua che non sia viva e che non appartenga al tempo in cui ci troviamo. Nei tanti laboratori di poesia che ha tenuto in molte scuole italiane, uno dei punti su cui ha sempre insistito è stato il richiamo ad adoperare la lingua vera, dell’oggi, non del passato, come purtroppo alcuni tendono a fare credendo di conferire così una patina di aulicità ai loro versi e realizzando invece patetici svolazzi ottocenteschi. Il che non significa mancanza di eleganza, anzi, la lingua mantenendo la sua attualità di suono e di senso, raggiunge una dignità e compostezza che direttamente le assegna un tono alto e raffinato, ma soprattutto un’onestà di espressione.

Il sogno della mente. La poesia può toccare degli eccessi, accendersi e slargarsi in mille significati, ma deve sempre essere vigilata dalla ragione, per non rimanere solo un sogno della mente. Per questo la poesia deve essere disposta alla rinuncia e all’assenza e in merito a questo è assai valido il riferimento che Elio fa ad Orfeo, la cui testa, pur smembrata dalle Menadi, continua a cantare, e il suo è un canto di rinuncia e di assenza. Via dunque le chiacchiere, vada lontano ogni mormorio rumoroso dalla poesia, perché essa non vuole mostrarsi, non vuole ignorare le sconfitte, né affermarsi a qualsiasi costo! Sottovoce si confronta con i grandi, si autocensura, denuncia la menzogna, ma resiste alla sconfitta e al dolore. Molti gli esempi portati in questo libro da Pecora, specie nella sezione intitolata Citazioni, ove sono chiamati in causa i poeti più famosi, dai classici ai padri spirituali, della poesia del Novecento e del Duemila, testimoni di una intermittenza del cuore e di un unico, medesimo sogno della mente.

 

 

In definitiva il libro è percorso da un brivido che giunge fino a noi lettori, nel sentirci coinvolti in un itinerario umano che è nostro, che è di tutti, perché apparteniamo ad un universo che crediamo divino, in cui nasciamo e poi moriamo scomparendo, ma dopo essere stati parte integrante del mistero della vita. Il brivido che avvertiamo muove dalla poesia di Elio Pecora, che pervade la limpida e commossa prosa di questo libro, mutandola in una narrazione poematica con un suo singolare andamento lirico.

 


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