Testo poetico d’esordio questo di Michele Di Tonno, analista economico e finanziario presso una delle principali banche italiane ma soprattutto per quel che qui e a noi interessa quotato pittore romano che in queste pagine viene a raccogliere una produzione in versi già particolarmente apprezzata sulla scena nazionale. Non è una novità certo l’incontro tra la poesia e l’arte, il curioso forse in questo caso è la dinamica di un’avventura comunque rivelatasi di là degli anni (la classe è quella del 1966), non subitanea; seppure a ben leggere, a lasciarsi disegnare dal dettato di Di Tonno nulla venendo improvviso, tutto plasticamente, naturalmente pronto in una lingua cui l’occhio ha saputo ben coltivare la voce. Il perché della poesia è presto detto così nella bella intervista rilasciata agli editori, quei Giuliano Brenna e Roberto Maggiani, ben usi a sinestiese dell’espressione e del cuore. L’esigenza dello scrivere infatti, maturata da una spinta interna anche per le affinità e i punti di contatto tra le due arti si inserisce, come rivelato “in un processo di ricerca personale, artistica e umana, sempre orientata alla relazione”. L’occasione, lo spunto decisivo nel Natale di qualche anno fa in cui nel dedicare una lettera alla figlia trovando difficoltà, tra i tanti ritagli, a farsi spazio fu la consapevolezza della poesia come il genere più congeniale. Ed ecco allora, in un dettato spesso breve, di pochi e brevi (quando non brevissimi) versi, di fulminee e rivelatorie immagini di un mondo nella disciplina di uno sguardo, e di uno spirito dunque, riportato al calore di una custodia che ha nella preziosità della natura il gemme in divenire del suo stupore. E del suo confidare, richiamato come accennato in esili strutture, in filiformi e a volte appena adombrate figure e aspirazioni dell’anima come a inserirsi tra le espanse aperture del quotidiano aggiungendo solo una silenziosa aderenza nel confondersi dell’assenso. Una lezione questa molto orientale, e che comunque ben si specchia coi tratti della copertina di cui lui stesso è appunto l’autore.
Così se a proposito di esilità della figura (del suo procedere come nella perdita dei tratti più che nell’acquisizione) non può non venire alla mente l’arte di Giacometti (“L’Homme qui marche” per esempio - l’uomo che cammina) di lui potremmo parlare dell’uomo che si confonde. Ma che non si perde sapendo nel rumore della vita trovare una tregua certo, dilatata però poi nell’acquisizione di una visione che si fa certezza di un bene che non si può strappare. Una certezza, una visione che in fondo è quella dell’amore, delle relazioni nella dinamica vasta delle sue accezioni, di una ferialità, come ricordato dalla Vanalesti nella postfazione, sempre alla prova di un difficile equilibrio. Il recupero è quello, il “riposizionamento” è quello, all’interno dei segni che lo raccontano, di un umano senza edulcorazioni ma rammentato in luogo delle sue aspirazioni nel riaffiorare intenso e leggero delle sue evocazioni. In una settantina di testi possiamo dividere il libro in una primissima parte, una sorta quasi di introduzione, in cui il confronto con l’esterno (in secche e lapidarie intuizioni) ha nello stupore l’avvertimento del tempo, una seconda dove a dominare è la donna amata nel cui incontro è lo scioglimento di ogni “cosa umana”, del riconoscimento di sé come essere al limite e non disgiunto, ed una terza in cui il procedere ha nelle distonie dell’uomo le sue attenzioni. Su tutte l’unità è data dalla consapevolezza di un tempo altrimenti condannabile (“la diffusa menzogna/il lento assassinio di ogni illusione”) cui l’uomo sembra perdersi per separazione dalla terra stessa, per la sua non conoscenza e la possibilità di ritrovarsi, fuori di sé laddove nell’altro “l’universo riappare” come nel bellissimo brano dedicato alla moglie. Così accanto alla coscienza di un male che non cessa di provarci sussiste anche, a proposito di stupore, quello di una natura, di un bene che ci deterge, che ci invita, ci sa e ci accetta come siamo. E che ci condivide, a saperlo cogliere, a saperlo cercare; sì come nelle tante e riuscite scansioni di una risacca che i due amati, nei più dei testi, avvolge nella promessa delle sospensioni.
Come di sé parlando in relazione a lei altro sa di non essere- di non essere ancora sulla soglia della sua voce- così l’uomo non è, non lo è mai ancora sulla soglia di ciò che lo investe e che solo un avanzare inesausto nel rimando della veglia, come nel caso dei testi di Di Tonno, può accogliere richiamandone l’apertura (a tratti rimbaudiana):”dall’alta rupe miro in fondo al mare./ Lo so, mi dico,/non sono un tuffatore,/sollevo lo sguardo,/mi lascio volare”. Se la tregua è la poesia allora come esplicitamente rivelato, come accennato all’inizio la poesia non dice la tregua ma quell’introiettata visione delle sue rivelazioni che fanno dell’uomo suo portatore a fronte delle negazioni. L’esercizio torniamo a ripetere è nella vigilanza della cura cui l’autore romano sa dissetarsi e trar fondo nell’esemplarità dell’offerta (“intersecarsi nelle nebbie/ridisegnare i perimetri/duplicare le chiavi:/ vi è altro modo di concedere sé stessi?”). L’esercizio è quello di una parola cui, come parlando per tutti noi, leva in chiusura l’appello e che andando a concludere interamente riportiamo invitando alla lettura: “ho sempre temuto le parole,/appartengono al mistero:/il loro peso è variabile/il loro moto è invisibile,/sono voce, sono aria/ignoto è il loro approdo./talvolta gli occhi ne tradiscono il passaggio,/talvolta sono la fronte o la bocca a fare cenno./e tu, delle mie parole/cosa ne fai?”.