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Dalla raccolta edita:Il sogno e la sua infinitezza

di Ninnj Di Stefano Busà
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Pubblicato il 18/02/2012 11:01:21


SI RIPORTANO ALCUNI TESTI della raccolta edita: IL SOGNO E LA SUA INFINITEZZA
di Ninnj Di Stefano Busà


Non che io conosca la geometria dell’aria
il volo del coleottero sul ramo,
dentro la morte dell’estate è il suo flagello,
la linea di demarcazione, la palude stigea
la foglia che marcisce e alimenta la notte
incombente, senza volto e nome.
Una luce, la nostra, che ha il debito dell’usura,
l’orizzonte sempre lontano.
Possediamo il godimento, il ramo stento,
la fitta del rovo: ogni vascello naviga a braccio,
lo scafo affonda, eppure sfaglia la memoria,
la sua radice mortale di lussuria.
Rinascere poi è come tentare
quel poco che non conosciamo, la verità
è sentiero inesplorato, sasso duro a spezzarsi,
eppure è chiaro il giorno, c’è tanta luce intorno.





Respirami in limine di campo,
dove le spighe non maturano,
regalami lo strappo dell’abbraccio,
il fiore d’innocenza, la melagrana spaccata
al solleone.
Lo sfaglio della terra ci rende calvi di vento,
col ritmo di meraviglia pronto a morire,
ad offrirsi alla falce della carne,
alla forma che cancella tutte le altre forme
nella minuscola gola di farfalla,
dove la minima distanza è dolorosa,
taglia in due il seme e la sua storia:
la visuale delle cose diventa già memoria.




Poggio le mani sul tuo cuore
sono falce e spiga che fiorisce e lenisce,
m’invento l’ostinazione delle pieghe,
mentre i tuoi ventricoli sanguinano,
anche la vita con le sue distanze minime,
è un giro di valzer scordato.
La tenebra avanza
col passo stanco del plotone senza obbedienza,
in ordine sciolto o in fuga,
come dai giorni di dolore o dall’inverno
che non ha fuochi per scaldare.
Così la morte, una lingua muta
che sbianca carne e sangue,
fin dove scorre il soffio della linfa,
a sciame cattura il brusio tenace della vita.






Anche il giorno si oscura,
senza sussulti, senza saziare la fame
che indaga tutte le varianti del pasto.
Possediamo una sola geometria di sguardi,
un germogliare labile di cieli,
che incrocia flussi migratori,
ancora col fiato sul becco,
quando la morte li attende al varco sulla rupe,
dove il viaggio si fa memoria d’aria,
sorriso di radici inquieto,
alghe e rocce che portano in mare aperto.
E non è che io cerchi l’altra metà del cielo,
un ritorno d’erba dell’età primeva,
Il mio sogno ha sassi duri e licheni
sfrangiati dal troppo rinascere
fiore e radice. Ora è seccume di ramo.




Nell’incavo delle tue braccia un sussulto,
veglia che induce l’un l’altro
a godere dell’amore,
nell’attesa del tutto compiuto che artiglia
la minima gioia, l’edera tenace della storia,
sono onda di tenerezza sul volto.
A tratti, ci restituisce l’innocenza, l’amore,
mentre calziamo l’ipotesi del volo,
ma non abbiamo ali che ci spingano
in mare aperto, lì dove si compie
il miracolo di luce, lo spoglio della vita
che ti respira e ti perde, come il sole d’inverno…




In un minuscolo filo d’erba
tutta la dolcezza che ci resta.
Respiriamo la vita come zolla dopo la mietitura,
mordiamo l’aria secca, la solitudine
del vento, fino a sperderci nel volo breve
di una rondine di mare.



La solitudine, liscia come gli anni
senza vento e bocci, solo radici nodose
e il groppo in gola che ricorda
il pesce sott’acqua, la sete sulla pelle.
Si compie poi la dolcezza che inonda,
la vanità della parola che non cede
alla mestizia rassicurante della carne,
al rosso del sangue e al miele,
fino al colpo finale che toglie e non dà,
al respiro vicino alla resa breve e convulso.





Ho radici che percorrono linee d’acqua,
come il vaso di Pandora tendo a scoperchiare
la vena del cuore, la perfezione di un ritorno,
la nostalgia del germoglio sotto il sasso.
E non vi è viaggio che inizi con altro viaggio,
binari in disuso, sentieri inconoscibili,
disavanzi da poveri guitti.
Morde la fame come un giorno senza requie,
sfaglia vite logore,
un declino che ha l’attraversamento dello Stige,
la caparbia bellezza dell’inverno
dentro la morte disseccata e scabra.
Ogni gesto si connette all’altro,
ogni vocalizzo-parola entra nella memoria,
la perfora, come lume che ristora la tenebra.
Dalla geometria del fango origina
la nostra prima sete.



Ci lasciamo alle spalle
un debito di radici e foglie,
le nostre prime schermaglie d’amore,
un sistemico accavallarsi di germogli,
senza la facoltà di disvelarsi, di aprirsi
in boccio alla faglia del cuore.
Resta un desiderio inesplorato
quel cercarsi, quell’esplorarsi
con la caparbietà della logica,
che s’apre all’ostinazione dell’autunno.
Cancelliamo i giorni dal calendario,
ci offriamo alla dimenticanza.
La vita che viene, dici, non è scritta
per darci la facoltà della meraviglia,
la fioritura fuori stagione, l’anelito
dell’aquila alla rupe.




Ogni cosa è realtà di assenze:
valori nominali azzerati,
persi i contatti minimi con la felicità,
ci resta la tracotanza dell’asfalto bagnato,
la grandine o l’immagine crepuscolore,
il sole a perpendicolo.
Ritmi tentacolari,
mannelli di dolore come giaculatorie.
Intercediamo a comando, sommando l’ordine degli addendi
i dividendi: la dimensione ultima strapiomba,
cerca gli appigli necessari
per trattenere le cose mai avute.
Qualcosa poi resta a segnarci il silenzio,
un fiore reciso o la sera che ci lascia
come un pensiero mai nato, (solo sognato).



Solo un abbraccio chiesto e ridato,
un piccolo legame amoroso,
la folle mestizia della notte a rischiarare
il biancore delle crepe, quando il buio
è senza riparo, una distanza dal solco
o dal binario che scinde la vita,
l’ostinazione del morso nella carne.
Ogni cosa è inizio alla sua fine,
un sole che ride al mattino e cerca
la sua massima concentrazione
nelle nuvole alte della stratosfera.



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